Zerocalcare e la profezia di Malefix

Michele Rech, in arte Zerocalcare, è una star del web e delle classifiche. Le sue storie a fumetti raccontano la vita dei trentenni di oggi, sospesi fra il mondo adulto e un’adolescenza che sembra non finire mai. Protagonisti: Zerocalcare, alter ego dell’autore e della sua generazione; l’Armadillo (un «animale guida» antropomorfo); persone, miti e personaggi di fumetti, film, cronache, cartoni e videogiochi: da Lord Pener a Dragon Ball, da Lady Thatcher ai Cavalieri dello Zodiaco. Non pervenuti, anzi ignorati i Bonelli (Tex, Dylan Dog, Zagor…): gli eroi più longevi del fumetto italiano.
 
Laggiù, nella riserva indiana, giurano che gli faranno la pelle (Tex: «Zerocalcare?! diamine!», Kit Carson: «Satanasso! tizzone d’inferno!»); a Londra, al numero 7 di Craven Road, lo sconcerto è palese (Dylan: «Giuda ballerino!», Groucho: «Zero come le sue conquiste!»); a Darkwood, manco a dirlo, solo Cico conserva il buon umore («Cocciuto, buffo, bello in carne: Zagor, l’Armadillo sono io!»). Qui da noi, invece, dove i balloon non restano per aria ma rotolano in terra, Zerocalcare è un mito, un portavoce di successo dei trentenni tardogiovani, delle loro ansie paure e aspirazioni.
Francese per parte di madre, e figlio a tutti gli effetti degli anni ottanta, Michele Rech nasce ad Arezzo nel 1983, ma trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Roma, nel quartiere di Rebibbia, «un’isola felice – assicura – tra Pescara e San Francisco»: lì vive tuttora, pago delle attrattive locali (i resti fossili di un mammut) e prodigo di testimonianze d’affetto («Rebibbia regna»). Dopo il diploma e una «maturità» sui generis al G8 di Genova («pigliai gli schiaffi dalla Forestale»), il nostro coetaneo cartoonist tenta la strada in salita dei «disegnetti» – li chiama così, con molto understatement e, per mantenersi, svolge lavoretti precari: ripetizioni ai ragazzini, traduzioni di manuali di caccia e pesca, impieghi non entusiasmanti presso studi grafici e check-in aeroportuali. Fondamentale, nel portfolio di collaborazioni e sfighe («Liberazione», «Carta», «Repubblica XL»: tutti chiusi), si rivelerà l’incontro con Marco D’ambrosio detto Makkox, fumettista di lungo corso e fondatore della rivista «Canemucco» (chiusa anch’essa). La valorizzazione del personaggio di Zerocalcare, promosso dalle fanzine dei gruppi punk ai graphic novel, si deve infatti non solo al talento di Michele, peraltro indiscutibile, ma anche alla tenacia con cui il più scafato Makkox ha saputo guidare il suo giovane apprendista nei meandri di un’industria culturale in rapida trasformazione.
Il nom de plume, desunto dalla reclame di un detersivo, reca la data del 2001; tuttavia l’anno Zero è il 2011: nasce Zerocalcare.it, «tipo un blog però a fumetti, una storiella un lunedì su due». Farina della mente di Makkox, vero, ma il punto di riferimento è Gilles Roussel in arte Boulet, ideatore di Bouletcorp, un blog tradotto anche in inglese e in giapponese, e seguitissimo oltralpe, overseas e in Estremo Oriente. Alle rivistine per carbonari i fumettisti di oggi preferiscono insomma i webcomics, che permettono di contenere i costi e intercettare un pubblico vasto, non necessariamente avvezzo alle nuvolette da edicola o alle chicche da fumetteria. Poco male: ci penseranno le condivisioni sui social network a far girare le strisce, a presentarle cioè ai lettori papabili ma distratti, che non sanno cosa si perdono. Lettori, mai dimenticarlo, che sono sempre potenziali acquirenti: lo scopo del blog è invitare i followers all’acquisto del libro cartaceo (anche autoprodotto), vale a dire un racconto inedito di più ampio respiro e/o una selezione di quanto è già disponibile gratis in Rete.
Il lettore può partecipare al processo creativo lasciando commenti a piè di pagina (capolavoro! genio! daje!); il cartoonist si crea una fanbase aggiornando regolarmente i post a fumetti («ma non è un patto de sangue», precisa Calcare) e gratifica i lettori incontrandoli alle presentazioni dei libri o alle comic convention, dove la fame di autografi non si placa certo con qualche scarabocchio da medico condotto: per ogni fan in coda ci vuole un disegnino personalizzato, per fare il fumettista ci vuole una pazienza infinita.
Pratiche editoriali e promozionali più e meno recenti tendono dunque a convergere: dall’upload su Internet si passa alla vecchia stampa in tipografia, e da lì, se la Dea bendata è propizia, ai tipi di un vero editore. Calcare docet: la prima mossa è stata l’apertura del blog, poi sono arrivati il volumetto curato e finanziato da Makkox (La profezia dell’armadillo) e, dopo le ristampe a furor di popolo, un contratto con la Bao Publishing, la Mecca italiana del fumetto d’autore.
Nel mondo delle nuvole parlanti, la riformulazione dei generi narrativi e dei modelli di business si è dimostrata vantaggiosa per molte delle parti in causa: i fumetti in forma di romanzo si sono insediati stabilmente in libreria, Gipi – parole sue! – ha una bella casa con giardino, Calcare per poco non vinceva il Premio Strega. Forse però il vincitore morale è la materialità del libro: il fumetto resiste alla concorrenza dell’e-book non solo per ragioni figurative, ma perché i rituali collettivi che la sua fruizione comporta, dalla frequentazione delle fumetterie agli incontri con gli autori, necessitano del supporto cartaceo.
Chi ne esce sconfitto, almeno per il momento, è il fumetto seriale Bonelli, le cui vendite subiscono da tempo una preoccupante erosione, che riflette l’attuale crisi d’identità delle edicole (se i giornali di carta spariscono, Tex si troverà a convivere con le Daygum Protex) e, cosa ben più grave, rigidità intrinseche alla formula bonelliana, come l’elefantiasi redazionale (cadenza mensile, ripartizione del lavoro tra testi e disegni) e la serialità a caratteri fissi (Kit Carson resterà in eterno un «vecchio cammello», Kit Willer rimarrà single).
Zerocalcare, come molti suoi colleghi, non esita a prendere le distanze da Tex, Dylan Dog, Zagor e soci («sono l’antiestetica mia», confessa a «RiotVan»), con una baldanza che, a dirla tutta, meriterebbe uno dei rabbuffi di Lord Fener («Trovo insopportabile la tua mancanza di fede!»). Però il vecchio Dart, lo so, non ha alcuna intenzione di strangolare il nostro amico: lo Jedi è ospite di alcune storie, e la sua maschera è una presenza fissa sul banner del blog. Accanto a lui, nelle strisce a fumetti, compaiono il figlio Luke e tanti altri protagonisti della cultura pop degli anni ottanta e novanta: eroi dei cartoni animati, delle serie tv, dei videogiochi, dei film più famosi, che il lettore è chiamato a riconoscere, nello stupore continuo del «te lo ricordi anche tu? !».
Il segreto del successo calcariano – e non è un segreto che il precursore anche in questo campo sia Boulet – sta proprio nella scelta di riportare sulla Terra, diciamo così, la «galassia lontana lontana»: le figure che hanno plasmato l’immaginario fantastico di fine secolo vengono messe alla prova nella vita di tutti i giorni, col risultato che si ride o ci si commuove fino alle lacrime. Qui Zero è in buona compagnia: basterà ricordare l’americano Jeffrey Brown, autore di fiabe illustrate in cui Dart, con tanto di corazza e respiro da sub, torna a essere papà Skywalker: prende il tè con la piccola Leila, fa il solletico a Luke con la Forza, usa la macchina della carbonite per fare il gelato.
Si dirà che un bel gioco dura poco: giusto, però il suddetto Brown quest’anno ha toccato quota sette libri su Skywalker e figli; e sarebbe ingeneroso, oltre che sbagliato, ridurre il fenomeno Zerocalcare a citazionismo compiaciuto o magari un po’ infantile. Tanto più che il nostro fumettista, non avendo frequentato l’università, si astiene dagli appelli scontati al postmoderno: e di questo gli siamo grati. Piuttosto, sembra che il recupero di personaggi altrui, ma arcinoti al punto da diventare patrimonio comune, sia parte di una tendenza generale alla metamorfosi del lettore in prosumer: consumatore di narrazioni e produttore a sua volta di fanfìction e universi espansi. Per Zero il riuso assume un valore esistenziale: ciò che gli preme non è sviluppare una saga pop, o volgerne in paradosso i nessi di coerenza, come fa Brown, ma rievocare la visione del mondo che i protagonisti della saga hanno inculcato nel giovane Calcare e nei suoi coetanei, al punto che oggi «Han Solo è più reale di Obama». Solo così si può rappresentare «l’epoca della spensieratezza, del posto fisso e della fiducia nel futuro a tempo indeterminato» (Come sopravvivere alle serie tv), per capire cosa nel frattempo è andato storto, ma senza cedere a facili nostalgie.
I sogni beati dell’infanzia, si sa, ci mettono poco a trasformarsi in incubi: contrariamente alle attese, Calcare nella vita non fa il paleontologo, e nessuno ce l’ha fatta, a clonare i dinosauri. Fragili sono le istituzioni entro cui il cucciolo d’uomo muove i suoi primi passi – i genitori divorziano, la scuola è una palestra per bulli feroce è il mercato del lavoro. Il giovane di belle speranze diventa così un potenziale sociopatico, che per lo più vive chiuso in casa con un amico immaginario: l’Armadillo. Il Calcare narrato ricorda il profilo biografico del Rech narratore, che ostenta di raccontare se stesso e, di concerto, le vicissitudini di «una generazione, quella mia, tra i venti e i trent’anni». La sua matita disegna figurine che rielaborano suggestioni diversissime (da Cattivile ai Disney e Lupo Alberto, dai manga alla Marvel) e danno forma straniata e fantastica a questioni concrete: Zero ha le braccine di Tiramolla perché lo Zero con le braccia vere non può certo passare i suoi giorni a disegnare bicipiti, e soprattutto perché, per risparmiare, fa soltanto «trentacinque euri» di spesa ogni tre settimane. Se ha pure il tic di interloquire con una creatura di finzione, tendente al ripiego regressivo nel guscio, non c’è granché da stupirsi: sono le conseguenze del lavoro creativo svolto a casa e in solitudine, e di una diffidenza verso il prossimo che sboccia all’età di due anni («a me pare così evidente che [mamma e papà] hanno provato a sbarazzarsi di te», pontifica un baby Armadillo in Dimentica il mio nome) e culminerà a diciassette con la scoperta che i Forestali non salvano gli scoiattoli dagli incendi nei boschi.
Il «passaggio da ragazzo a uomo» è il perno o meglio il patatrac intorno a cui ruotano i romanzi di formazione a fumetti di Calcare: l’accesso al mondo adulto si tinge di toni scopertamente funebri («i trentenni non esistono più, come gli gnomi, il dodo e gli esquimesi. Adesso c’è l’adolescenza, la postadolescenza e la fossa comune», Ogni maledetto lunedì su due). Gli oroscopi a cura dell’Armadillo («ottimistici e irrazionali») non sono profezie ma promesse mancate; e le amicizie muoiono anche al di fuori delle metafore. Sulla scomparsa di Camille, amica divenuta estranea e poi anoressica, si apre e chiude il libro d’esordio; Un polpo alla gola racconta della morte accidentale di un compagno in una casa abbandonata, luogo di iniziazione ai giornaletti porno; la cornice di Lunedì è la storia del naufragio di una nave del tutto simile al Titanic (Calcare fresco di diploma sopravvive a stento su una zattera); in Dodici è Zero stesso che rischia di fare una brutta fine, durante l’invasione degli zombie («Mi sa che sto morendo»); Dimentica il mio nome prende le mosse dalla dipartita dell’amatissima nonna.
I trentenni novecenteschi erano «grossi mammiferi con caratteristiche di maturità, emancipazione e stabilità»: vedendoli, il piccolo Zero poteva ben esclamare «un giorno anche io sarò così!» (Lunedì). Se le cose sono andate diversamente, non è solo colpa del grande Malefix, il cattivo degli Acchiappafantasmi della Filmation, reo di aver lanciato contro Calcare una maledizione da brividi: «a quarant’anni starai ancora in doppia con un fuorisede calabrese!». Nella sfera pubblica e privata, come nella navigazione in mare aperto, mancano figure di rilievo su cui modellare l’io adulto: Kurt Cobain non convince più nessuno («Io all’età tua già mi ero sparato», Lunedì); Calcare senior ha le fattezze del padre di Kung Fu Panda («C’hai quasi trent’anni… n’è mejo la fregna?», Profezia); il capitano della nave si scoprirà essere un ciarlatano di nome J. Edgar Findus, impanatore di merluzzi con un «bastoncino panato» (infortunio sul lavoro) al posto della gamba di legno (Lunedì).
Nella famiglia Calcare, è Ma’ a portare i pantaloni e, va da sé, tantissima pazienza. Elisabeth ha le sembianze giunoniche (e direi geniali ! ) della Lady Cocca del Robin Hood Disney, nonché le forme maestose di un Monte Rushmore capitolino: «il monte Cocca». «Mia madre – ammette Zero – è sempre stata l’ancora di salvataggio» e, aggiungo, il lettore numero uno di tutte le sue storie: «non ci rimani male se dico nei fumetti che sei cicciona, ve’?». La montagna, madre o Madre Natura, non è però immune da crolli e smottamenti: al funerale di Mamie, la nonna nonagenaria, Ma’ scoppierà in lacrime («Oh no, il monte Cocca sta franando!»).
La presa di coscienza dei limiti della Lady più tosta di Rebibbia («la persona di cui non mi sono mai dovuto preoccupare, nonostante i miei sensi di colpa») promuove l’emancipazione dal grembo materno, l’assunzione di responsabilità che non si fermino al vivere da soli senza deperire («hai mangiato?») o al prendersi cura di Mordicchia, la pianta carnivora («mi sento come se dovessi decidere se abortire o tenere un bambino», Profezia). Sulla strada verso il mondo grande, prima del traguardo di un monte proprio benché «fracico», Calcare troverà anche l’ostacolo di un grembo surrogato: il Pisolone, «orrido sacco a pelo a forma di orso che simulava un morboso rapporto marsupiale simbiotico» (Nome).
La culla zoomorfa si trasformerà in un orso in carne e ossa, pronto a divorare il suo ospite adulto, in cambio di comodità e sicurezza. La svolta successiva è riconoscere che l’Eden non è mai esistito. Nei ricordi più lucidi, il mondo dei «pischelli» diventa un parco della preistoria dove i dinosauri si dividono in branchi e fanno a pezzi i più deboli: «nessuno – recita il monito affidato al Polpo guarisce dalla propria infanzia». I confini netti e progressivi, del resto, esistono solo nei videogiochi: «possibile – si chiede Calcare che non mi sono accorto che avevo finito il livello?». Facile allora, per due nevrotici quali Zero e Armadillo, scambiare il Tempo (sveglia, abito nero, becco lungo da monatto) per il «Guardiano del tempismo», il santo protettore delle occasioni che, sorpresa!, non arrivano mai: «lo capisce pure un macaco – replicherà il presunto guardiano – che la sveglia suona quando scade il tempo» (Profezia).
E pazienza se, finito il livello, viene fuori che «the princess is in another castle». Zerocalcare ha una sua vita sentimentale, per quanto saltuaria e a noi poco nota: quella che ben si addice a un individuo ipersensibile (ai no grazie replica con l’harakiri) e supercocciuto (vale più «un bianchetto prestato di una serata abbracciati»). L’«archetipo universale di bellezza femminile» resta Lady Marian: Lady… Ma’, per gli amici (Dodici). A casa di Ma’, peraltro, Calcare ha ancora la sua bella cameretta, dove l’attende il Castello di Skeletor: «se sta cazzata dei fumetti va male, io torno a vivere qua» (Nome).
Precari a tutto tondo, i trentenni di oggi: negli affetti, sul lavoro, nella loro testa. Ma non stupidi: il passaggio all’età adulta è un lutto che si può superare («[ora] sappiamo – esclama Lady Cocca dopo la vittoria su Pisolone – che possiamo contare su di te»), senza per questo dire addio al passato. Non più «consulenti per programmare il futuro», i protagonisti di film videogiochi e cartoni danno forma alle discrepanze tra realtà e fantasia: Obi Wan si sottrae alle richieste d’aiuto adducendo come scusa le interferenze nella Forza (Profezia); Trenitaja assolda la giovane marmotta Quo per ricordarci che, in alternativa al Frecciarossa, c’è il Treno della Morte (Lunedì); alla morte di Uan di Bim Bum Barn, scopriamo con dolore che il pupazzo era stalliere ad Arcore nel 1980, e «regista occulto» della discesa in campo di Berlusconi (L’elenco telefonico degli accolli).
La critica alle figure pop rientra in una messa a punto satirica dei rapporti generazionali: a spese dei nuovi giovani, indifferenti all’etica Jedi, e dei vecchi che non sanno usare il computer («Non c’è più Google, dici che può essere perché ho pulito il bollitore con l’aceto?», domanda Lady Cocca), ma sono ancora in possesso dell’«antica sapienza contadina» («Ma’, come cazzo si accende il forno?», Lunedì).
Sono però nuvolette a lungo raggio, quelle di Calcare: non hanno il fiato corto delle piccole nevrosi. Da Rebibbia sorvolano Roma, ritratta come «città dei Puffi» e dei «porcini abusivi» in una strepitosa allegoria dello sfacelo romano apparsa su «Repubblica», e poi da lì arrivano giù fino al confine turco-siriano, descritto nel reportage Kobane calling («con il cuore a Kobane»), pubblicato su «Internazionale». A Kobane la sintesi narrativa procede tuttavia a fatica: tra gli sconquassi della guerra, che nei campi profughi impone una sorta di matriarcato, la storia della resistenza curda fa da collante edipico ai ricordi e ai cuori («ogni cosa, oggi, sta a Kobane»), ma in realtà non va oltre un generico invito alla solidarietà tra coetanei («i cuori si modellano, si sagomano sulle esperienze»).
Colpa di Malefix, ci scommetto: colpa della sua profezia. Lo sapeva bene, lui, che un muscolo non basta a render conto delle scelte adulte. E infatti decise di non seguire il cuore, bensì di allearsi con i suoi nemici Acchiappafantasmi, quella volta che Malecic, demone adiposo, gli portò via il potere.