L’adattamento al cinema

Sin dalle origini del cinema, il rapporto tra letteratura e film è stato continuo e fecondo. Gli adattamenti cinematografici hanno però dato origine ad alcune problematiche: quale fedeltà mantenere nei confronti dell’opera originale? Quale dovrebbe essere il ruolo del regista rispetto all’autore del testo scritto? Interrogativi a cui in molti – da D. W. Griffith a Stanley Kubrick sino a Gabriele Salvatores e Matteo Garrone – hanno provato a dare la propria personale risposta.
 
Trascrizione, trasposizione, traduzione, rifacimento o, per dirla con Eco che a sua volta si rifà a Jakobson, trasmutazione. Di tutte le varianti lessicali, il termine più diffuso per indicare la rappresentazione cinematografica di un testo preesistente è adattamento. Inevitabilmente, affrontando il tema dell’adattamento, si solleva la questione della fedeltà o del tradimento (o invenzione che dir si voglia) al testo di partenza ma, prima ancora, è cruciale fare chiarezza sul ruolo dell’autore. Perché nel film bisogna vedersela con ben due autori: il regista e lo scrittore del testo originario.
La storia del cinema ha cominciato a saccheggiare i romanzi dai suoi esordi, fin dai primi lavori di Griffith che, girando molto rapidamente e in quantità industriale – poco meno di cinquecento cortometraggi da una bobina tra il 1908 e il 1913 –, attinge a piene mani dai grandi della letteratura americana e mondiale i suoi spunti narrativi. Costretto all’anonimato insieme agli attori che dirigeva (i nomi dei registi non comparivano quasi mai nei titoli di testa), poco prima del distacco dalla casa di produzione per cui lavorava, nel 1913 Griffith rivendica il proprio status di autore con una pagina promozionale pubblicata su un giornale dell’epoca. La Biograph, che lo produceva, temeva che il personale artistico potesse essere riconosciuto e apprezzato dal pubblico, avanzando perciò maggiori pretese economiche. Da questo momento, il cinema non è più soltanto una questione di storie ma, come ben sottolinea Paolo Cherchi Usai «anche e soprattutto di talenti individuali e di presenze carismatiche» (David Wark Griffith, in Dizionario dei registi del cinema mondiale).
A differenza della letteratura, del teatro, della musica, agli inizi del Novecento il cinema è un fenomeno nascente che muove i suoi primi passi principalmente come intrattenimento, non sviluppandosi nelle condizioni sociologiche delle arti tradizionali. Come nota André Bazin nel suo celebre testo Che cosa è il cinema? (Garzanti 1973), l’attivissimo pioniere francese Ferdinand Zecca e i suoi colleghi «non rischiavano di essere influenzati da una letteratura che non leggevano più di quanto non facesse il pubblico a cui si rivolgevano. In compenso lo furono dalla letteratura popolare dell’epoca, alla quale si deve, col sublime Fantomas, uno dei capolavori dello schermo. Il film ricreava le condizioni per un’autentica e grande arte popolare, non disdegnava le forme umili e disprezzate del teatro da fiera e del romanzo d’appendice». Il pubblico dei primi cineasti è quello del circo, del teatro popolare, delle fiere, dei music hall anglosassoni. Forme d’arte considerate inferiori e per anni sfacciatamente depredate, copiate, trasformate. Nessuno le difende o contesta l’operazione dal punto di vista etico perché la critica cinematografica, a cui spetta il compito di informare gli spettatori, è molto in là da venire e il mestiere del regista, ancora in fase sperimentale, è più incentrato sull’acquisizione della tecnica e sulla messa a punto di un linguaggio visivo che sull’originalità delle storie narrate.
Il riconoscimento dell’autorialità del regista in quanto creatore dell’opera film è tutt’altro che un’evidenza. Si tratta, anzi, di una faticosa conquista di cui si farà promotore il movimento della Nouvelle Vague negli anni sessanta, uno dei cui massimi esponenti, Francois Truffaut, scrive: «[…] il problema dell’adattamento è un falso problema. Nessuna ricetta, nessuna formula magica. Conta solo la riuscita del film, legata esclusivamente alla personalità del regista» (Il piacere degli occhi). E poi precisa: «Non esiste dunque un adattamento bello o brutto. E non esistono neanche film belli e film brutti. Esistono solo autori di film e la loro politica che, per forza di cose, è irreprensibile». Finalmente il cineasta si prende la sua rivincita poiché, in precedenza, si considerava il vero autore del film il personaggio più vicino all’autore del libro, cioè lo sceneggiatore, mentre al regista spettava l’incarico dell’esecutore, un artigiano più o meno capace nel rappresentare visivamente il copione.
D’altronde, si cominciano a delineare due scuole di pensiero a proposito dell’adattamento. Ci sono registi che lavorano solo su storie originali, ideate e spesso anche scritte da loro stessi e altri che programmaticamente attingono al bacino della letteratura, ma non necessariamente prediligendo le opere più riuscite. Quando nel 1963 Jean-Luc Godard mette in scena Il disprezzo di Alberto Moravia, lo considera un romanzetto «volgare e grazioso, tipo quelli che si acquistano nelle stazioni ferroviarie, pieno di sentimenti classici e desueti, a discapito della modernità delle situazioni» (Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema). Godard si sente libero di stravolgere il testo originario e ricontestualizzarlo, attribuendo più importanza al tema del cinema nel suo farsi piuttosto che alle complesse dinamiche del rapporto di coppia dei due protagonisti. Interrogato sulle difficoltà della scrittura cinematografica così si esprime anche Jean Aurei, regista ma soprattutto sceneggiatore, tra gli altri, di René Clair, Jacques Becker e Truffaut: «Spesso è più facile scrivere una sceneggiatura originale che un adattamento poiché le qualità di un libro dipendono in gran parte dalla scrittura stessa. Soprattutto per ciò che concerne il capolavoro. E difficile migliorarlo perché è un soggetto che ha trovato la sua forma. L’adattamento è come fare una statua di La Gioconda. Quando invece non è un capolavoro, si tratta di un pretesto come se si partisse da un fatto di cronaca. Si ha una materia che si può giudicare, sulla quale si può già avere uno sguardo critico» (Anne Huet, Le scénario).
Nessuna opera di Stanley Kubrick nasce da un soggetto originale. Egli pensava addirittura che i migliori film scaturissero da libri mediocri, perché se il romanzo di partenza è eccellente ci saranno due ottiche altrettanto autorevoli che si fronteggiano e il regista corre il rischio di essere influenzato e sopraffatto dalla visione del testo originario. Celebre è la trasposizione kubrickiana di Shining di Stephen King, un grande successo commerciale divenuto un cult movie del cinema horror che, ancora oggi, a trentacinque anni dalla sua uscita, seguita a riscuotere un vasto consenso di pubblico. In questa circostanza, sia il libro sia il film sono esteticamente riusciti, ma è nota la vicenda dello scontento dello scrittore (non coinvolto nella stesura della sceneggiatura) che disconobbe la versione del regista americano perché si discostava troppo dal suo libro, soprattutto per quanto riguarda la caratterizzazione del personaggio protagonista, interpretato magnificamente da Jack Nicholson. Irritato e insoddisfatto, King arriva persino a adattare egli stesso per una miniserie televisiva del 1997 la sua versione di Shining, fedelissima all’originale ma, a differenza del film di Kubrick, piatta e prolissa, al punto da non soddisfare neanche i suoi numerosi fan e da rivelarsi un colossale fiasco. Come diceva Bazin a proposito dell’adattamento della Madame Bovary o Une partie de campagne di Renoir, si può dire che Shining di Kubrick sia più fedele «allo spirito che alla lettera dell’opera» e ciò è compatibile con una «sovrana indipendenza». D’altronde, spiega più dettagliatamente il critico francese: «[…] il fatto è che Renoir ha quanto a lui la giustificazione di un genio certo altrettanto grande quanto quello di Flaubert e di Maupassant. Il fenomeno al quale assistiamo allora è paragonabile a quello della traduzione di Edgar Poe da parte di Baudelaire» (André Bazin, Che cosa è il cinema). In sostanza, più le qualità dell’opera letteraria sono definite e significative, più l’adattamento ne sconvolge l’equilibrio e richiede un talento creatore in grado di ricrearne uno nuovo, differente ma uguale al precedente.
La pensava così anche lo sceneggiatore Frederic Raphael che ha cofirmato la sceneggiatura dell’ultimo film di Kubrick, Eyes Wide Shut, tratto da Doppio sogno di Arthur Schnitzler: «Capivo bene, e senza rancore, che aveva dovuto appropriarsi della sceneggiatura inghiottendola (come fanno i cannibali con la forza dei loro nemici più illustri). Potrebbe essere divertente, e spesso veritiero, dipingere i registi come arroganti predatori, ma Kubrick aveva bisogno di convincersi che quello che avrebbe filmato era compatibile con la sua personalità creativa; doveva, per così dire, farlo passare per le proprie viscere» (Eyes Wide Open).
A volgere lo sguardo in casa nostra, il cinema italiano degli ultimi anni sembra aver riscoperto massicciamente la letteratura. È lungo l’elenco dei film usciti in sala che sono adattamenti di romanzi e, giusto per fare qualche citazione, basti pensare alla notorietà internazionale di Gomorra (2008, dal libro di Roberto Saviano) o ai più recenti Il racconto dei racconti (adattamento del seicentesco Lo cunto de li cunti di Basile) o Suburra (dall’omonimo libro scritto a due mani da Carlo Bonini e Gianfranco De Cataldo). Per comprendere come si sia evoluto il concetto stesso di adattamento, mi pare utile esaminare un importante «speciale» uscito qualche anno fa sulla storica rivista francese di cinema «Positif» (Dossier L’adaptation aujourd’hui, giugno 2012). Vari spunti di riflessione emergono dai saggi pubblicati, a partire dalla constatazione che il cinema, arte vampira per eccellenza, attinge oggi a un ampio ventaglio delle più disparate fonti. Ormai si può adattare tutto: una raccolta di novelle, una vecchia serie tv, fumetti, graphic novel, opere, quadri (Majewski nel 2011 presenta I colori della passione, un adattamento dell’opera che lo storico dell’arte Michael Gibson ha dedicato al dipinto Salita al Calvario di Bruegel), poemi, poesie (ci ha provato nel 2015 anche l’italiano Alberto Saibene con La ragazza Carla di Pagliarani), persino Il capitale di Karl Marx (sulla carta era un antico progetto di Ejzenstejn, mai realizzato, rispolverato da Alexander Kluge nel 2008 che confeziona un film eterogeneo e monumentale di dieci ore). Ma soprattutto bisogna osservare come il cinema, arte ormai adulta ed emancipata dalle fonti letterarie, serva sovente da traino alla letteratura stessa diventando a sua volta un’anticipazione o cassa di risonanza del libro in uscita. Dichiara Jean-Louis Jeannelle: «[…] il libro e il film formano spesso l’equivalente di un picture-book che il pubblico consuma oggi come fruiva prima i libri illustrati». E qui possiamo collocare forse il caso cinematografico italiano più interessante degli ultimi anni, Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores, del 2014. Una scommessa produttiva che nasce come un progetto multimediale per famiglie, generando contemporaneamente il film prodotto da Indigo Film con Rai Cinema, un romanzo edito da Salani, una graphic novel in tre albi pubblicata dalla Panini Comics e un cd musicale. I tre sceneggiatori del film (Fabbri, Rampoldi e Sardo) firmano anche il romanzo e il fumetto, quest’ultimo insieme a Diego Cajelli, autore Bonelli e del team di Diabolik. Una situazione singolare che non solo rappresenta un perfetto modello di crossmedialità, ma anche il caso esemplare di ciò che su «Positif» viene definita la «diversità dei transfert», nella misura in cui alla base c’è qui un progetto cinematografico in seguito adattato a tavolino alla letteratura per ragazzi e al fumetto. Progetto ancora più singolare se si pensa che, in seguito, è stato indetto un concorso dedicato alle scuole primarie e secondarie di I e II grado, le quali sono state invitate a scrivere il sequel di Il ragazzo invisibile. Più di 18mila studenti hanno visto il film al cinema partecipando con oltre 4.500 elaborati e, sulla base dei testi dei vincitori, sarà poi scritta l’eventuale sceneggiatura.
Per concludere, desidererei proporre un ultimo spunto di riflessione che mi sta particolarmente a cuore. Pascal Binétruy, elogiando la bella recensione scritta da Moravia sul Decameron di Pasolini per il settimanale «L’Espresso» nel 1971, nota come lo scrittore prenda avvio dal testo di Boccaccio per commentare la messa in scena del regista friulano, argomentando la sua tesi interpretativa con continui andirivieni dal libro alle scelte estetiche indotte dalle immagini. La critica cinematografica contemporanea invece, nella maggior parte dei casi, si limita semplicemente a nominare l’opera da cui è tratto il film come un’informazione supplementare da cui non scaturiscono rimandi e citazioni contestuali. La visione del regista viene giudicata solo per il suo specifico filmico, non in base al rapporto intrattenuto dalle due opere. Il recensore coevo, nella smania di affrancarsi dalla dimensione letteraria della sceneggiatura, difetta forse della capacità di valutare le scelte figurative operate dal regista rispetto al testo preesistente. Ma sorge spontaneo anche un inquietante interrogativo: un critico che, per esempio, recensisce Il racconto dei racconti di Garrone l’avrà letto Basile?