L’immaginario in traduzione

È possibile oggi, in epoca di World Literature e «romanzo globale», disegnare un atlante dell’immaginario narrativo? Come si configura il rapporto fra luoghi narrati e produzione letteraria? A prima vista sembra – soprattutto per quanto riguarda la letteratura mainstream che alcuni paesi si siano «specializzati» in un settore ben preciso della produzione romanzesca globale e che esportino un determinato «modello narrativo». In un simile contesto, si assiste a un recupero sistematico dei generi, che diventano un vero e proprio criterio analitico per l’attraversamento dell’immaginario narrativo dell’età globale.
 
Tutto il mondo è paese?
World Literature, Weltliteratur, «République mondiale des lettres»: in qualunque lingua – ognuna con il suo portato culturale – l’allargamento del sistema letterario oltre i confini nazionali sembra un dato di fatto. Si è parlato di «letteratura global» per descrivere le province del romanzo dopo il postmoderno (Calabrese): esempi di «global novel» sarebbero le opere di Stephen King, Don DeLillo, Michael Crichton e Isabel Allende. Un’altra etichetta utilizzata per dar conto di romanzi di grande successo globale è «romanzi mondo» (Coletti): per esempio quelli di Cormac McCarthy, autore di Non è un paese per vecchi e La Strada-, per altri versi, Il pendolo di Foucault e Il codice da Vinci. In entrambi i casi siamo davanti a narrazioni che, oltre a essere facilmente «trasportabili» per la scarsa rilevanza dei luoghi in cui si svolgono, sono anche particolarmente aperte a quella che Jakobson definirebbe traduzione intersemiotica; in questo caso, quella verso il medium cinematografico. Ancora, senza che ci sia davvero comune accordo, l’etichetta di «letteratura mondo» è usata per romanzi considerati «post-postcolonial», in cui il radicamento nei luoghi di origine dello scrittore, di cui si forniva una narrazione alternativa a quella coloniale, non è più così forte. È il caso, per esempio, del giovane scrittore (classe 1977) nigeriano Teju Cole, che ambienta il suo Open City tra New York e il Belgio. I romanzi mondo, sostengono i fautori della «letteratura globale», sono già pensati per attraversare le frontiere, nazionali, linguistiche o mediali che siano.
All’interno della riflessione sulla letteratura globale sembrano convergere e interagire diverse questioni, quali la ridefinizione dei confini dell’immaginario, la predominanza di un idioma «piano e semplice» – l’inglese privo di vischiosità dei romanzi globali – così come un dato quantitativo, legato all’aumento delle traduzioni: molti dei global novel sono anche global bestseller. Il rischio è quello di confondere diversi piani – sì interagenti, ma fino a un certo punto – al fine di promuovere una visione (o una narrazione) forzosamente – e paradossalmente – unitaria della cosiddetta world literature.
Allora proviamo a immaginare un esperimento, ispirato da un giro in una libreria ben fornita, dove accanto a McCarthy e Dan Brown troviamo non pochi romanzi in cui il dato «nazionale» sembra essere ancora ben presente, in diversi modi. L’esperimento non è nemmeno così futuribile, dato il successo del data design. Immaginiamo di poter disegnare un atlante «dinamico» del romanzo globale, o almeno di iniziare a farlo: e di fare interagire fra loro, di volta in volta, diverse «categorie», di applicare diversi «filtri», come nella miglior tradizione dell’informazione 2.0, per concentrarci di volta in volta su una visualizzazione che metta in luce alcuni aspetti.
Iniziamo applicando il filtro «genere» – inteso qui non come «macrogenere» (romanzo, poesia, teatro) ma come «sottogenere» in campo romanzesco. Ecco che – in particolare al livello della letteratura mainstream – si delineano zone di notevole intensità su alcuni paesi: per esempio «giallo/noir» sulla Scandinavia; «romanzo storico» (o meglio, «a effetto storico», si notava in «Mappe transnazionali» su Tirature ’14) sulla Spagna; incrocio di romanzo psicologico e sociale, incentrato su una famiglia, per gli Stati Uniti (il «meridiano Franzen», che merita una trattazione a sé). Sembra che ogni paese, globalità malgrado – o forse proprio per quello? – si sia specializzato in un settore preciso della produzione. Si tratterà ora di incrociare i dati sui luoghi in cui si ambientano le narrazioni (che, come si vedrà, sono spesso delineati a partire da stereotipi) con quelli del paese di produzione, e non solo. Proviamo quindi a far interagire diverse categorie e a immaginare tre visualizzazioni filtrate attraverso la ricezione italiana.
 
Downton Abbey & Co.
È una verità universalmente riconosciuta che l’Inghilterra sia la culla del romanzo. E oggi? Applichiamo il filtro «epoca di svolgimento del romanzo». Virginia Woolf, nel 1925, aveva già le idee chiare: il futuro del romanzo apparteneva agli Stati Uniti, perché «la tradizione inglese si è costruita su una piccola nazione; al suo centro c’è una vecchia casa con molte stanze, piene zeppe di oggetti e affollate di persone che si conoscono intimamente, le cui maniere, i cui pensieri, le cui parole sono governati, anche se inconsciamente, dallo spirito del passato». Sono trascorsi quasi cent’anni ma il passato – divenuto patrimonio culturale ben curato e messo a profitto da una fiorente industria culturale: in una parola (inglese), heritage-è ancora ben presente nella produzione narrativa inglese. Basta pensare al successo nazionale e internazionale di una serie come Downton Abbey, ambientata in una tenuta (in inglese estate, cronotopo privilegiato di tanta letteratura inglese, da Austen in poi) durante il regno di Giorgio V, dal 1912 alla fine degli anni venti e incentrata attorno alle sorti della famiglia Crawley. Downton Abbey non fa che rivisitare la tipologia della commedia di maniere e dell’estate novel, interpretata nel Novecento da romanzieri come Evelyn Waugh (per esempio in Ritorno a Brideshead, non a caso già oggetto di riduzioni cinematografiche e televisive).
Downton Abbey non è un fenomeno isolato: la letteratura inglese, in gran parte, continua a reinterpretare e a rimodulare strutture, situazioni e ambientazioni narrative del passato, in libri di grande successo commerciale. Basti pensare al successo di lunga durata del romanzo neo-Victorian, praticato a diversi livelli del sistema, dalla versione più «accademica» del Possessione di A.S. Byatt, a quella più commerciale. In questo caso il romanzo che ha dato avvio a una serie di imitazioni è stato Il petalo cremisi e il bianco, di Michel Faber. Caso interessante, questo, in quanto l’autore olandese ha scelto di pubblicare il proprio romanzo con l’editore scozzese Canongate (quello di Trainspotting, per intenderci) e in inglese: di situarsi cioè all’interno di un sistema letterario particolarmente ricettivo rispetto a determinate tipologie narrative. Il neo-Victorian, insomma, è diventato transnazionale.
L’altro periodo che costituisce un grande serbatoio di narrazioni di successo è il periodo compreso tra la Prima guerra mondiale e la fine della Seconda, divenuto anch’esso heritage (basti pensare all’Imperial War Museum di Manchester, firmato da Daniel Libeskind e collocato accanto alla nuova media city, quartier generale della Bbc). Sono ambientati in quegli anni i romanzi spesso tradotti in sceneggiati televisivi, appunto, dalla Bbc – di Sarah Waters, tutti bestseller. I primi romanzi della Waters, tutti editi in Italia da Ponte alle Grazie (Ladra, Affinità, Carezze di velluto) sono – a questo punto non stupisce – neo-Victorian-. sullo sfondo ottocentesco si combinano con successo trame d’amore con protagoniste omosessuali e trama gialla. Nei suoi ultimi tre libri la Waters ha scelto di usare la stessa ricetta ma con ambientazioni primonovecentesche: dopo Turno di notte e L’ospite ambientati entrambi negli anni quaranta, il suo ultimo romanzo, Gli ospiti paganti, costituisce un’ulteriore tappa in questo senso.
Ambientato nella Londra del 1922, dove ancora fresche sono le ferite lasciate dalla Grande Guerra, Gli ospiti paganti presenta una trama d’amore lesbico e una gialla, legate fra loro. Il romanzo della Waters recupera esplicitamente – lo chiarisce l’autrice alla fine – la letteratura femminile middlebrow degli anni trenta: si tratta di una vasta produzione narrativa fiorita all’indomani della Grande Guerra – momento di grande riassetto degli equilibri tra i generi e tra le classi – che costituì il maggior capitolo di vendite almeno fino agli anni cinquanta, con romanzi che, entro una struttura narrativa tradizionale, mettono in scena personaggi femminili moderni. Un altro riferimento della Waters è Testament of Youth di Vera Brittain: pubblicato nel 1933, il libro costituì una tappa fondamentale per la rielaborazione letteraria dell’esperienza bellica da un punto di vista femminile. Il dato interessante, nella prospettiva della ricezione italiana, è che Testament of Youth è stato pubblicato in Italia solo ora (pochi mesi prima di Gli ospiti paganti) con il titolo Generazione perduta, e in seguito, ancora una volta, a una trasposizione cinematografica. Si creano così interessanti rifrazioni tra l’immaginario letterario legato alla tradizione e quello contemporaneo.
 
Parigi val bene un romanzo
Se il caso della produzione inglese porta alla luce la permanenza di alcuni modelli narrativi ereditati dalla tradizione, adeguatamente riaccentuati, nel caso della Francia una visualizzazione interessante si ottiene applicando il filtro degli autori che vi ambientano i propri romanzi. Colpisce che l’Esagono sia al centro di due interessanti produzioni editoriali estere che la eleggono ad ambientazione delle proprie vicende.
Il primo caso è rappresentato dai gialli di ambientazione bretone di Jean-Luc Bannalec, autore (così si legge sulla quarta di copertina) franco-tedesco, il quale ha dato vita al commissario Dupin, di stanza nel pittoresco borgo di Concarneau e intento a risolvere misteri ambientati niente meno che all’Hotel Centrai di Pont-Aven, dove ha soggiornato Paul Gauguin. Pittoresco, si dirà. Ma il dato rilevante è che Jean-Luc Bannalec è lo pseudonimo impiegato da Jorg Bong, direttore editoriale addirittura della Fischer Verlag. Bong ha esordito nel 2012 con Natura morta in riva al mare, che è entrato subito nella classifica dei bestseller di «Der Spiegel». Editore navigato, Bong ha saputo combinare la matrice di genere da sempre forte nella letteratura francese del Novecento quella del giallo/noir – e quindi ben riconoscibile dal lettore, con un’ambientazione che strizza l’occhio all’immaginario oleografico e turistico associato alla Francia. Il misto di ambientazione pittoresca e tema gastronomico, combinato entro una trama gialla con protagonista un simpatico commissario, è replicato nel secondo romanzo di Bannalec, Lunedì nero per il commissario Dupin. Entrambi sono stati tradotti, nel 2014, da Piemme, editore molto attento alla produzione «di genere» proveniente dall’estero.
Ancora più interessante è che Bannalec non è un caso isolato, anzi, ha un significativo antecedente e, ora, compagno di strada. Si tratta di Nicolas Barreau, classe 1980, che ha esordito nel 2007 e che nel 2010 ha scalato le classifiche straniere e italiane con Das Lacheln der Frauen (Gli ingredienti segreti dell’amore). Nicolas Barreau è un altro nom de plume, e per di più di uno scrittore che a quanto pare – ma sembra ormai confermato – non esiste. Il bel ragazzo che compare in diverse foto, franco-tedesco classe 1980, sarebbe un’invenzione bella e buona. Poco male, nell’era Ferrante in cui l’anonimato va così di moda. Anche perché il successo dei suoi romanzi è stabile e continuo: quella che potremmo definire la «Barreau Ine.» ha trovato gli ingredienti – è questa la parola giusta – per confezionare romanzi rosa di successo. Tutti si svolgono in una Parigi contemporanea decisamente oleografica – il fulcro dell’azione è spesso e volentieri Saint Germain-des-Près. Ma sono anche i luoghi in cui si svolge la vita dei protagonisti a evocare una «francesità» da esportazione: dal Cinéma Paradis di Una sera a Parigi, dove vengono proiettati film d’amore e dove capita, un bel giorno, un regista americano (interessante che lo sguardo straniero sia sempre presente); al ristorante «Il tempo delle ciliegie» (sic) dove lavora come chef il protagonista di Gli ingredienti segreti dell’amore, Aurélie; alla papeterie di Rosalie in Parigi è sempre una buona idea dove convergono una trama d’amore e un’altra incentrata su un manoscritto ritrovato di una fiaba. In questi luoghi da cartolina si svolgono storie romantiche a lieto fine, sempre intrecciate alle vicende del posto in cui sono ambientate. Con la regolarità di chi scrive un romanzo all’anno, Barreau ha insomma dato avvio a una «serialità di luogo» in cui cambiano personaggi e dettagli del copione ma mai gli ingredienti della storia.
A colpire non è tanto che la Francia sia luogo di svolgimento privilegiato per romanzi rosa – Parigi è sempre stata associata al romanticismo novecentesco e contemporaneo –, quanto il fatto che la Germania, che guardando il nostro atlante non è molto presente sugli scaffali delle librerie italiane come luogo e come autori, malgrado vanti un’industria editoriale fortissima, si sia specializzata in simili produzioni.
 
Giallo Scandinavo Inc.
«Giallo Svezia» non è un’invenzione ad hoc per il nostro esperimento: è una realtà. Si tratta di una community ospitata sul sito dell’editore Marsilio, in cui gli appassionati del genere possono acquistare e-book e rimanere aggiornati sulle ultime uscite dei propri autori preferiti. Una delle pagine del sito presenta una mappa su cui sono segnati tutti i luoghi del «giallo» scandinavo, tra Svezia e Norvegia: sembra, insomma, che quei territori del nostro immaginario siano percorribili solo attraverso le sfumature del giallo e del noir. Anche in questo caso c’è un romanzo che ha dato avvio alla linea di produzione: la trilogia Millennium di Stieg Larsson (di cui è uscito in questi giorni, in traduzione italiana, il quarto volume, Quello che non uccide, scritto da David Lagercrantz a partire dagli appunti di Larsson).
La storia è ormai nota: giornalista impegnato in politica, a sinistra, e studioso internazionalmente riconosciuto di movimenti di estrema destra, Larsson è riuscito a dar vita a due personaggi così caratteristici da coinvolgere milioni di lettori nelle vicende di una Svezia tutt’altro che pacificata. Larsson ha declinato in maniera originale un genere già presente nel sistema letterario locale: la serie di Wallander firmata da Henning Mankell inizia nel 1991 e ottiene un discreto successo, soprattutto nella sua versione televisiva. Ma è con Larsson e i suoi personaggi che il giallo svedese diventa un vero e proprio fenomeno globale. Da allora Marsilio ha curato una propria «scuderia» di autori – quelli presenti, per l’appunto, su «Giallo Svezia» – e gli editori italiani (e non solo) hanno cercato autori capaci di altrettanto successo. Se però per Mankell e Larsson il genere giallo e noir costituiva quello più adeguato ad articolare temi politici (entrambi erano attivisti) entro una struttura romanzesca, spesso è il solo genere a essersi «depositato».
Il caso di Jo Nesbo è indicativo: tradotto da Piemme in contemporanea con Larsson, a partire dal 2011 è passato a Einaudi (collana Stile Libero Big). Significativo che a uscire per ultimi siano stati i due primi libri di Nesbo, come Scarafaggi, non ambientati in Scandinavia. Si tratta della prima inchiesta di Harry Hole, che si svolge a Bangkok. Il «passo del gambero» è un classico quando si traduce un autore che ottiene successo; ma attraverso il filtro della ricezione, si attiva tuttavia un processo interessante. Se non si sa che si tratta del secondo romanzo di Nesbo, il lettore associa il nome scandinavo a un giallo divenuto globale e che quindi travalica i confini entro cui fino a quel momento si è svolto. Curioso è che, contemporaneamente a Scarafaggi, sia uscita la «Trilogia del Minnesota» – La terra dei sogni — del norvegese Vidar Sundstol. Ancora una volta, il genere giallo, praticato da uno scandinavo, varca i confini per impossessarsi di territori altri, a conferma che l’elemento di genere è fondamentale nella «produzione da esportazione» di una determinata nazione.
 
Verso una mappa transnazionale
Quelle appena presentate sono solo tre istanze dei modi in cui si può configurare, oggi, l’«immaginario in traduzione». Tre casi si limitano a illuminare un nesso: quello tra luoghi dell’immaginario, generi romanzeschi e produzione letteraria. Lo ripetiamo: i luoghi dell’immaginario qui descritti sono «luoghi comuni», descrivono un immaginario pieno di cliché che, si dirà, è proprio dell’era globale e che è molto simile all’Italia del Codice da Vinci evocato all’inizio di questo saggio. Ma non è questo il punto. Il recupero dei generi, considerato nel suo legame con la specializzazione delle produzioni da esportazione, invita a riflettere sulla permanenza di alcuni dati nazionali pur in epoca globale, dati molto più presenti di quanto si pensi.
Nel tentativo – che certo dovrebbe farsi più scientifico, avvalendosi, tra le altre cose, di statistiche circostanziate, nonché più sistematico – di fornire alcuni quadri di una mappa transnazionale dell’immaginario romanzesco in traduzione, oltre alle zone di «densità», particolarmente rilevanti sono quelle più difficili da mappare. Quelle da cui arrivano poche traduzioni; quale Portogallo, per esempio, oltre Saramago e Lobo Antunes (per il lettore non specialista, s’intende)? O quelle di cui ci arrivano rappresentazioni insufficienti, o meglio, troppo scarse se commensurate alla complessità e alla centralità del contesto: come quelle della Russia. Paese che molti lettori, per esempio, hanno ripercorso negli ultimi due anni attraverso lo sguardo molto personale del Limonov di Carrère, un romanzo-non romanzo scritto da un francese che rielabora (traduce?) i romanzi di un russo. Ci basta? Ovviamente no: ma è proprio disegnando una mappa, partendo da confini nazionali – per quanto mobili e precari – e generi letterari e analizzando criticamente i flussi delle traduzioni (sensibilmente aumentati anche solo rispetto agli anni novanta del secolo scorso e quindi determinanti nel definire l’immaginario del XX secolo) che si può tentare di scandagliare criticamente l’universo della letteratura mondo.