Più manager per l’editoria! intervista a Gian Arturo Ferrari

Gian Arturo Ferrari è il direttore generale della Divisione libri della Mondadori, la quale comprende, oltre a tutti i settori dei Libri Mondadori (hard cover, paperback, mass market e category books), la scolastica e i libri per ragazzi, i libri d’arte e illustrati, nonché la Sperling & Kupfer.
 
Gian Arturo Ferrari, secondo alcuni osservatori L’oggetto libro sta cambiando di natura e funzione, anche perché ormai non è più l’unico supporto di cultura disponibile. Cosa ne pensa?
Da un punto di vista materiale, non mi sembra che l’oggetto libro sia cambiato in passato né che stia cambiando oggi. È un oggetto stabile nella sua configurazione fin dalla nascita, da quando cioè Gutenberg inventò la stampa a caratteri mobili. A questo proposito, va ricordato che il libro è stato il primo prodotto industriale nella storia dell’umanità, è stato cioè il primo prodotto finito fatto in più esemplari tutti uguali. Ancora oggi, la sua struttura fisica non consente grandi possibilità di mutamento e di innovazione. Certo può essere migliorata, ma sostanzialmente resta e resterà la stessa. Viceversa, dal punto di vista del contenuto, è già da molto tempo che il libro non è più l’unico mezzo di trasmissione di cultura, d’informazione o d’intrattenimento. Da un secolo e mezzo a questa parte, la stampa popolare del secolo scorso, il cinema, la stampa quotidiana e periodica del nostro secolo, la radio, la televisione e, infine, i nuovi mezzi multimediali sono via via entrati in competizione con esso. Insomma, non siamo di fronte a un fenomeno nuovo e improvviso, ma a una lunga serie di passaggi che ha portato alla situazione attuale, in cui il libro è ormai inserito in un contesto ricco di diversi prodotti culturali.
 
Eppure oggi, di fronte alla concorrenza di altri supporti culturali~ il libro sembra perdere terreno velocemente …
Il problema di fondo del libro, che per altro spesso non si riesce a cogliere, è la sua caratteristica specifica per quanto riguarda le modalità di fruizione. A differenza della televisione e della stampa, il libro esige innanzitutto una struttura del tempo fatta per leggere. Il lettore deve avere un tempo organizzato in maniera tale da consentire la lettura del libro, il quale non può essere letto in una sola volta; si deve poter riprendere in mano il libro a cadenze tali per cui ogni volta ci si ricordi ciò che si è letto in precedenza. Ciò esige un tempo molto strutturato in funzione della lettura. Questa condizione non è facile da realizzare, anche perché richiede una lunga educazione alla lettura, che deve cominciare fin da piccoli. A quarant’anni non si cambia la propria struttura del tempo. Da questo punto di vista, il libro è un mezzo molto più difficile degli altri media. Perfino del multimedia, il quale, quando se ne imparano le modalità d’uso, può essere utilizzato dal fruitore a seconda del suo tempo e dei suoi bisogni. n libro invece possiede una sorta di forza interna che regola la vita di chi lo legge, rendendo impossibile il contrario.
 
Questa difficoltà di fruizione può mettere in discussione la futura esistenza del libro?
Non credo. Nonostante questa oggettiva difficoltà, i libri non spariranno. In futuro aumenterà il consumo di libri destinati all’apprendimento e alla conoscenza, giacché la competizione si baserà sempre di più sul possesso di conoscenze. Da questo punto di vista il libro è, e resterà, un mezzo insostituibile. Si può imparare l’inglese elementare attraverso il computer, ma ci sono livelli di conoscenza che possono essere trasmessi solo attraverso il libro. Va poi fatto un discorso più sofisticato e sottile relativo al problema del contenuto culturale vero e proprio. Da questo punto di vista, mi sembra che il contenuto culturale ultimo, che è poi la consapevolezza, sia molto difficilmente trasmissibile dagli altri supporti di comunicazione culturale. È questa la forza del libro.
 
Non le sembra che, proprio per venire incontro a tempi di lettura più ristretti e quindi a modalità di lettura meno tradizionali; il libro provi oggi a presentarsi in maniera diversa, proponendo opere più brevi e frammentarie, più consone a quel tipo di lettura zapping oggi molto diffuso?
Attenzione, non è la lettura che è cambiata, è cambiato il mondo. Una volta, nel secolo scorso e all’inizio del nostro secolo, la maggior parte della gente non leggeva nulla perché passava la vita a lavorare. Esisteva invece una lettura borghese, che certo era riservata a chi disponeva del tempo e della tranquillità necessari. Ma oggi la borghesia e il proletariato non esistono più. Abbiamo invece un enorme ceto medio onnipervasivo, con molti livelli interni. Insomma, è cambiato il tipo di società e con essa le modalità di lettura. Detto ciò, è vero che alcuni libri frammentari, fatti di aforismi, di pezzi brevi, di stupidari, vengono incontro ad alcune esigenze dei lettori. D’altra parte, si provano tutte le strade pur di raggiungere i lettori. Tuttavia, anche in passato, le grandi letture romanzesche si facevano nell’età giovanile. La lettura di Dostoevskij si faceva a sedici anni.
 
Ciò significa che in questo modo il libro prova a popolarizzarsi, per non rivolgersi più esclusivamente alle fasce medio-alte del pubblico?
In Italia ciò non è vero. I dati di lettura purtroppo sono drammatici. Metà della popolazione adulta non legge mai un libro, né tanto meno si sogna di comprarlo. La restante metà consuma il 100% dei libri che vengono acquistati e letti nel corso di un anno. Inoltre, il 6% della popolazione adulta consuma da solo il 50% dei libri, il 44% restante consuma l’altra metà. In pratica, abbiamo un nucleo piccolissimo di lettori forti e un’ampia area di lettori deboli e occasionali: coloro che leggono un libro all’anno, di solito il successo del momento, che viene loro regalato, Ramses, Va’ dove ti porta il cuore o Io speriamo che me la cavo. Poi ci sono quelli che non leggono mai. Questo è il vero problema della cultura italiana e dell’editoria italiana: gli italiani non leggono.
 
Ma quando un editore come Mondadori intraprende operazioni come quelle dei Miti o di Ramses non prova proprio ad allargare questo pubblico e a rivolgersi anche ai non lettori?
In realtà i Miti sono acquistati in larghissima misura sempre da quel 6% di lettori forti, che per una volta vuole risparmiare. Da noi il mass market non esiste. Anche un’operazione riuscita come Ramses, che vende 500 mila copie a volume, è poca cosa rispetto ai 48 milioni di lettori potenziali viventi in Italia.
 
Secondo lei, insomma, anche in questi casi non si riesce comunque ad allargare l’area della lettura?
No. l Miti o Ramses producono solo un piccolissimo consolidamento dei lettori deboli, i quali, forse, invece di leggere un libro all’anno, ne leggeranno due. Questa è la realtà. Eppure, nonostante questa situazione, la politica degli editori è tutta mirata al 6% di lettori forti. La pubblicità per i libri, per esempio, la si fa sui giornali, rivolgendosi così sempre al pubblico ristretto dei già lettori.
 
Quindi quel 50% di non lettori è irraggiungibile?
Purtroppo è così. Una persona che a quaranta o cinquant’anni non ha mai letto non cambia più abitudini. Non è più possibile indurla a leggere. Per sviluppare la lettura nel paese occorre partire dai più piccoli, è solo attraverso la scuola – o meglio, attraverso ciò che la scuola dovrebbe fare – che è possibile intervenire sulla lettura.
 
Non è anche un problema di offerta a volte inadeguata?
Neanche per sogno. L’offerta libraria italiana è uguale a quella degli altri paesi occidentali. L’ampiezza d’offerta è la stessa, solo che abbiamo un mercato molto più piccolo, che rende l’offerta più importante della domanda. Da questo squilibrio tra domanda e offerta deriva la debolezza strutturale dell’editoria italiana. Questa non è debole per incompetenza degli editori o per disorganizzazione del mercato: è la domanda a essere debole rispetto all’offerta. Tra la popolazione italiana e quella americana c’è un rapporto di circa uno a quattro, tuttavia i best seller americani vendono in Italia solo un decimo di quello che vendono negli Stati Uniti. Ecco da dove nascono i non profitti degli editori. È per questo che l’industria editoriale langue e metà della nostra editoria vive facendo finta di guadagnare, ma in realtà perdendo quattrini.
 
Se perdono soldi, perché continuano a fare gli editori?
In molti casi, ci sono proprietari a cui fa piacere tenere in vita le case editrici per i più svariati motivi. Gli unici editori che fanno soldi in Italia sono gli editori di scolastica, perché hanno i numeri, hanno un mercato che, nonostante sia difficilissimo e complicato, ha la dimensione per generare profitti consistenti. Per il resto, tutta l’editoria deve fare i conti con la scarsa diffusione della lettura nel nostro paese. n vero problema italiano, quindi, è quello di rimontare un gap storico sul piano della lettura, un gap che ha ragioni precise e antiche, che si intrecciano a tanti fenomeni storici del nostro paese. Ma come per tutti i problemi, si tratta anche di un problema d’investimenti, visto che i nostri connazionali non si metteranno a leggere per un eccesso di buona volontà. Per rilanciare la lettura occorrono soldi. Quanto costa far leggere gli italiani? Costa tanto, tantissimo. Al punto che nessuno vuole sobbarcarsi l’onere di questa spesa.
 
Sarebbe forse necessario un intervento pubblico …
Certo. Oggi lo Stato interviene molto nell’editoria, ma secondo me in maniera sbagliata e inquinante. La committenza pubblica nel suo insieme in Italia è sicuramente il più grande editore del paese, se si considera il grandissimo numero di libri che stampa direttamente, che fa stampare o che sovvenziona. Così, un’enorme quantità di denaro dei contribuenti viene buttata via per finanziare la carriera accademica di illustri sconosciuti, alimentare tipografie ed editori locali, finanziare premi di ogni tipo. Se invece di essere distribuiti a pioggia, questi soldi fossero utilizzati meglio, qualche risultato lo si otterrebbe. Non sto parlando di sovvenzionare l’editoria, ma di una grande campagna nazionale di promozione della lettura, fatta bene, vera, prolungata nel tempo. Si dovrebbe anche agevolare l’apertura di nuove librerie, dare una priorità al commercio librario nell’utilizzo di edifici di proprietà pubblica. Sono queste le cose da fare con i fondi pubblici, ma deve essere un intervento ragionato e massiccio. Non servono a nulla le iniziative sporadiche, abbiamo bisogno di un piano quinquennale o decennale per la lettura. Un ritardo storico come il nostro non si cambia con un intervento spot.
 
La sua non è una visione eccessivamente pessimistica?
Viviamo in un paese dove legge solo il 6% della popolazione adulta: non mi sembra che ci sia molto spazio per l’ottimismo. Io lavoro nel mondo dei libri, quindi preferisco guardare le cose in faccia. Ma attenzione, non sono un disfattista. Al contrario cerco di darmi attivamente da fare per cambiare la situazione. La Mondadori in questi anni è stata una delle poche case editrici che hanno provato ad allargare l’area della lettura, anche se le nostre iniziative sono state spesso criticate dagli intellettuali italiani. Come per esempio quando abbiamo lanciato i Miti Poesia.
 
Come mai gli intellettuali italiani sono così diffidenti difronte a queste iniziative?
Per ragioni storiche, perché la cultura italiana è prigioniera di una tradizione elitaria. Per lungo tempo i letterati italiani sono stati i monopolisti dell’italiano, che non era una lingua parlata, ma solo una lingua della letteratura, appannaggio di un gruppo molto piccolo. Purtroppo la concezione elitaria della cultura è quella che si è imposta in Italia, dove la cultura è considerata tanto più cultura quanto meno persone riguarda.
 
Gli editori non sono almeno in parte corresponsabili di questa situazione?
Certamente sì. Una grandissima parte dell’editoria è responsabile di questa situazione, non la Mondadori. Il concetto su cui la Mondadori è stata costruita da Arnoldo Mondadori è proprio l’opposto. Per lui, la Mondadori doveva essere una casa editrice in grado di dare a ciascuno il suo libro. Cosa facile a dirsi ma difficilissima a realizzarsi. È per questo che, nella storia editoriale italiana, la Mondadori è stata la casa editrice più orientata al mercato e più attenta ai gusti del pubblico.
 
Da voi, allora, come si misura la qualità di un libro?
Per un editore la qualità di un libro è sempre e solo una qualità commerciale. Gli editori non sono critici letterari. L’editoria è uno strano mestiere, in cui si usa lo spirito per fare i soldi, e i soldi per fare lo spirito. Non esiste nessuna regola per mescolare questi due elementi, l’importante è che alla fine ci siano entrambi. Se alla fine mancano i soldi si fa fallimento, se manca lo spirito si producono schifezze. La buona editoria è quella che tiene insieme le due cose. Invece in passato molti editori sembravano non preoccuparsi degli aspetti economici della loro attività, così hanno buttato via molti soldi, come per altro capita ancora oggi.
 
Oggi però le cose stanno evolvendo e gli aspetti economici dell’editoria vengono considerati con maggiore attenzione …
Effettivamente qualcosa sta cambiando. Anche perché una quindicina d’anni fa è praticamente morta l’editoria ideologica, quella che, fino alla fine degli anni settanta, attribuiva all’editore una funzione pedagogica. La situazione oggi è cambiata, come mostra la trasformazione, a qualche anno di distanza l’una dall’altra, di due case editrici che avevano incarnato più di altre questa concezione: Feltrinelli e Einaudi. La loro straordinaria inversione di rotta è il segno di una generale inversione di tendenza, al cui interno si colloca anche una maggiore attenzione per i bilanci aziendali.
 
Questa conversione alle regole della buona gestione aziendale viene spesso attribuita all’arrivo dei manager nel mondo editoriale. Il manager per altro è una figura che scatena sempre accese discussioni; giacché per alcuni rappresenta una sorta di panacea a tutti i mali dell’editoria, mentre per altri costituisce addirittura la morte della cultura. Qual è la sua opinione, visto oltretutto che spesso si evoca proprio la Mondadori quale esempio di una editoria dominata dai manager?
Innanzitutto, va detto che tale affermazione non è assolutamente vera. La Mondadori è un grande gruppo che fattura all’incirca 3000 miliardi, di cui circa 500 sono il frutto della divisione libri. La Mondadori però, pur avendo molte e diverse attività, è geneticamente un’azienda di libri, quindi oggi il suo vertice aziendale viene dai libri. Detto ciò, il vero problema è che in editoria di manager ce ne sono troppo pochi. A differenza di altri paesi, in Italia la ristrettezza del mercato editoriale non ha permesso la creazione e la crescita di un management editoriale professionale. Insomma, non si è creata una professionalità specifica. Negli Stati Uniti esiste un mercato del management editoriale, in Italia no. Siamo in pochissimi a fare questo mestiere. Da noi, le persone che dirigono le case editrici hanno per lo più una storia editoriale, ma di solito non sanno nulla del business economico, non sanno cosa sia un magazzino, credono ancora che sia semplicemente un bene e una risorsa. Ci sono poi alcuni manager che provengono dal mondo extraeditoriale, i quali però entrano nel mondo dei libri come elefanti in un negozio di porcellane, senza capire l’essenza dell’editoria. Infine, vi sono alcune personalità intermedie, tra cui inserivo anche me, le quali, quando provengono dall’editoria, si sforzano di capire come funziona un’azienda, oppure, quando sono manager puri, si avvicinano ai libri con intelligenza, cautela e sensibilità.
 
Significa che per affrontare economicamente il mondo del libro occorre comunque una sensibilità particolare non necessaria per un qualsiasi altro prodotto?
Per affrontarlo globalmente, sì. Un buon direttore marketing non è necessario che abbia una precedente esperienza di libri. Questa è invece indispensabile per dirigere globalmente una casa editrice. Solo così si acquista quella particolare sensibilità che consente di mettere in relazione una serie di fattori non necessariamente immediati, di capire cioè il ragionamento in base a cui si fanno determinate scelte. Per esempio, si può fare un libro apparentemente in perdita per procurarsi un autore che più tardi potrà dare buoni risultati. In ogni caso, la difficoltà manageriale maggiore è quella del rapporto di fiducia con gli editor, occorre sapersene fidare e al contempo controllarli.
 
Come si fa a far quadrare i bilanci di una casa editrice complessa e composita come la Mondadori, dove convivono Urania e i Meridiani? Bisogna equilibrare libri in attivo e in passivo?
Io non ho mai visto un libro che non fosse in attivo che servisse a qualcosa. I libri buoni guadagnano sempre: è una regola ferrea. La nostra collana dei Classici greci e latini della Fondazione Valla, finanziata dal Crediop, è un’impresa in attivo che guadagna benissimo. Non esistono cose economicamente malate ma buone culturalmente. li che non significa che poi non si facciano errori.
 
Quindi fate anche voi libri che poi non funzionano?
Certo. Ma il problema è non fare quei libri di cui si sa prima che non funzioneranno. Questo è vietato. Non per cattiveria, ma perché è una sciocchezza dal punto di vista editoriale e culturale prima ancora che economico. Fare un libro che perde soldi, sapendo che perde soldi, è una sciocchezza che non bisogna fare.
 
Ma si può continuare a fare sperimentazione, cercando nuovi percorsi, nuovi autori?
Certamente sì. Lo si fa tutti i giorni, ma non è detto che la cosiddetta sperimentazione debba perdere soldi. Naturalmente non parlo di singoli libri, giacché queste considerazioni vanno sempre riferite a un ambito, a una collana o a un settore. In qualsiasi azienda il reparto ricerca e sviluppo si muove in diverse direzioni, sperimenta svariate ipotesi, poi però non tutti i progetti vanno a buon fine, alcuni vengono portati avanti altri no. È evidente che alcuni non funzioneranno. L’importante è che ci sia equilibrio globale. Ma si tratta solo di buon senso, in tutto ciò non c’è nulla di straordinario. Invece, l’idea che le imprese culturali, in quanto tali, debbano perdere soldi è un pregiudizio sbagliato, un luogo comune che non è verificato nella realtà. Al contrario, in generale le buone imprese editoriali di alto valore culturale rendono moltissimo. Noi siamo il leader mondiale per le edizioni di architettura, attraverso Electa, e guadagniamo bene. Ogni settore insomma deve stare in piedi economicamente. I Meridiani devono andare bene globalmente, poi se uno non vende non è un problema. Ma se il responsabile dei Meridiani mi propone di pubblicare un volume dicendomi che sarà sicuramente in perdita, io voglio sapere per quale motivo dovremmo farlo. Anche perché rischio di perdere soldi che sono dei miei azionisti.
 
Prima ha citato Ramses di Christian Jacq, che è un esempio di come un’operazione di marketing fatta molto bene possa tradursi in un grande successo …
Certo. Ma attenzione, non è che il marketing sia all’opera solo dietro Ramses. Anche dietro i libri della Fondazione Valla c’è il marketing. Il marketing è ovunque, nel senso che qualsiasi libro deve essere venduto: marketing significa essenzialmente trovare la maniera di vendere un determinato prodotto. Dietro ogni libro ci sono scelte precise, operazioni commerciali che vengono fatte nel corso dell’anno, campagne pubblicitarie, una particolare strutturazione del programma editoriale, il fatto che alcuni titoli siano inseriti nella collana in certi momenti e non in certi altri, e così via. Sono tutte scelte che fanno parte del normale lavoro editoriale, ma che devono essere finalizzate alla vendita del libro. Nel caso di Ramses c’erano più investimenti e l’operazione è stata molto incisiva, anche perché tutta la comunicazione è stata concentrata sul primo dei cinque volumi, per creare il bacino di lettura anche per i volumi successivi. Ma ogni libro, al suo livello, implica un discorso e un investimento di marketing.
 
Negli ultimi anni il prezzo dei libri è stato al centro di diverse battaglie …
La diminuzione del prezzo medio dei libri in Italia è un fenomeno reale determinato dal fatto che l’inflazione è cessata. Ciò ha agito come un grande rallentatore dei consumi. I libri in particolare hanno subito questo rallentamento perché, rispetto ad altri consumi culturali simili, essi hanno un prezzo medio d’accesso unitario più alto. E poi il famoso 6% di lettori forti ha già la casa piena di libri che non ha letto, quindi ha scorte sufficienti per superare la fase di contrazione dei consumi. n mercato, che ha risentito subito del rallentamento dei consumi, ha abbassato il prezzo medio dei libri.
 
All’abbassamento dei prezzi ha contribuito anche il fenomenale successo dei Millelire …
No, l’abbassamento è stato indipendente. Quello dei Millelire è stato un fenomeno importante e interessante, ma circoscritto e, secondo me, non di grande sviluppo. Anche perché si limita a lavorare sui libri fuori diritti.
 
Ma le vostre collane a prezzi molto bassi, come i Miti, non sono nate anche per rispondere a quelle iniziative?
Assolutamente no. I Miti sono del tutto diversi dai Millelire. Sono il mass market americano rifatto in Italia. Dal punto di vista industriale, il prodotto Miti è molto più costoso e ricco dei Millelire. Inoltre si tratta di libri per cui si pagano i diritti, sono libri in esclusiva.
 
Qual è la sua posizione per quanto riguarda il problema del prezzo fisso e degli sconti?
Personalmente sarei fautore del prezzo libero, però mi rendo conto che oggi il prezzo libero in Italia potrebbe creare più danni che vantaggi. Sono però assolutamente contrario a una visione dirigistica dei prezzi, per cui il prezzo debba essere mantenuto fisso per sempre. Anche perché ciò rafforzerebbe uno dei principali ostacoli all’evoluzione del nostro mercato, vale a dire il diritto di resa. Il libro è l’unica merce per cui vige stabilmente il diritto di resa da parte del venditore al minuto, il quale così non adotta più alcuna strategia per vendere i libri. In questo modo, il punto di vendita assomiglia a un semplice deposito, il che è uno dei motivi di grande ritardo del business del libro. Il diritto di resa, d’altra parte, è un fenomeno mondiale che risale all’epoca in cui i libri erano stampati dai librai-editori, i quali vendevano i loro libri e tenevano in deposito i libri di altri, restituendoli nel caso non venissero comprati da nessuno. Oggi i librai si barricano dietro il diritto di resa, senza rendersi conto che questo è un atteggiamento suicida. Il fatto che la libreria acquisti efficienza è un interesse loro e non solo degli editori. Quindi la nostra posizione è abbastanza equilibrata: saremmo cioè pronti ad accettare una legge nella quale si fissi un tetto massimo allo sconto, che potrebbe essere attorno al 20%. Che poi è lo sconto che dovrebbero rispettare le grandi catene di distribuzione.
 
Insomma una qualche forma di regolamentazione degli sconti le sembra necessaria?
Una regolamentazione è necessaria per evitare certe spaventose storture, ma una regolamentazione troppo rigida avrebbe come immediato effetto quello di far uscire il libro dalla grande distribuzione, che poi è l’unico canale nuovo del mercato del libro che si sia sviluppato negli ultimi anni. Il suo sviluppo è certo dovuto agli sconti, ma anche all’apprezzamento del pubblico, il quale trova meno imbarazzante comprare i libri al supermercato che in libreria. Purtroppo, la gente normale è impressionata dalle librerie, ne ha paura, le associa alla scuola, al tribunale, alla chiesa, tutti luoghi di autoritaria imponenza. Al supermercato, invece, comprare i libri è più facile, non ci sono ostacoli psicologici. Ecco perché le librerie devono evolversi e cambiare, come per altro in alcuni casi sta già avvenendo.