Il canone del risvolto

I risvolti di copertina sono importantissimi. Pure Vittorini aveva intuito, forse prima di altri, che quello spazio vuoto riempibile con un breve testo poteva ricoprire un ruolo fondamentale di mediazione tra autore, editore e lettore. Il risvolto di copertina, infatti, più che essere un secondario paratesto, rappresenta una soglia di ingresso alla lettura, uno strumento capace di “interpretare”, “commuovere”, “raccontare”, “sedurre”. Peccato che nell’industria editoriale italiana si dibatta ancora sulla messa a punto di un canone del risvolto, sul suo valore e la sua composizione retorica.
 
Non fu per nulla contento, Beppe Fenoglio, del risvolto di copertina che accompagnava l’uscita de La Malora nel 1954. Anzi fu proprio per colpa di quella manciata di righe se, nonostante l’amicizia con Calvino, iniziò la sua marcia di allontanamento dall’Einaudi. Così, Primavera di bellezza, il libro successivo, sarebbe uscito da Garzanti. Ufficialmente furono motivi economici l’oggetto dei suoi malumori, ma in realtà la ruggine aveva cominciato a incrostare i rapporti con l’editore torinese proprio in quella circostanza.
Come tutti i risvolti della collana «l Gettoni», ne era stato autore Elio Vittorini, direttore della collana medesima, nonché intellettuale militante di un’idea piuttosto precisa di letteratura. Pubblicando il secondo libro di Fenoglio – il primo, che ne segnava l’esordio, era stato, nel 1952, I ventitré giorni della città di Alba Vittorini sfruttò lo spazio della bandella – sinonimo di risvolto – per avanzare dei «timori» e per mettere in guardia lo scrittore da tentazioni «passatiste». Temeva, infatti, che «questi giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile», «appena non trattino più di cose sperimentate personalmente, corrano il rischio di ritrovarsi al punto in cui erano, verso la fine dell’Ottocento, i provinciali del naturalismo, i Faldella, i Remigio Zena», i bozzettisti insomma. La perplessità non era irrilevante e Fenoglio accusò il colpo constatando con amarezza che ancora prima dell’uscita di ogni recensione era stato considerato «scrittore di quart’ordine». Il rovello gli si addentrò nella mente fino a fargli scrivere nel diario: «Riletto la mia “Malora”: mi pare d’aver piantato i paracarri e di non aver fatto la strada». Quel risvolto continuava a bruciargli.
Ma Vittorini era insieme un maieuta e un militante a tempo pieno di una letteratura che fosse esperienziale e nuova, in grado di produrre miti moderni e di salvare, grazie a tale forza palingenetica, il mondo. Anche per questo «I Gettoni» pubblicarono, insieme agli italiani, molti scrittori americani.
Già, «l Gettoni», una collana titolata così «per i molti sensi che la parola può avere di gettone per il telefono (e cioè chiave per comunicare), di gettone per il gioco (e cioè con un valore che varia da un minimo a un massimo) e di gettone come pollone, germoglio ecc.», come scrive il suo direttore a Italo Calvino in una lettera del 1951. E per questo progetto Vittorini cercava nuovi narratori, linfa giovane e vitale per le lettere patrie, sperimentali e neoneorealiste. Ogni occasione era buona per ribadirlo. In ogni luogo, compreso un risvolto di copertina. Tanto più che di quello spazio aveva colto la posizione strategica, a prima apertura di libro, proprio lui, insieme a Valentino Bompiani, nei primi anni Quaranta. E lo aveva utilizzato ampiamente per definire, e indicare ai lettori, gli intendimenti della collana universale «Corona», come segnala Cesare De Michelis nella prefazione che accompagna la raccolta de I risvolti dei «Gettoni» di Elio Vittorini, pubblicata da Scheiwiller nel 1988.
«l risvolti di copertina erano importantissimi. Lo zio Valentino e Vittorini, mio maestro, ce li facevano riscrivere un numero infinito di volte. E sempre all’insegna di uno slogan che insieme avevano coniato: “ un occhio allo scrittore e un occhio al lettore”. lo ne ho scritti un numero notevole e tutti anonimi. li periodo del risvolto firmato è venuto dopo. Quando sono cominciati a cambiare i modi di fare i libri. Oggi c’è meno acribia, meno precisione». Il ricordo, e la puntualizzazione, è di Silvana Mauri in Ottieri, donna di straordinaria esperienza editoriale, memoria storica dell’industria culturale italiana – «artigianato d’arte» correggerebbe lei ! -, in forza presso la casa editrice dello zio dall’età di diciassette anni.
Anche lo stesso Vittorini riscriveva e limava all’inverosimile i suoi risvolti. Per amore di chiarezza e di efficacia: ideologica, verrebbe da precisare. Prima di molti, aveva intuito che quello spazio vuoto riempibile da un breve testo – quale era in origine l’aletta piegata della copertina – poteva avere una funzione molto importante nel triangolo ideale, e concreto, che la presenza dell’editore compone, con la sua funzione di mediatore fra scrittore e lettore. E probabilmente fu proprio lui l’iniziatore autorevole di un genere di scrittura di servizio qual è il risvolto di copertina, ennesimo ma non secondario paratesto, soglia di ingresso alla lettura, quando non ne sia addirittura una chiave di interpretazione, decisamente forte nel caso delle bandelle vittoriniane.
Ma evocando termini come scrittura di servizio e interpretazione ci troviamo a ridosso di una biforcazione dentro alla quale, nell’industria editoriale italiana, continua a dibattersi la messa a punto di un canone del risvolto, il suo senso e la sua composizione retorica. Là dove sembra più forte, determinante, il punto di vista dell’editore, la sua concezione editorial-letteraria, piuttosto che il destinatario reale di questa scrittura, il lettore, presenza quest’ultima sempre un po’ minimizzata. Soprattutto se il risvolto in questione riguarda la produzione letteraria cosiddetta alta, autoriale.
Un breve, e non esaustivo, sondaggio fra gli editor che attualmente si occupano di collane letterarie, italiane o straniere, sembra confermare che la prospettiva, e la retorica, che informano la scrittura di un risvolto, sono tuttora sempre molto individuali e fortemente dipendenti dalla formazione, e dal gusto, di chi lo redige. Al di là di tutte le modernizzazioni, e le omologazioni, paventate o auspicate, dell’industria editoriale.
Così, piuttosto coerente con la sua idea di letteratura è l’impostazione di Antonio Franchini, editor degli scrittori italiani alla Mondadori e a sua volta ottimo scrittore. «Il mio primo intendimento, quando scrivo un risvolto, è di suscitare un’emozione nel lettore che in libreria prenderà in mano per la prima volta quel romanzo. Così la mia scrittura sarà la più creativa possibile e l’andamento più narrativo che saggistico, parallelo alla narrazione. Insomma, racconto quello che succede nel libro, evitando inutili enfasi o lodi. Emozioni e racconto, questi i miei parametri».
«Raccontare ma non troppo, piuttosto alludere» dice invece Elisabetta Sgarbi; responsabile, fra l’altro, della narrativa straniera della Bompiani. «Il primo obiettivo è catturare l’attenzione del lettore che con il risvolto deve percepire la natura del libro. Per questo, il risvolto deve mimetizzarsi al testo stesso, anticiparne spirito, stile e linguaggio. Deve sedurre, deve evocare più che dire, pur nella chiarezza dell’esposizione. E anche per questo il risvolto firmato mi piace. E poi dà valore aggiunto al testo. Una firma autorevole non viene concessa facilmente. Così come ricorro volentieri ad altri apparati paratestuali, a giudizi già dati da persone o giornali autorevoli, purché siano in forma breve, sintetica. Danno al lettore l’impressione che un autore sia già caro a qualcuno. Creano una sorta di familiarità».
E a proposito di seduzione, e quindi di retorica, stilistica e compositiva, non possiamo non rimandare ai risvolti dei libri Adelphi, la cui impronta è altamente riconoscibile. Il risvolto di un libro adelphiano, sia esso di narrativa o di saggistica, è una sorta di gesto imperioso, che trova forza, avendo concorso nel tempo a solidificarlo, nel marchio di quella qualità di cui ormai l’editore ha convinto molti lettori. E in quanto segnale forte possiede, fra l’altro, funzione annessionistica. È in quella sede, infatti, che inizia l’inclusione del libro proposto nella biblioteca ideale che la casa editrice sta componendo negli anni. Ma con modalità, e intendimenti, che hanno poco a che vedere con una retorica della persuasione rassicurante nei confronti del lettore. Anzi, talvolta perfino sfiorano l’oscurità. Se l’eclettismo, l’anticonformismo, il dandysmo culturale sono le prerogative riscontrabili nel progetto di questo editore, tali peculiarità appaiono anche nei risvolti dei suoi libri.
Non a caso la figura retorica più frequentata è l’ossimoro, la stridente combinatoria dei significati, giocata prevalentemente sull’aggettivazione. «Con questo romanzo labirintico e fulmineo…», potrebbe essere un buon esempio di stile che punta allo sconcerto, teso a ribadire, peraltro, quella fuga dalla banalità che ogni libro siglato Adelphi intende affermare. Al di là del bene e del male, al di là dell’oggettività del libro – basti per tutti, sempre a titolo di esempio, il clamoroso successo de La lettera d’amore di Cathleen Schine, un buon romanzo di intrattenimento femminile che dal marchio ha ricavato la sottolineatura del suo elemento più glamour, i lettori italiani hanno premiato questo sigillo doc. Se quel romanzo fosse uscito presso un’altra sigla è verosimile, anche se è ineluttabile restare nel campo delle ipotesi, che in libreria lo avrebbe premiato un numero inferiore di lettori.
Si alludeva a certa cripticità che talvolta il lettore, salvo farsene sedurre, si ritrova costretto a decodificare leggendo i risvolti di copertina. Magari in piedi, davanti a un bancone, nei pochi minuti riservati all’acquisto dei libri, in una posizione logistica non esattamente rilassata o disposta alla concentrazione intellettuale. Ebbene, quello di una certa condensazione concettuale non è il solo o l’ultimo dei segnali che dicono la tendenza a utilizzare per i risvolti una scrittura critica, interpretativa, di secondo grado, una scrittura che commenti invece di informare sul contenuto del libro. Altri ce ne sono, e contraddittori: da una parte il clamore, l’enfasi promozionale, troppo abusata e ormai non più credibile, dall’altra certo ricorso a termini alti, ideologici, politically correct, come «etica», «morale» o, un po’ in calando ma non senza minori ambizioni fondative, a espressioni esauste come «il potere vivificante della parola».
Nello stilare il suo personale decalogo, Omelia Robbiati, direttore editoriale della Sonzogno, premette che la sua attitudine alla chiarezza probabilmente è facilitata dalla tipologia dei romanzi che pubblica. Marchio popolare per tradizione, la casa editrice del gruppo RCS propone, per lo più, narrativa straniera di intrattenimento. Ma non solo. «Credo che i risvolti siano fra gli elementi decisivi per l’acquisto di un libro» sostiene, concreta. «Per cui devono essere fatti a uso del lettore. Devono raccontare il plot, sia pur non fino in fondo, con scrittura chiara ed equilibrata, che non ecceda nei superlativi. E con un’idea critica sul romanzo, ma espressa semplicemente. Talvolta lo chiudo con il resoconto del successo in altri paesi del libro che sto per pubblicare. Per informare, ma anche per finire in crescendo su un ritmo di scrittura che anche un risvolto deve avere. Ritmo compositivo che non necessariamente deve significare densità dello stile, come ogni tanto mi capita di leggere. Ma chissà, forse la produzione più alta è elitaria per sua natura … ».
O forse, diremmo noi, è un fraintendimento dal quale gli usi e i costumi del “ risvoltese” non riescono a emanciparsi. Come se alto e basso letterario fossero condannati a divergere perfino negli alfabeti degli apparati paratestuali.
Anche perché poi tutto ciò non corrisponde sino in fondo alla pratica. Basta spostare lo sguardo sul prosieguo della vita editoriale di alcuni romanzi per prendere atto che anche i risvolti – che spesso diventano quarte di copertina – cambiano stilemi. Non appena escono dalla luce dei riflettori delle prime edizioni, si fanno molto più leggibili. Nelle edizioni economiche, evidentemente rivolte a un pubblico più numeroso e più indistinto, il racconto delle trame riacquista valore e presenza, il testo si sintetizza, l’elemento critico si stempera, magari anche correndo il rischio di farsi più banale. Ma il tutto acquista una vigoria contenutistica molto più funzionale all’informazione. Forse è la sede in cui maggiormente la scrittura editoriale si fa di servizio.
A questo punto, insorge un dubbio che riguarda le conseguenze, magari contraddittorie come spesso avviene quando si verificano dei cambiamenti, delle modalità produttive dei libri economici. Premessa vuole che si contempli la pratica da parte degli editori, ormai diventata una consuetudine, di affidarne revisione e preparazione ad agenzie di servizi editoriali esterne a redazioni che sono sempre più depauperate di dipendenti fissi e interni. Viene da chiedersi, dunque, se non provenga proprio da n, da luoghi satellitari ma lontani da logiche troppo autoreferenziali e centripete, un’idea di scrittura per i risvolti che sia più attenta ai bisogni del consumatore.
Resta, infine, qualcosa da dire sul punto di vista dell’autore. Succede che talvolta rediga egli stesso il risvolto, succede anche che intervenga sulla scrittura altrui. E, se la sua forza contrattuale glielo consente, succede perfino che eserciti il potere di fermare la stampa del libro se il risvolto non è di suo gradimento o se non contiene i superlativi che lui ritiene debbano comparirvi.
Beppe Fenoglio, il risvolto della sua Malora, lo lesse stampato.