Mica facile fare l’agente letterario

A quasi vent’anni dalla scomparsa del monopolista Under, la situazione in cui si trovano a operare i pochi agenti italiani che ne hanno raccolto l’eredità è del tutto mutata. Il contesto editoriale (italiano e internazionale), il sistema dei media, la diffusione dell’informatica e, non ultimo, il gusto del lettore, pongono quotidianamente gli agenti difronte a nuove difficoltà, da risolvere con quella delicatezza e spregiudicatezza insieme che continuano a rappresentare gli assi nella manica di questo professionista del mercato letterario da noi ancora poco conosciuto.
 
Già una volta mi hai imbrogliato, ragazzo mio,
e una seconda non ce la farai più ad abbindolarmi
Alexander Lernet-Holenia, Il Signore di Parigi
nella traduzione di Erich e Dennis Linder
 
Non ha senso rimproverare a un venditore d’essere un venduto!
Snoopy in una versione di Art Spiegelman
 
Di che cosa parliamo quando parliamo di agenti? L’agente letterario è tradizionalmente diverso da quello teatrale e dal suo collega che gestisce i rapporti con cinema e televisione. Non è raro il caso di autori che si rivolgano a due agenti distinti, a seconda dell’utilizzo finale del loro prodotto. Ora, cosa faccia un agente non rappresenta probabilmente l’aspetto più interessante del suo mestiere: importa invece qualcosa di più personale e impalpabile: importa il come, l’abilità nel costruire attorno a uno scrittore una carriera, nel farlo crescere da scrittore a vero e proprio autore, riconosciuto e rispettato come tale. L’agente tesse rapporti: per questo, più ancora della sua ruse contrattuale, conta il modo in cui si muove, la sua reputazione, il gusto, la personalità, diciamo pure, quando c’è, il carisma.
Si tenga presente che la situazione italiana, pur avendo subito mutamenti anche traumatici, continua a differenziarsi da quella esistente soprattutto a Londra e New York, dove il literary agent non solo è una categoria professionale talmente richiesta da venire indicizzata nelle pagine gialle, ma rappresenta istituzionalmente il tramite imprescindibile per far arrivare un dattiloscritto sulla scrivania di una casa editrice. I dati dei primi anni Novanta parlavano, per il solo mercato statunitense, di una quota di libri agented che superava il 90%. Ciò, tra l’altro, ha stimolato da tempo la curiosità degli studiosi: esiste infatti una produzione non trascurabile di indagini sui casi più rappresentativi dei rapporti tra scrittori e agenti. Tra i primi, spiccano i nomi di Conrad, D.H. Lawrence, Scott Fitzgerald, Eudora Welty, Auden; tra i secondi, quelli di J.B. Pinker, A.P. Watt, Curtis Brown, William Colles, Paul Reynolds, Flora Holly, Harold Ober, Elizabeth Nowell. Occorre ricordare anche i nomi di chi, nel mondo angloamericano, ha aperto la strada a questo tipo di ricerche: James West III, Michael Kreyling, Thomas Bonn, Mary Ann Gillies, David Finkelstein. La prossima sistemazione, a Milano, della corrispondenza editoriale del principe degli agenti italiani del secondo dopoguerra, il celebre Erich Linder, l’uomo con «tre teste» (G.B. Guerri), fa ben sperare per l’avvio di un lavoro analogo commisurato alle peculiarità del nostro Novecento letterario.
Parlando di Vittorini, una persona vicinissima a Linder ricordava, con insospettabile nostalgia, di aver portato a termine «bellissimi contratti»; eppure, insistono tutte le parti in causa, il bravo agente vale ben al di là della semplice transazione (sempre meno semplice, a dir la verità) . L’agente non può limitarsi a essere un aggressivo dealmaker; e di fatto la stessa relativa scarsità di agenzie presenti sul mercato italiano suggerisce una maggiore attenzione in senso lato ai valori di qualità dei prodotti rappresentati. Ciò non toglie, primo, che gran parte (gli editoriali più maliziosi sostengono la maggior parte) dell’attività di un agente italiano consista nell’opera di rappresentanza di agenti stranieri («troppo spesso i nostri agenti si limitano a gestire patrimoni creati da altri», osserva un interpellato); secondo, che alcuni agenti percepiscano la “letterarietà” dei nostri scrittori come una caratteristica non del tutto positiva, e che vadano quindi alla ricerca di prodotti di “ genere” innovativi nel linguaggio e più al passo con gli umori diffusi. Più che mero esecutore notarile di un rapporto editore-autore già esistente, l’agente italiano parrebbe avvicinarsi all’altra definizione corrente tra gli stand e le stanze di questo piccolo mondo moderno, quella dello spin doctor, colui che sobilla e fa delle “soffiate” a fin di bene. Sempre più spesso è l’editore a consigliare all’ autore, dopo il primo contatto e magari dopo il primo libro, di regolarizzare la sua posizione affidandosi a un agente; scomparsa ormai la figura del padre-padrone (ed entrate nell’aneddotica semileggendaria le telefonate domenicali di Arnoldo Mondadori a Linder), l’agente si rivela come colui (per correttezza, quasi sempre colei) che meglio dell’editore e dell’editor sa prendere le misure al singolo autore, costruendogli addosso nel tempo una carriera su misura e ragionando sull’investimento che non può essere solo di tipo economico.
Da parte degli editori, entra in gioco anche la volontà (non si può neanche più parlare di tendenza) a scaricare il più possibile: il lavoro redazionale innanzitutto (si veda la proliferazione di studi grafico-editoriali), ma anche il contatto umano con l’autore, che spesso è gravoso e pesante per motivi non trascurabili d’ordine psicologico e per la gestione del tran-tran quotidiano. Si tenga comunque presente che una figura in crescita come quella dello scout (di solito al servizio contemporaneamente di una rosa di editori internazionali) segnala l’impegno e la necessità degli editori nello scoprire voci e titoli nuovi, oltreché nel coltivare, per via per così dire preliminare e informale, contatti diretti. D’altra parte, l’agente assolve al compito di cinghia di trasmissione e di camera di decompressione, in un contesto ormai platealmente disumanizzato dove l’area marketing propone titoli alle direzioni editoriali e dove l’ enfasi sui ricavi, il budget, le alte tirature ha introdotto una “sana” logica aziendale con la quale il più delle volte lo scrittore non sa o non è interessato a entrare in sintonia. I manager – puntualizza un decano dell’ambiente – puntano forsennatamente a ricavi netti del l 0-15% sul capitale investito, quando da sempre l’editoria non rende, in condizioni favorevolmente normali, più del 3 -4%. L’agente non deve solo trattare con i “cannibali”: ha anche a che fare, da anni ormai, con i metodi e la mentalità dei “nuovi barbari” dei piani alti. Gli agenti rammentano, però, che altrettanti, se non maggiori, sono i rischi a cui va incontro lo scrittore pubblicato dal piccolo editore. Se non altro per motivi di gestione interna, è difficile che i grandi carrozzoni editoriali della ridente periferia milanese operino scientemente ai danni di un loro autore – sebbene i pagamenti a quattro, sei o enne? mesi, i rendiconti annuali invece che semestrali, i giochetti micragnosi sulle rese costituiscano il proverbiale aspetto poco edificante… La spregiudicatezza dei piccoli, invece, assume non di rado dimensioni comico-truffaldine. Come dire che la disumanità manageriale sortisce effetti a volte paragonabili alla fumistica cordialità del rapporto personale. Ecco un altro nodo che gli agenti, per esperienza e competenza, sono abituati a sbrogliare.
Si capisce che in tanti casi di autori consolidati la funzione dell’agente diventi quasi “trasparente”; spesso, dopo anni o decenni di carriera, per uno scrittore l’agente risulta semplicemente inutile, per lo meno in Italia, dove il rapporto con l’editore si è consolidato. Ma anche le nostre firme più riconosciute ammettono l’importanza dei loro agenti per la diffusione all’estero. Gli agenti ribattono semmai ricordando l’inconsistenza, ai fini delle vendite, del «mito americano», e l’importanza, per la nostra narrativa, non solo dei tradizionali mercati europei (suscettibili comunque agli ondeggiamenti delle mode), ma anche di quelli latinoamericani e dell’Estremo Oriente (alcuni nostri fortunati scrittori vendono, senza che nessuno se ne accorga, migliaia di copie in Giappone, Corea, persino in Cina). Un agente ci ricorda che si guadagna vendendo i libri, non con gli anticipi.
La professionalità di questo middleman, tramontata l’epoca epico-eroica di un Linder che aspetta Solzenicyn all’aeroporto di Zurigo per la firma di un contratto, è oggi messa a dura prova da un contesto in continua espansione numerica, reso vulcanicamente caotico dagli utilizzi informatici. Si continua a operare, come abbiamo accennato, in un paese in cui la vetustà del quadro legislativo relativo al diritto d’autore è accresciuta, per usare la vecchia osservazione di Ernesto Rossi, dalla pressoché totale inosservanza delle leggi. Mancano la cultura, la sensibilità e l’ abitudine al rispetto (leggi: al pagamento) della merce scritta. Tipicamente, nel caso di un articolo firmato su un giornale, le foto di corredo vengono automaticamente retribuite, il “pezzo” no o chissà: altro pane per i denti dell’agente, e non del più digeribile. D’altro canto, il ventaglio degli utilizzi sul mercato della parola d’autore si è allargato a dismisura: c’è il giornalismo e la scrittura di libretti musicali, ma anche il merchandising, la partecipazione a convegni, a campagne pubblicitarie e a pubblicazioni aziendali, l’offerta di sceneggiature e di collaborazioni a sceneggiature (che per lo più, come si diceva, comporta il passaggio sotto la tutela di altre figure professionali). Di conseguenza, si sono ampliate enormemente le tipologie dei contratti: e ancora si attende una regolamentazione giuridico-economica della scrittura in rete. Si noti poi l’importanza sempre maggiore che anche da noi ha assunto in anni recenti il mass-market costruito con gli ultraeconomici, che in parte ha colmato le perdite provenienti dal circuito ormai monopolistico dei club del libro.
Dove si esercita, allora, il potere dell’agente? Certo, nella stipulazione dei contratti, anche se questa rimane, per ovvie ragioni, un’area in cui la professionalità si misura anche in rapporto alla riservatezza verso l’esterno, e in cui di conseguenza è più difficile penetrare. Ma la sua attività di mediazione è tanto più proficua e redditizia quanto più genera una sorta di creatività riflessa. L’agente potrà di volta in volta essere un autentico ideatore (quasi un soggettista) di libri, quando dal suo studio escono spunti per progetti, idee-guida per un libro (specie in saggistica o nella narrativa di genere: pensiamo alle collane di varia e di umorismo) . L’agenzia letteraria, luogo delle sinergie editoriali, crea e dispensa opportunità di guadagno non necessariamente legate all’oggetto-libro. Ancora, l’agente può proporre un servizio completo e collaborare con l’editore a monte e a valle dell’uscita, nell’editing del testo come nella sua campagna pubblicitaria. Crea carriere agendo nel contempo da moltiplicatore di diffusione e guadagni.
Soldi & letteratura: dalla Grub Street vittoriana (in cui Thackeray parlava del suo agente come di un «rifugio») agli uffici odierni, simpaticamente traboccanti di opere originali, scarti d’ogni tipo, fax, foto e dediche dei maestri del brivido e di grandi personaggi della cultura italiana e internazionale, tra corridoi di contratti e ricordi di Calvino e Soldati, di Sartre e degli anni ruggenti del fumetto d’autore, si dispiega una peculiare storia economica, di cui forse non conosceremo mai i numeri e le percentuali, e che si mantiene abilmente in bilico tra sensibilità intellettuale e progettualità concreta. Un altro, forse, di quei «capolavori sconosciuti» di cui parlava il vecchio Balzac.