L’editore è un operatore di logistica. Intervista a Cesare De Michelis

«Ormai, per un editore, è sempre più difficile ancorare la propria identità a una prospettiva ideologico-culturale. La crisi dell’identità ideologica consente l’emergere di un’identità più pragmatica, legata all’attività principale dell’editore che, nel suo piccolo, è un operatore di logistica: infatti trasferisce dei testi da un luogo all’altro, da una persona all’altra. Così, alla fine un editore identifica il proprio ruolo con quello che concretamente è in grado di fare […]. Fin dalle origini abbiamo sempre dato importanza all’editoria di servizio, facendo libri con fondazioni, enti locali, istituzioni e università».
 
Cesare De Michelis è da trent’anni l’anima della Marsilio. Nata nel 1961, la casa editrice veneziana, il cui fatturato a prezzo di copertina oggi si aggira attorno ai 20 miliardi di lire, vanta nel suo catalogo oltre 4.000 titoli, 1.500 dei quali sono ancora in listino. A questi si aggiungono ogni anno circa 200 novità. De Michelis, che divide il suo tempo tra l’attività editoriale e l’insegnamento della letteratura italiana all’università di Padova, ha recentemente deciso di cedere il 51% della Marsilio al gruppo RCS.
 
Cesare De Michelis, come è nata questa decisione?
Finora l’indipendenza della casa editrice era essenzialmente legata alla mia persona. Avendo ormai quasi sessant’anni e non avendo figli intenzionati a fare gli editori, volevo garantire all’azienda un’esistenza futura solida e autonoma. Naturalmente non c’era urgenza, ma queste cose non si fanno a ottant’anni. Vendendo oggi, ho potuto impegnarmi a restare nella casa editrice ancora per alcuni anni come presidente, garantendo così la linea editoriale e una transizione indolore. La mia presenza consentirà la progressiva integrazione dell’azienda all’interno del gruppo RCS, ma senza forzature e senza rinunciare alla più totale indipendenza delle nostre scelte editoriali. Ho deciso di vendere la maggioranza della casa editrice – e non solamente una quota di minoranza – perché in questo modo l’impegno nei nostri confronti di chi acquista sarà più consistente ed effettivo. Il fatto poi di conservare solo il 49% non mi sembra un problema, perché sarà la mia capacità gestionale a difendere la nostra indipendenza nelle scelte editoriali e gestionali, e lo sarà molto di più dell’apparente indipendenza del 51%, che secondo me non garantisce assolutamente dalla possibilità di esproprio reale di una parte dei poteri decisionali. L’accordo con un grande gruppo permette inoltre di risolvere almeno in parte alcuni dei problemi della distribuzione, che sono oggi il vero nodo dell’editoria. Ormai presentarsi da soli in libreria è sempre più difficile per un editore della nostra taglia, ma finora i consorzi di piccoli e medi editori hanno sempre prodotto risultati deludenti. L’alleanza con un grande gruppo mi sembra insomma inevitabile. Essere distribuiti da un distributore che ha interessi diretti nella nostra attività ci consentirà di essere gestiti e difesi meglio, questi infatti può trattare per noi condizioni che da soli non potremmo mai ottenere.
 
Perché la RCS e non un altro gruppo?
A noi non interessava tanto l’ aspetto finanziario dell’operazione, quanto la possibilità di sinergie e di servizi comuni. L’azienda non aveva bisogno di capitali, ma di un alleato attivo che traesse anche vantaggio dall’esercizio del nostro lavoro. È il motivo per cui abbiamo scartato l’ipotesi di un partner al di fuori dell’editoria. Alla fine, abbiamo scelto RCS – con cui i contatti erano stati allacciati da tempo – perché era il gruppo con il quale c’erano meno sovrapposizioni dirette. E poi la tradizione dell’ organizzazione Rizzoli è quella che ha garantito ad Adelphi o alla Nuova Italia di mantenere la loro identità specifica. Sarà così anche per noi. L’accordo infatti garantisce la nostra identità e la nostra piena indipendenza, anche se naturalmente è più facile rispettare gli accordi quando l’azienda va bene, come adesso. Le cose diventeranno più difficili, se per caso i conti iniziassero a non tornare più.
 
Perché RCS ha scelto voi?
Innanzitutto volevano rafforzare la loro presenza in libreria, ma sul mercato le sigle totalmente indipendenti della nostra dimensione sono pochissime. Nel nostro lavoro, al di là del valore del catalogo, hanno visto una potenzialità di sviluppo particolarmente marcata, poiché in fondo siamo una casa editrice molto visibile nel panorama culturale (basti vedere il gran numero di recensioni che ottengono i nostri libri), ma non ancora abbastanza presente sul mercato. Tra la visibilità e le vendite effettive c’è una distanza che un’organizzazione più efficace dovrebbe colmare, consentendo quindi margini di crescita consistenti. Inoltre, il gruppo RCS era particolarmente interessato al settore dei cataloghi delle mostre, un settore nel quale è poco presente e che invece noi coltiviamo da anni.
 
Lei prima ha parlato della necessità di conservare la vostra identità, oggi però le differenze tra le case editrici tendono a ridursi. Come fare per distinguersi dagli altri editori e difendere la propria identità?
Ormai, per un editore, è sempre più difficile ancorare la propria identità a una prospettiva di tipo ideologico-culturale, il che secondo me è molto liberatorio. La crisi dell’identità ideologica consente l’emergere di un’identità più concreta e pragmatica, legata all’attività principale dell’editore che, nel suo piccolo, è un operatore di logistica: infatti trasferisce dei testi da un luogo all’altro, da una persona all’altra. Così, alla fine un editore identifica il proprio ruolo con quello che concretamente è in grado di fare. Da questo punto di vista, allora, la Marsilio è una casa editrice che riesce a essere presente a livello nazionale, andando abbastanza bene nei grandi centri, molto meno bene nei centri più piccoli.
 
Ma se l’identità è legata esclusivamente alla logistica significa che è indipendente dai contenuti? Per l’editore, conterebbe solo la funzione e non la cultura che veicola?
No, in realtà qualche relazione con i contenuti l’identità ce l’ha sempre, perché i circuiti commerciali determinano i libri: le opere per le librerie Feltrinelli non sono le stesse che vanno in edicola. Quindi, se voglio andare nelle librerie Feltrinelli dovrò fare libri di un certo tipo. Detto ciò, credo comunque che alla fine un editore sia essenzialmente solo un operatore di logistica. Motivo per cui dagli editori mi aspetterei molta meno mistificazione e spocchia culturale, ma molta più pragmatica concretezza. Io sono un editore di progetto aperto all’innovazione, ma lo sono proprio perché controllo un certo mercato delle librerie e delle biblioteche, e perché ho determinate relazioni con il mondo accademico universitario. Insomma, non lo sono perché voglio esserlo io o perché l’ha detto qualcuno, lo sono perché nel sistema di relazioni e comunicazioni che ho messo in moto ho privilegiato determinati gangli del sistema, investendo in questa direzione invece che in un’altra.
 
Tutto ciò sembra spostare il baricentro dell’attività editoriale dal momento della produzione a quello della distribuzione…
È sempre stato così fin dai tempi di Manuzio, anche se per molto tempo si è fatto finta di non capirlo. Il libro lo scrive l’autore, lo stampa il tipografo, lo vende il libraio, lo legge il lettore: l’editore in fondo è superfluo, serve solo a costruire la rete perché queste persone stiano in relazione. Teoricamente sembrerebbe perfino non essere necessario, eppure è insostituibile perché fornisce la logistica di questa rete. Organizza un sistema che, con il minor costo possibile e con la maggiore rapidità possibile, riesce a far arrivare il libro da chi scrive a chi legge. L’editore bravo non è quello che vende cinque milioni di copie rispetto a quello che ne vende solo cinquemila, bensì quello che ha nella memoria del computer le cinquemila persone che verranno a comprare il libro la mattina stessa che esce dalla tipografia. L’editore bravo è quello che permette all’autore di raggiungere rapidamente i suoi cinquemila lettori, quello che minimizza e razionalizza i costi, massimizzando i profitti.
 
Ma l’editore ha bisogno di differenziarsi dagli altri editori? Oppure, dal punto di vista dei lettori, il marchio è ininfluente?
Dal punto di vista dei lettori, il marchio è sempre stato poco influente. È molto più influente l’autore. È vero che in alcune situazioni l’identità della casa editrice diventa valore aggiunto per il libro, ma alla fine non è poi così determinante. Arbasino è Arbasino indipendentemente dalla casa editrice che lo pubblica, anche se certo Adelphi è un bel sistema di referenze che rende più facile per il lettore trovare Arbasino. Con ciò non voglio dire che non sia necessario differenziarsi: tra il pony-express e il corriere internazionale ci sono molte differenze. L’editore però ha bisogno di differenziarsi non tanto rispetto al lettore (tranne forse il lettore forte) , quanto rispetto all’autore e ai librai, perché altrimenti i suoi libri si perdono nel grande mare dell’editoria. Se io trasporto tutto ovunque, teoricamente ho un mercato mondiale, che però in pratica è indefinito, disperso e sfuggente. Se invece delimito molto i miei prodotti e il mio raggio d’azione, il mio mercato sarà più piccolo, ma molto definito, riconoscibile e specializzato. Insomma, la logistica incide a tutti i livelli e diventa sempre più determinante, in termini di costo nella produzione, in termini di qualità e in termini di conquista di mercati. Ecco perché, come dicevo, l’identità di un editore non è più ideologica o estetica, ma piuttosto un’identità progettuale e culturale dipendente da queste scelte, scelte che comunicano informazioni agli autori, ai librai, ai giornalisti e in ultima analisi anche ai lettori. A questa identità naturalmente diamo poi anche alcuni segni esterni di grafica, di stile, di colore, ecc., ma sono segni che rinviano innanzitutto a un’identità logistica.
 
Ma è proprio sul piano logistico che, nel mercato attuale, diventa sempre più difficile sopravvivere per gli editori di media grandezza come la Marsilio…
È vero. È palesemente chiaro che il sistema distributivo e i costi di commercializzazione prevedono investimenti che comportano una mole di affari superiore a quella delle case editrici medie. Di conseguenza, occorre fare alleanze, su questo non ho dubbi, non si va su Internet in ordine sparso. Il problema è come costruirle: si possono fare le cooperative, le holding, farsi assorbire da un gruppo più grande, ecc.; le soluzioni sono molte e non bisogna essere pessimisti. Un grande editore non ha interesse a comprarmi per cancellarmi; se compra la mia casa editrice, il mio passato e il mio catalogo, è perché gli interessa il lavoro che faccio. Quindi ha interesse ad aiutarmi a svilupparmi. Così, se mi consente di vendere a minor costo e con maggiore efficienza i miei libri, per me è un’operazione vantaggiosa. Non vedo il rischio che alcuni paventano, ma occorre sempre capire qual è il patto, quali sono gli interessi in gioco da entrambe le parti. Può darsi che i piccoli debbano sparire, questo è un rischio oggettivo, che siano alleati o meno, ma, almeno sulla carta, è più facile che non scompaiano, se si alleano. Certi servizi e certi costi non sono più sostenibili dal singolo piccolo editore, il quale o si ingigantisce oppure, se non ha la forza di ingigantirsi, si allea. Purtroppo però, molto spesso i piccoli editori sono velleitari e onanisti. Alle loro velleità, preferisco ancora le attività concrete in piccole aree di mercato, che costruiscono a poco a poco rapporti solidi e produttivi.
 
La Marsilio, infatti, ha spesso lavorato con gli enti locali e le università…
Sì. Fin dalle origini abbiamo sempre dato importanza all’editoria di servizio, abbiamo fatto e continuiamo a fare diversi libri con le fondazioni, gli enti locali, le istituzioni e le università. In genere, sono collaborazioni nel settore della saggistica, talvolta anche nell’ambito del libro illustrato e della monografia d’arte. Il problema è che oggi il confine tra l’editoria vera e l’editoria di servizio è sempre più labile, anche perché la casistica è molto varia. Le università, ad esempio, cofinanziano alcune opere, permettendo di ridurre il rischio dell’editore.
 
Dal punto di vista del lavoro editoriale, l’editoria di servizio si svolge con modalità diverse dall’editoria più tradizionale?
Di solito no. La redazione è unica e la commercializzazione è la stessa, naturalmente con risultati differenti. Non si tratta di due case editrici diverse. Anzi, lo sforzo più complesso è proprio quello di integrare le due attività: a volte sono i clienti e le istituzioni che ci propongono progetti loro che poi noi facciamo nostri, immaginando il modo migliore di realizzarli; altre volte invece il progetto è nostro. Quando per un progetto con una precisa valenza editorial-culturale i conti non tornano, allora cerchiamo forme di sostegno finanziario che ci permettano di realizzarlo. In questo modo abbiamo fatto l’edizione nazionale delle opere di Goldoni, un progetto pensato e costruito in casa editrice, per il quale però, visto che richiedeva un impegno finanziario rilevante, abbiamo messo in moto diverse procedure per ottenere contributi di vario tipo e per promuovere la vendita nelle biblioteche. Oggi che tutti gli editori hanno scoperto le banche e gli enti locali, è bene ricordare che l’identificazione di questi canali comporta una professionalità commerciale specifica, la conoscenza delle procedure, dei tempi, dei bilanci, ecc. Non sempre è facile gestire queste collaborazioni.
 
Alcuni sostengono che un certo tipo di saggistica specializzata non sarà più pubblicabile, se non appunto attraverso i finanziamenti di enti e istituzioni. Lei cosa ne pensa? Questa saggistica è veramente destinata a scomparire?
Secondo me occorre fare un ragionamento più complesso. La decisione di affrontare certi temi e la costruzione di alcuni modelli di libro non sono mai state determinate né dal mercato né dall’editoria, è sempre stato l’autore a decidere. Questi ha sempre scelto di scrivere un certo saggio piuttosto che un altro, non per via delle sue relazioni con il mercato, ma per via delle sue complesse attività professionali. Il mondo universitario è paradossale, visto che spinge un autore a lavorare tre anni per pubblicare un libro che venderà pochissime copie, ma che gli consentirà di vincere una cattedra. L’università ha messo in moto dei meccanismi di selezione del personale e dei modelli culturali sempre più disancorati dalla realtà. Di conseguenza, è sempre più difficile l’operazione – che in passato sembrava più facile – di travasare i risultati della ricerca accademica all’interno di prodotti editoriali in grado di rivolgersi al di fuori del mercato ristretto dei ricercatori, raggiungendo quello che, nella mitologia editoriale, è il cosiddetto pubblico medio-colto. In passato, i saggi storici di Cantimori si rivolgevano agli storici ma anche alle persone colte, lo stesso accadeva ancora poco tempo fa alla biografia di Mussolini scritta da De Felice. Oggi però la ricerca è sempre più specializzata ed è sempre più difficile che riesca a interessare il pubblico dei non ricercatori.
La filologia, ad esempio, produce testi incomprensibili per una persona medio-colta e l’interesse delle scoperte dei filologi è del tutto relativo al di fuori della cerchia ristretta degli specialisti. È per questo che esiste tutto un mercato autoreferenziale e chiuso, in cui il libro vive completamente al di fuori dei tradizionali circuiti commerciali, giacché è di solito prepagato e di fatto non distribuito, rivolgendosi esclusivamente agli studenti e ai colleghi dell’autore. L’editore di tali testi è quasi sempre un semplice tipografo. Questa purtroppo è la realtà con cui si deve fare i conti, se si vuole ancora pubblicare saggistica di qualità.
 
Voi allora come vi muovete?
Tenendo conto di questo contesto e di tale evoluzione, tra i diversi libri che ci vengono proposti, noi cerchiamo di selezionare quelli in cui un editore di cultura come pensiamo di essere noi è in grado di aggiungere una quota anche minima di mercato suppletivo. In pratica, cerchiamo libri che possano andare anche in libreria e ottenere una qualche forma di visibilità attraverso la stampa, vendendo magari qualche centinaio di copie in più. Questa operazione per noi vale poco in termini monetari, un poco di più in termini culturali e d’immagine. Vale inoltre perché fa circolare le idee, ma soprattutto perché costringe gli autori a riflettere di più al taglio dei loro libri e costringe noi editori a dialogare di più con il mondo universitario. Naturalmente, queste opere non si possono fare senza avere i contributi dell’università, che possono coprire i costi di un libro dal 30 al 60%, a seconda delle nostre valutazioni sulla sua commerciabilità.
 
L’imprenditorialità dell’editore sta quindi nel valorizzare un dato testo e tirarlo fuori dal mercato autoreferenziale, per cercare di metterlo a disposizione di un pubblico più vasto…
Sì, soprattutto cercando di spingere gli autori a preferire tematiche, ricerche e linguaggi che consentano un dialogo più fruttuoso con noi e con il pubblico. Alberoni da giovane scriveva libri accademici molto apprezzati ma poco letti; il giorno che ha deciso di rivolgersi a un pubblico più largo ha dovuto trovare altre modalità di comunicazione, che però sono disprezzate dal mondo accademico. Lo stesso vale per Sgarbi, uno storico dell’ arte che, quando scrive in un linguaggio accademicamente disprezzato, trova quei lettori irraggiungibili con un linguaggio più accademico. La realtà è che ci sono due circuiti del pensiero che interferiscono tra loro sempre meno. La nostra casa editrice vuole provare a essere il tramite di questa interferenza. Così è nata la nostra collaborazione con la Fondazione Cini e così è nata l’edizione nazionale delle opere del Goldoni, che in alcuni casi ha pure conosciuto qualche ristampa. li che significa che siamo riusciti a costruire un modello editoriale, dove l’edizione più scientifica che ci sia sul mercato riesce anche a essere adottata in ambito scolastico. Invece di costruire più edizioni di uno stesso autore rivolte a pubblici molto diversi, il nostro tentativo è quello di fare un prodotto un poco meno di lusso e d’élite, ma che sia in grado di rivolgersi a un pubblico più ampio. Naturalmente, bisognerebbe fare ancora di più, ma il dialogo tra l’editoria e il mondo accademico non è sempre facile. Le resistenze sono molto forti, anche perché i ricercatori hanno bisogno di una specializzazione sempre più agguerrita per ottenere le cattedre.
 
In ogni caso queste operazioni di valorizzazione della ricerca sono tipicamente quelle dei cosiddetti editori di cultura, un modello che alcuni sostengono essere ormai superato. Cosa ne pensa?
In realtà, il problema non riguarda solo l’editoria, ma il mondo nel suo complesso. Il mondo va a cancellare la cultura, e più in generale l’umanesimo, e quindi alla fine l’umanità. Secondo me, è questo l’esito della cultura tecnologica, marxista e nietzschiana, vale a dire di quasi tutta la cultura dominante del Novecento. lo però sono per oppormi a questo probabile destino, conservando uno spazio di agibilità per persone che abbiano altri interessi e visioni, vale a dire un’idea umanistica della cultura e della vita, la difesa dei grandi valori dell’Europa occidentale. Io sono per l’ alba dell’Occidente, non per il suo tramonto, come invece piace a Cacciari.
 
Ma queste proposte sul piano editoriale hanno una prospettiva concreta?
Se si è convinti di non arricchirsi facendo i libri, allora sì. Penso che si possa fare questo lavoro stando nel mercato, senza altezzosità o protagonismi. Si possono fare libri veri per un mercato vero, che certo è piccolo e quindi va coltivato e difeso. Non è necessario che le operazioni culturali siano voragini economiche; oltretutto, se lo diventassero, sarebbe un’ulteriore sconfitta di tale prospettiva. La difesa dell’equilibrio economico e della compatibilità con il mercato è il prezzo da pagare perché questa prospettiva non diventi un’astratta affermazione di fede, ma una concreta esperienza di radicamento. Se si deve chiudere, anche la testimonianza ideale che sta a monte viene sconfitta. In ogni caso, per questi prodotti d’élite, anche dal punto di vista del mercato, quello che conta è la qualità, come dimostra Adelphi. La qualità è l’unica garanzia che si può dare al lettore ed è l’unica vera leva commerciale dell’editore.
 
Insomma declinare qualità e rigore economico. A questo proposito, in Italia fino a qualche anno fa, da parte di molti editori c’era quasi una sorta di disprezzo per le questioni economiche, mentre oggi si cade nell’eccesso opposto. Se una volta si facevano i libri senza pensare a venderli oggi spesso si fanno solo libri a scopo di lucro. Siamo passati da un eccesso all’altro?
L’editoria non è il centro del mondo, al massimo è uno specchio nel quale si riflettono alcuni aspetti del mondo. Quindi l’argomento andrebbe trattato in maniera più generale. In passato, quando l’editoria di cultura diceva di disprezzare il denaro, in realtà metteva l’ideologia al centro della cultura, della vita e del potere. L’egemonia culturale si poteva pagare cara, perché rendeva potere. Oggi, la perdita di centralità di qualsiasi motivazione ideologica rende illogica tale prospettiva e quindi caduco un simile progetto editoriale. Oggi l’altrove non c’è più, perché mai qualcuno dovrebbe investire su qualcosa che non esiste? Come diceva Fortini, non esiste più il mandato sociale. Se ci fosse ancora, ci sarebbero decine di editori pronti a rimettersi in quell’ottica. Ma non è così. Di conseguenza, è vero che il parametro del mercato è diventato determinante. Ma non è solo per fini di lucro, visto che alla fine l’attività editoriale resta a bassa redditività e perfino un filo mecenatesca. Il mercato è diventato importante perché, in una società liberale, l’unica misura del successo e dell’egemonia è quella del successo numerario. Non è il livello di remunerazione economica che interessa all’editore, non è l’utile che è sempre modesto per qualsiasi editore, ma il fatto che la misura del consenso sul proprio progetto ha solo questo modesto strumento di valutazione. Alla fine, solo le copie vendute dicono se avevamo ragione.
 
Significa che lei non pubblicherebbe un testo in cui crede culturalmente e idealmente ma che considera privo di quelle caratteristiche di leggibilità in grado di favorire l’incontro con il pubblico?
Se lo pubblico anche sapendo che non lo venderò, fallisco non solo sul piano economico, ma soprattutto sul piano della difesa del miei valori ideali, perché offro al nemico lo strumento per distruggere il mio progetto culturale. Quindi lo posso pubblicare, solo se attorno a questo progetto sono capace in termini politici di creare quel minimo di consenso che lo legittima come soggetto marginale e minoritario, ma comunque esistente. Se uno scrive un saggio d’interpretazione politica e non ha un pubblico a cui rivolgersi, posso pubblicarlo solo se una qualche istituzione mi dà un mano a farlo. Io posso anche pubblicare un libro con i miei soldi e regalarlo, è un’operazione legittima, ma così non sto facendo l’editore. Personalmente, considero velleitario pensare di fare un libro sapendo di non venderlo e giustificando tale scelta come un’operazione culturale. In realtà non è un’operazione culturale, perché non raggiungo i miei interlocutori, e non è nemmeno un’operazione economica. Anzi è il segno che ho sbagliato. Detto ciò, si può fare benissimo un libro per 500 lettori, l’importante è saperlo. E poi naturalmente è un problema di prezzo. A questo proposito, a chi mi chiede di abbassare i prezzi di copertina, io rispondo sempre che il prezzo deve consentirmi di ristampare il libro, se per caso andasse bene. E ciò anche in presenza di finanziamenti esterni. Non posso vendere un libro sottocosto, perché se poi lo devo ristampare, invece di guadagnare, allargo il deficit. E naturalmente sarebbe una sciocchezza aumentare il prezzo della seconda edizione.
 
In passato, negli intellettuali e negli scrittori italiani ha spesso prevalso un certo atteggiamento snobistico nei confronti della ricchezza e del successo. Dal suo osservatorio d’editore, le sembra che la situazione sia oggi cambiata?
Sicuramente c’è stata una grande trasformazione. Una volta lo scrittore vendeva poche copie di un libro, alla cui stampa magari contribuiva anche finanziariamente, ma era risarcito con i consensi della società letteraria che alla fine producevano il prestigio e, attraverso di questo, anche redditi ricavati dalla collaborazione al giornale, dalla cattedra universitaria e così via. Oggi questi valori letterari sono diventati molto marginali, innanzitutto perché la cultura umanistica e letteraria sta perdendo centralità. Di conseguenza, il prestigio che si ricava dalla pubblicazione di un libro è molto meno visibile e importante di un tempo. Vincere lo Strega vent’anni fa significava entrare in certi salotti, oggi non più: si può restare sconosciuti anche vincendo lo Strega. Ma c’è anche un altro elemento che spiega questa evoluzione. Una volta, almeno nell’immaginario se non nella realtà, i valori artistico-letterari erano considerati valori durevoli; da due o tre decenni, invece, stiamo assistendo alla trasformazione di questi valori in valori effimeri. Non è un problema di qualità del singolo prodotto, ma una tendenza generale, visto che larga parte della cultura contemporanea si ispira a modelli per loro natura effimeri e volatili. Sono opere nate per non durare, che quindi è molto più difficile museificare, far vivere nel tempo e commercializzare sul lungo periodo. Ciò avviene anche nella letteratura, sebbene qui se ne abbia meno coscienza. Scrivendo I promessi sposi Manzoni sapeva che avrebbe misurato il risultato sulla lunga durata, affidandosi egli per primo alla gloria dei posteri. Oggi non è più così.
 
Perché?
Oggi, gli scrittori riscrivono lo stesso libro ogni due anni, pensando che sia più semplice farne uno nuovo che far sopravvivere quello vecchio. In questo modo affidano all’obsolescenza e all’oblio un’opera pubblicata appena due anni prima. Tale situazione evidentemente cambia il rapporto tra l’autore e il libro, anche se per ora non modifica più di tanto il rapporto con il denaro e quindi con gli editori. Ancora oggi, infatti, il 90% degli scrittori, prima di avere successo, sa che non l’avrà. Quindi non è difficile convincere un autore a pubblicare un libro rischiando con l’editore, rinunciando quindi ad anticipi da favola. Senza dimenticare, inoltre, che nel mercato italiano – tendenzialmente povero – non c’è spazio per anticipi da favola. E anche quando qualcuno ottiene anticipi considerati da favola, in realtà questi non sono sufficienti per cambiare la qualità della vita dello scrittore. Insomma, secondo me, non è che oggi gli scrittori siano più interessati al denaro di una volta. Piuttosto è cambiata la misura del consenso culturale, visto che non esiste più una carriera di scrittore, ma solo il mercato che certifica l’autorevolezza. Gli scrittori ormai sanno che la misura reale del consenso – e quindi dell’apprezzamento e del prestigio – è data dalla terza edizione di un libro più che dal premio letterario. La laicità un poco rozza dell’auditel, quando la si riporta su un terreno dove diventa comunque simbolica, acquista una sua importanza. Così, l’autorevolezza di un soggetto culturale sullo scenario della battaglia delle idee – per usare metafore arcaiche – è data molto di più dal numero di copie vendute che da altri segnali, poiché mancano luoghi autorevoli che certifichino altrimenti la grandezza dell’autore.
 
Eppure gli autori sono sempre molto sensibili ai riconoscimenti delle recensioni…
Ma solo perché è l’unica forma di pubblicità che spesso possono avere.
 
Sì, ma forse anche perché, oltre al riconoscimento del mercato, ambiscono ancora al riconoscimento della società letteraria…
È vero, ma solo perché le mitologie faticano a morire. La nostalgia dell’incoronamento di tipo petrarchesco, in Campidoglio con l’alloro, è ancora fortissima, solo che non c’è più il Campidoglio. E anche i premi più ambiti si stanno isterilendo. Naturalmente, non è tutto così automatico, perché altrimenti Gino e Michele sarebbero all’Accademia dei Lincei. E il mercato è ancora guardato al contempo con desiderio e sospetto. E però vero che di fronte alla carenza di strumenti di rilevazione differenti, il metro del mercato ha oggi maggiore legittimità rispetto al passato. Da questa situazione nasce anche il fenomeno largamente diffuso della disaffezione degli autori nei confronti degli editori, fenomeno favorito anche dall’identità sempre meno marcata degli editori. Siccome le differenze tra le maggiori case editrici sono diventate molto labili, o c’è un sistema affettivo e familistico che lega l’autore a una o più persone della casa editrice, oppure si suppone che cambiando editore sia più facile ricontrattare le condizioni di pubblicazione a proprio vantaggio (pensa l’autore, ma anche l’editore), sperando oltretutto di avere un impatto maggiormente innovativo sul mercato, che però per queste stesse ragioni è sempre meno affezionato ai propri idoli. Ormai siamo lontanissimi dall’epoca in cui il processo di commercializzazione delle opere di Gramsci era fatto in maniera lenta e progressiva, creando una catena virtuosa che legava un libro all’altro.
 
Il venir meno delle differenze tra gli editori ha anche altre conseguenze?
Dal punto di vista dell’editore, avere dei quadri di riferimento ideologico-culturali molto forti facilitava la selezione dei libri da stampare, mentre lavorare all’interno di una griglia culturale mobilissima e fragile rende più difficile le scelte. Nel 1963 , per un redattore della Feltrinelli il lavoro era molto più facile: una volta pubblicati Balestrini e Sanguineti, gli altri autori venivano di conseguenza, perché davano una certa connotazione alla collana, che a sua volta connotava chi vi veniva pubblicato. Le caratteristiche della collana contribuivano a selezionare gli autori e quindi anche i manoscritti tra cui scegliere erano molto pochi. Adesso invece tutto è più confuso, non ci sono più collane molto connotate e lo stesso testo è spedito a tantissimi editori. Di conseguenza, siamo tutti costretti a leggere moltissimi manoscritti per stamparne pochissimi, il lavoro di ricerca diventa quindi più complicato. Oltretutto, quando il manoscritto ha una potenzialità di mercato, io come editore aggiungo meno all’identità del libro, visto che la mia connotazione è debole.
 
L’abbondanza di manoscritti dovrebbe però consentire all’editore di trovare più facilmente il tipo di opere che gli interessano…
Non è detto, perché l’abbondanza non è facile da gestire. Io ho iniziato a pubblicare testi letterari all’inizio degli anni Settanta. Quando annunciai che volevo fare una collana di narrativa, ricevetti dieci manoscritti, di cui poi quattro furono pubblicati, e alcuni dei miei primi autori sono oggi scrittori riconosciuti, basti pensare a Nico Orengo, Antonio De Benedetti o Aldo Rosselli. E quando scartavo un manoscritto, vedevo che uno o due anni dopo veniva pubblicato da un altro editore. Oggi riceviamo 1.200 manoscritti l’anno, scartandone 1. 150, la maggior parte dei quali si perde senza alcun altro destino editoriale. Inoltre è rarissimo che tra me e un altro editore ci sia competizione su un manoscritto. Insomma sembrano tutti manoscritti in bottiglia, gettati nel grande mare dell’editoria, che arrivano sulla mia spiaggia o su quella di un altro editore per puro caso. E siccome sono arrivati casualmente, non funzionano più i tradizionali meccanismi di fedeltà e complicità tra editore e autore. Oggi l’autore molto spesso è fuori da ogni circuito, non ha contatti, è una sorta di piccola monade chiusa nel suo universo personale, senza particolari relazioni con il sistema letterario. Lo si nota anche dal caso sistematico delle raccomandazioni, le quali, anche quando ci sono, sono talmente generiche e immotivate che influiscono pochissimo. Insomma, in passato esisteva un sistema letterario ed editoriale, rigido e oppressivo quanto si vuole, però funzionante e capace di selezionare i manoscritti e gli autori. Oggi c’è solo una rete a maglie larghissime che di fatto è un filtro che non seleziona nulla. L’editore diventa quindi l’unico vero filtro, mentre in passato era l’ultimo terminale di tutto un sistema, un terminale che oltretutto si collocava in modo tale che solo certe correnti gli portassero determinate bottiglie. Oggi invece tutto è confuso e le bottiglie arrivano casualmente. Questo spiega anche la natura effimera dei libri che, come ho detto, non sono più pensati per la posterità. Oggi i libri invecchiano velocemente, e spesso, appena due anni dopo la pubblicazione, ci si domanda perché mai si siano stampati certi titoli, mentre è ancora chiarissimo perché Pavese o Calvino abbiano scritto certe opere. Oggi gli editori si pentono più spesso e più in fretta, e infatti non sono solo gli autori a essere infedeli: lo sono anche gli editori.
 
Una delle funzioni dell’editore è anche quella di far crescere l’autore, aiutandolo a lavorare sul testo, orientandolo e incoraggiandolo. Ora che tende a venire meno il rapporto di fedeltà tra autore e editore, tali operazioni hanno ancora un peso?
Paradossalmente contano ancora di più. In passato, la lavorazione del testo – dalla prima idea alla versione finale – avveniva all’interno di una serie di relazioni forti, quindi, quando il testo arrivava all’editore, era un libro che aveva già avuto una sua maturazione. Oggi gli autori lavorano da soli, senza interlocutori, così i testi che arrivano sono ancora molto grezzi. L’editore è il primo vero interlocutore esterno che dice agli aspiranti scrittori cosa vede nel loro lavoro. Personalmente non credo tanto al lavoro di editing con la matita in mano, non è questo il nostro compito, e anche quando proprio va fatto, si deve sempre procedere con molta discrezione e con interventi molto marginali. E invece molto importante, quando si colgono nel testo spunti interessanti, dialogare con l’autore, spiegargli che cosa si è colto e verificare le sue intenzioni. Gli autori hanno molto bisogno di un confronto di questo genere per riconoscere il grado di successo delle loro operazioni e per far maturare il loro testo.