Che fine ha fatto Quarantotti Gambini?

Quali sono oggi i criteri con cui i testi scolastici pensano di promuovere la lettura e la formazione del gusto letterario tra le nuove generazioni? A ben guardare tra le antologie più in voga nei licei, la letteratura italiana dell’ultimo cinquantennio è poco rappresentata o presenta evidenti lacune e omissioni. Ma quali sono allora i criteri con cui si organizzano le scelte? Il valore estetico-letterario conclamato dalla comunità degli esperti; il consenso dei lettori; la capacità di uno scrittore di esercitare (o subire) una chiara influenza; l’esemplarità storico-pedagogica; la leggibilità da parte dello studente. E così i nomi che i giovani conoscono sono piuttosto eterogenei: Sciascia, Levi, Eco, Baricco, Camilleri, De Carlo.
 
Ogni lettore che si rispetti, con il trascorrere del tempo e l’accumularsi dei libri letti, tende a ospitare in sé uno spazio privilegiato, un giardinetto segreto, abitato dagli autori, dalle opere, dai personaggi più amati. Affollato o sgombro che sia, questo piccolo pantheon letterario viene ridisegnato di continuo, sotto la triplice azione dell’oblio, dei mutamenti del gusto, della curiosità, che troppo spesso induce a premiare il nuovo, o l’ultimo, e a mettere in soffitta il vecchio. E vero che difficilmente saranno dimenticati gli autori, le opere che hanno segnato una svolta formativa o che hanno sollevato forti passioni in un momento cruciale della propria vita. Tuttavia, il permanere di certi nomi “eccellenti” (e lo sbiadire di tanti altri) dipende anche dalla paziente costruzione e sedimentazione di una propria autonoma competenza di lettura – variamente influenzata da altri «lettori» ritenuti autorevoli: critici, scrittori, ecc. – che abilita a distinguere, collocare, stabilire la magnitudine e la risonanza soggettiva di ogni nome, di ogni personalità creativa.
Un così complesso lavoro “dell’anima” (nel senso bifronte di lavoraccio, ma fondamentale per la vita interiore) dovrebbe cominciare presto, per poter dare buoni frutti. Nell’età dell’adolescenza; meglio se un po’ prima. Ed è senza dubbio la scuola che deve assumersi il compito, oggi non facile, di promuovere la lettura e la formazione del gusto letterario. Ma come lo svolge? Qual è il quadro dei modelli e dei valori estetici che l’insegnamento scolastico propone? Con quali argomentazioni, con quali criteri di selezione di autori e opere?
Prendiamo come riferimento il liceo, la fascia più alta della scuola secondaria, e osserviamo come viene organizzato e proposto, nei libri di testo, l’universo in espansione degli autori della letteratura italiana. In particolare, trascurando l’olimpo dei classici, maggiori e minori, dove i valori e le grandezze sono ben certificati dalla tradizione storico-critica, appare utile concentrarsi sugli scrittori attivi nel secondo Novecento, dal 1945 in poi. I loro nomi, le loro opere infatti delineano un repertorio ancora in fase di assestamento, soggetto a sommovimenti di giudizio e di gusto, a oblii, rifiuti, rivalutazioni e sopravvalutazioni. Mentre le pagine su Svevo, Tozzi o Pirandello assumeranno un tono pacato, pacificato, ovattato, sottratto alle discussioni, quando si parla di Parise o di Pasolini le preferenze, le antipatie, le passioni stesse degli autori dei libri di testo si rendono ben più visibili, a dispetto di un atteggiamento che alla base sarà di autocontrollo, come conviene all’equità e serietà dell’istituzione scuola.
In più, si tratta di autori e di mondi espressivi sufficientemente vicini e assimilabili al tempo presente. Hanno perciò qualche possibilità in più di entrare in risonanza con sensibilità adolescenziali altrimenti intorpidite e di contribuire alla conquista eventuale del piacere di leggere.
Tre testi scolastici, dunque. Un campione piccolo ma scelto della migliore editoria specializzata: Mario Pazzaglia {Letteratura italiana)-, Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria {Dal testo alla storia, dalla storia al testo)-, Cesare Segre, Clelia Martignoni e coll. (Tes// nella storia).
Basta una rapida occhiata per rendersi conto di una diversità d’impostazione che induce a separare quest’ultimo libro di testo dagli altri due (almeno per quanto riguarda la trattazione del secondo Novecento). I primi due si presentano come una selezione ragionata e ampia (ma pur sempre selezione) di autori e testi ritenuti significativi, o comunque funzionali a ottenere un quadro sintetico della migliore produzione letteraria italiana (eventualmente ibridata con presentazioni e testi di scrittori stranieri).
Il Segre-Martignoni, superiore per mole e per impegno, si presenta invece come un testo dalle ambizioni esaustive: un compendio che aspira alla totalità e che in effetti ha l’aria di non voler dimenticare proprio nessuno. D’altra parte, per quanto organico e completissimo (è anche il testo che si spinge a prendere in esame la produzione letteraria più recente), anch’esso è costretto, fatalmente, a stabilire delle gerarchie, più o meno esplicite, nel momento in cui si assume il compito di scegliere i passi antologici, o quando opta per l’approfondimento di certi profili invece che di altri. Nel loro sforzo enciclopedico – peraltro originale e di notevole qualità – gli autori talora si dolgono di dover tralasciare o trascurare un nome meritevole d’attenzione per cui non c’è più posto.
Diversamente dal liceo d’un tempo, antologia e commenti critici oggi coesistono in un unico testo, sempre piuttosto corposo. Al di là dell’efficacia didattica, la presenza dei brani antologici diventa uno strumento utile come indicatore della rilevanza attribuita a un certo autore. Ciò sia in assoluto (autore antologizzato vs. autore scartato), sia in senso relativo (numero di «pezzi» scelti).
Ecco allora che Pazzaglia si mostra il più severo e restrittivo nella scelta dei nomi giudicati meritevoli di lettura diretta, e non solo di menzione e commento. Così, viene concesso ampio spazio a pochi autori, che proprio per il loro numero esiguo tendono ad apparire come “eletti”: giganti che svettano su una folla di nanerottoli.
Per la cronaca, essi sono: Gadda in primis, e poi Moravia, Calvino, Pavese, Vittorini, Carlo Levi (Primo è trascurato, relegato nella categoria «Politici e memorialisti»). A debita distanza seguono Jovine, Pratolini, Fenoglio, Bassani, Cassola. Le simpatie per il neorealismo sono evidenti. La narrativa posteriore è liquidata in poche righe, dopo aver concesso una certa attenzione alla neo-avanguardia (Gruppo ’63, ecc.). Pochissimi gli autori antologizzati: Sciascia, Manganelli, Malerba, Volponi, ancora Calvino.
Va da sé che lo scrivente, mano a mano che sfoglia i testi scolastici e s’inoltra nella foresta dei nomi, cerca conferme, riscontri, coincidenze, presenze – e, forse ancora di più, assenze ingiustificate, negligenze, sottovalutazioni indebite. Beninteso, indebite – o addirittura stonate, assurde, ecc. – per il di lui palato. Ovvero, in rapporto a un ordine gerarchico, a un sistema preesistente di conoscenze e preferenze, di amori e antipatie, del tutto soggettivo, ma non per questo meno fondamentale, proprio nel senso che sta a fondamento dell’esperienza individuale di piacere e di valore estetico-letterario.
Occorre allora prelevare dal proprio personale repertorio un mazzetto di autori “buoni” – non necessariamente amatissimi, ma certo di valore, o comunque congeniali, originali, curiosi – e utilizzarli come sonde o spie: strumenti di misurazione e di verifica della consonanza o dissonanza con il sistema di gerarchie del testo scolastico.
Perché il gioco riesca bene non bisogna andare, com’è ovvio, su nomi superconsacrati, e men che meno su «autori da testo scolastico», qualunque cosa ciò significhi. Per cominciare, i fiori scelti dal mio repertorio sono: Quarantotti Gambini, Flaiano, Parise, Meneghello.
Di tutti costoro c’è ben poca traccia non solo in Pazzaglia, ma anche in Baldi e altri. Qui il ventaglio dei nomi commentati e antologizzati appare più ampio. Molto rilievo hanno Pavese, Gadda, Calvino, Pasolini, ma pure Sciascia, Primo Levi, Fenoglio, Moravia, Vittorini, e non vengono dimenticati scrittori come Brancati, Carlo Levi, Pratolini, Arbasino, Morante, Tomasi, Volponi, per finire con Bufalino e Umberto Eco.
Dei miei quattro beneamati, però, poco o niente: giusto un cenno a Parise, all’interno di una paginetta dedicata a Letteratura e industria. Più in generale, si ha l’impressione che siano penalizzati – cioè trascurati o assenti – gli autori vagamente definibili come “atipici”, difficili da associare a un gruppo, a un movimento, a un genere, a una rivista, a una tendenza dai contorni ben distinti.
Per quanto imperniato su un sistema di classificazione che concede molto di più agli “atipici”, anche l’onnicomprensivo testo di Segre e Martignoni, di peso e impegno più che liceale, mi lascia l’amaro in bocca. Parise e Meneghello sono sì adeguatamente presentati, ma degli altri due, Flaiano e Quarantotti, si parla pochissimo, sia pure scusandosi dell’omissione. Pur convinto che Tempo di uccidere sia uno dei più bei libri italiani sulla seconda guerra, quello che mi brucia di più, forse per ragioni di campanile (a proposito, anche il grandissimo Achille è colpevolmente e totalmente ignorato), è l’oblio di cui è vittima Quarantotti Gambini, che pure meriterebbe di esser fatto conoscere ai ragazzi del liceo se non altro per il grande rilievo che emozioni e affetti dell’adolescenza hanno nelle sue opere. Il povero Quarantotti è trascurato al punto da lasciare incerta perfino la sua origine: istriana (in una nota su Saba) o triestina (nell’unico cenno che il testo gli dedica, parlando di «tematica dell’inconscio»). Se poi si bada al numero delle occorrenze, appare poco tollerabile che gli venga concessa un’attenzione pari, o addirittura inferiore, a un mazzetto di scrittori di minor conto, forse inseriti solo in quanto «giovani» (De Carlo, Lodoli, Capriolo, ecc.). A questo punto, incattivito dai maltrattamenti dei suoi beniamini, lo scrivente è indotto a rendere più aspro il gioco, andando a vedere quali sono – tra gli autori che apprezza – quelli che non sono stati citati. E qui scopre che, a dispetto dell’encomiabile tensione all’esaustività del Segre-Martignoni, mancano all’appello Silvio D’Arzo, Berto, Chiara, insieme a una serie di presenze meno note (Renzo Rosso, Vigevani, Frassineti, ecc.). Per non parlare di scrittori per il teatro: Fo, Zardi, Squarzina, ecc. (l’unico ammesso è Pirandello), che altri testi invece considerano.
Ire e indignazioni comunque durano poco. Ciò che persiste e si sviluppa è piuttosto una curiosità, un interrogativo di fondo circa la logica – i criteri estetico-didattici, intendo – con cui si organizzano le scelte, i tagli più o meno dolorosi, le gerarchizzazioni. Ci si chiede insomma quali sono i principi del canone implicito che i testi scolastici, bene o male, prospettano.
Il più evidente di tali principi è il valore. Valore estetico-letterario riconosciuto, certificato dal consenso della comunità degli esperti: esiste una cerchia di nomi indiscutibili, «laureati», acclamati, che non possono assolutamente mancare.
Come criterio complementare, sembra contare anche il consenso dei lettori, ovvero il successo, in particolare per ciò che riguarda gli scrittori ancora vivi e attivi sul mercato.
Un altro elemento importante, connesso al valore assoluto, è la percezione dell’influenza, in senso sia attivo sia passivo: a parità di talento e qualità, si tende a privilegiare chi ha esercitato – o ha subito – un’influenza più chiara e delineata, rendendo così più facile istituire rapporti di continuità (con altre figure, con scuole letterarie, ecc.) e dare una collocazione stabile e sicura a ogni singolo autore. In fondo, viene a essere ribadito un principio di appartenenza, che avvantaggia non gli scrittori isolati o “atipici”, ma le figure che più facilmente possono essere ricondotte a una corrente, a una rete di relazioni funzionanti. L’esemplarità e il valore storico-pedagogico sono un’ulteriore dimensione rilevante. Essa fa sì che siano premiati i testi e gli autori che meglio si prestano a restituire il clima e il profumo di un momento storico, di un passaggio ritenuto essenziale, emblematico.
Infine non va dimenticato un principio che si potrebbe definire in termini di “palatabilità”, cioè di assimilabilità e corrispondenza sia al gusto presunto sia alla competenza linguistica e stilistica dei ragazzi. In fondo, il manuale scolastico è pur sempre un testo tecnico, il cui obiettivo è rendere possibile l’acquisizione cognitiva, ovvero realizzare un rapporto soddisfacente, economicamente corretto, tra costi e benefici, tra sforzi e risultati di apprendimento.
Con ogni evidenza, l’utilizzazione e la ricezione dei testi scolastici che si occupano di letteratura sono un aspetto fondamentale della questione. Per quanto rapida, parziale e di poche pretese, l’analisi sulla sorte degli autori dimenticati e di quelli più o meno celebrati dai manuali del liceo sarebbe monca se non ci si ponesse anche il problema della sedimentazione dei saperi trasmessi. Una verifica ci vuole, sia pure svelta e minuta. Lasciando stare i testi su cui hanno studiato, la strada maestra è osservare che cos’è rimasto, della letteratura italiana del secondo Novecento, nella memoria dei giovani che si sono lasciati alle spalle da poco la scuola secondaria. Di qui, la decisione di sottoporre a brevi interviste libere (senza questionario) alcuni studenti universitari dei primi anni (quindi freschi di liceo), iscritti a varie facoltà (non a Lettere, però) dei principali atenei milanesi (Statale, Cattolica, Politecnico).
Una prima scoperta, piuttosto prevedibile, riguarda (in quasi tutti i casi) il mancato studio delle parti del manuale riservate alla produzione letteraria del dopoguerra e oltre. Banalmente, per mancanza di tempo o cattiva distribuzione delle risorse, si fa osservare, quasi per mettere le mani avanti, che quelle porzioni del programma non sono state introdotte e spiegate dall’insegnante, che nei casi più fortunati si è limitato a sponsorizzare qualche autore qui e là, con l’espediente delle letture/compiti per le vacanze.
«Questo non l’abbiamo fatto»: è un rilievo secco (peraltro senza tracce di disappunto), che sembra scoraggiare ogni ulteriore indagine e fa calare una fitta nebbia sul paesaggio degli ultimi sessantanni di «belle lettere» in Italia.
Uso a non demordere tanto facilmente, l’intervistatore allora adotta un approccio svincolato dalla vicenda della scuola.
«Supponete di avere a che fare con un vostro coetaneo di Francoforte, che parla benissimo l’italiano, ma non sa nulla della produzione letteraria recente, e perciò vi chiede un consiglio su opere e scrittori degli ultimi decenni che vale la pena di leggere e conoscere…».
Le reazioni a un quesito del genere sono imbarazzanti, quasi senza eccezioni.
Chi conserva nella memoria un residuo delle letture estive consigliate/imposte dal bravo insegnante si affretta a tirarlo fuori, e di solito si ferma lì.
Gli altri restano immersi in un silenzio pesante, equamente suddiviso tra la fatica di capire il senso riposto della domanda e la fatica di distillare un ricordo, un’immagine mentale, un nome purchessia. La lesione alla propria autostima che si sta profilando – la «scena muta» e la «figuraccia» di fronte al sadico interlocutore – li induce a moltiplicare gli sforzi per dare un volto alle ombre sfuggenti di autori forse anche conosciuti, o sentiti nominare, ma del tutto disinvestiti in termini di affetto, emozione, curiosità. I più brillanti, con un ultimo guizzo, articolano piano, con tono tra il sospeso e l’interrogativo: «Baricco», «Camilleri», «De Carlo», a volte consapevoli che si tratta di firme di gran successo, ma non sempre di eccelsa qualità, non tali comunque da essere caldeggiate in prima battuta allo studente tedesco assetato di buona letteratura. Dopo nuovi travagli e sforzi di concentrazione alcuni altri nomi vengono esalati con timido orgoglio: «Eco», «Sciascia», «Levi». Non ho cuore di chiedere «quale?», forse per timore di sentirmi rispondere «Arrigo».
Altro che Flaiano e Quarantotti Gambini.