I cattivi bambini

Nella narrativa contemporanea sempre più frequente è il personaggio del «bambino cattivo». Già presente nella letteratura ottocentesca (Dickens, Dostoevskij, Twain), il bambino cattivo di fine millennio, erede del bad guy americano (King, McEwan, Irving), sconta però una grave carenza prospettica, la sostanziale assenza della giovinezza come età formativa: il bambino cattivo, purtroppo, è diventato solamente il protagonista di un’accelerazione dell’esperienza che condanna l’infanzia all’azione, alla perdita della libertà, alla «solidarietà nel peccato» con il mondo degli adulti.
 
Il personaggio del «bambino cattivo» è diventato sempre più frequente nella narrativa italiana contemporanea. È come se la figura del minore come portatore del male (e del malessere) si fosse conquistata un posto nell’immaginario creativo, destituendo la più classica figura del «giovane» di ascendenza romantica per diventare veicolatore di una sempre più immiserita «formazione». Il «bambino cattivo» di cui stiamo parlando è un bambino chiamato a modellarsi sulla vita adulta, rinunciando sia all’adolescenza sia alla giovinezza. Va da sé che lo spaesamento implicito in una figura siffatta è ben diverso da quello che, ad esempio, suscita la rappresentazione dell’infanzia in epoche in cui al bambino era negata una identità sua propria: il bebè in «costume» da adulto in tanta pittura – dal Medioevo al Settecento – è ridicolo e perturbante solo alla luce di una cultura che da due secoli ha riconosciuto all’infanzia non solo una dignità ma anche una fisionomia specifica da coltivare e proteggere. Il «sentimento dell’infanzia» di cui parla Philippe Ariès in un celebre saggio del 1960 è una scoperta relativamente recente. Dimenticata la paideia degli antichi il mondo occidentale ha dovuto attendere, diciamo, Rousseau e l’illuminismo per riguadagnare l’idea di educazione e perché i bambini passati i sette anni non andassero «a confondersi con la comunità degli uomini». La sequenza di bambini maltrattati dei romanzi di Charles Dickens e la partecipazione, ampiamente condivisa, all’indignazione e alla lacrima sono già effetti di un sentimento dell’infanzia che sente le contraddizioni di una società immatura sia dal punto di vista giuridico sia da quello culturale. I «cattivi» sono sempre e comunque adulti che l’ottusità e il destino sociale trasformano in torturatori e potenziali corruttori: la banda di Fagin in Oliver Twist è in fondo un doppio dell’istituzione (dell’orfanotrofio), è una comunità coatta che subisce e imita la violenza di un capo; è, insomma, una manifestazione di ingiustizia di una società ingiusta che (come gli orfanotrofi e certa istituzione scolastica) può essere corretta e dalla quale comunque si può sfuggire (come accade a Oliver e a David Copperfield). In Dostoevskij il sentimento dell’infanzia e più in particolare dell’infanzia «offesa» è così forte da diventare ispiratore di una delle più scandalose invettive non tanto e non solo contro l’ingiustizia sociale ma contro l’ingiustizia di Dio. «La solidarietà fra gli uomini nel peccato – dice Ivan Karamazov – la capisco, capisco la solidarietà nella giusta punizione, ma con i bambini non ci può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco. […] Hanno fissato un prezzo troppo alto per l’armonia; non possiamo permetterei di pagare tanto per accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto di entrata».
Il bad guy della tradizione americana, occupa, come personaggio, un tempo che l’adulto o nella fattispecie lo scrittore sa essere impenetrabile, oscuro, una sorta di frontiera dove l’etica, sotto forma di responsabilità, e la storia, sotto forma di codice interpretativo dell’agire, baluginano appena e ciononostante sono una conditio sine qua non. Huckleberry Finn, innanzi a tutti, è portatore di una libertà e di una fierezza ambigue ma protette dall’ironia. Non diversamente la sua sfrontatezza, le sue menzogne, la sua ribellione, il suo stesso sentirsi costantemente solo di fronte al mondo non cedono mai né alla demonizzazione né alla santificazione. È lontano dal mondo degli adulti, è effettivamente un bambino, e lo è tanto più forte quanto più si «comporta male». Per molti versi, anche se in una prospettiva culturale e sociale completamente diversa, lo stesso discorso vale per il nostro bad guy nazionale per eccellenza: Pinocchio. Sia Huck sia Pinocchio hanno dinanzi una società a cui «rispondere» (nel senso che questo verbo ha nel divieto secondo il quale i bambini «non devono rispondere»), una società pronta a integrarli ma comunque, prima che ciò avvenga, a offrir loro, dopo la fanciullezza, la possibilità della giovinezza.
È proprio su questo punto che si gioca la sostanziale «novità» della narrativa e più in generale dell’immaginario contemporanei. Siamo in fondo lontani anche da quel torbido capolavoro che è Il signore delle mosche (1960) di William Golding, in cui una comunità di bambini (i sopravvissuti di un disastro aereo) costruisce in un’isola deserta una barbarica e demonica versione della società adulta.
Il bambino cattivo che ha fatto la sua apparizione verso la fine del secolo appena trascorso è un erede del bad guy (che ritroviamo ad esempio in taluni racconti di Stephen King, in Ian McEwan, in John Irving e, in Italia, nel bel romanzo di Niccolò Ammaniti, Io non ho paura), ma sconta una carenza prospettica gravissima, vale a dire la sostanziale assenza della giovinezza come età formativa. Non a caso quelli che impropriamente continuano a essere chiamati «romanzi di formazione» rimandano a un vuoto esperienziale – di volta in volta sostituito da mitologie monche, gerghi autoreferenziali, immobilità provinciali – che è di per sé la negazione della Bildung. Con effetti per lo più tragici l’area dell’esperienza è stata assorbita da un’età incerta compresa fra la mera fanciullezza e l’adolescenza. Il fanciullo, il kid, si trova dunque in una posizione promiscua con il mondo adulto.
«Ma i bambini e gli adulti possono mescolarsi fra di loro?» è una delle domande che si insinua nel gruppo di ragazzini protagonisti del romanzo di Simona Vinci, Dei bambini non si sa niente. La domanda scatta davanti alle fotografie di una rivista pornografica che il quattordicenne Mirko ha portato nel capannone in cui si svolgono, quasi ritualmente, gli incontri fra piccoli maschi e femmine. In quelle immagini uomini pelosi si congiungono carnalmente con fanciulle che hanno la stessa età di Martina e Greta, le protagoniste decenni della vicenda. «Non è che avessero paura. Paura di che? Era semplicemente strano. Quei corpi fi non erano come quelli delle altre riviste. Erano come i loro. Non c’era da far lavorare la fantasia, dei corpi così li avevano a portata di mano, non erano proibiti. Però, cosa c’entravano con gli adulti? Con l’uomo con la pancia e le mani pelose?». L’accelerazione dell’esperienza a cui soggiace il gruppo di bambini non passa solo attraverso le spericolate fantasie del capogruppo Mirko ma soprattutto attraverso la doppia presenza-assenza del mondo adulto – quello delle famiglie e quello delle riviste pornografiche di Mirko. Simona Vinci è ben lontana dall’esigere una risposta morale dai suoi personaggi ma al contempo li espone, complice quel titolo che, al contrario, va letto come una provocazione etica. Li espone – segreti e muti come segrete e mute sono le loro «prove» – alla nudità dell’esperire. Il mistero della sessualità si mescola a quello della violenza, la scoperta del corpo a quella della sua distruzione. Il piacere della sensazione alla sua negazione come patrimonio esperienziale. L’inaccessibilità e l’autosufficienza del bambino si volgono in rigidità meccanica, in manichino. Perché, come riflette Martina di fronte alla fanciulle nude delle riviste con gli occhi coperti dalla pecetta della censura, un volto umano senz’ occhi «non esprime nulla, né dolore né paura. Forse allora non li toglievano soltanto per non far riconoscere il bambino, ma anche perché la paura e il dolore sono belli se restano senza nome». Violenza e sesso sono presenti anche nel romanzo di Diego De Silva, Certi bambini. Con più drastica determinazione rispetto alla Vinci, De Silva dispiega per il suo protagonista, Rosario, una struttura che gli consente di trascorrere facilmente dalla logica dei fatti alla mimesi, dal distacco dell’osservatore, addirittura della «spia», al coinvolgimento morale e linguistico. Rosario viene, come Martina e compagnia, dalla cronaca, e soprattutto dall’opinionismo giornalistico che è cresciuto ai margini dei reiterati episodi di violenza sui ma soprattutto dei minori. Non è un caso che lo psicologo Paolo Crepet raccolga, nello stesso anno, largo consenso di pubblico con un saggio non privo di intenzioni narrative, Non siamo capaci di ascoltarli, che presenta e a suo modo «interpreta» la drammatica vicenda di Novi Ligure, e che, come i romanzi di Vinci e De Silva, porta un titolo «responsabilizzato» – destinato a evocare, sia pure per analogia, il sentore di denuncia di I bambini ci guardano di Vittorio De Sica. In verità è già a partire dalla tragedia di Pietro Maso (raccontata in un bel reportage da Gianfranco Bettin, L’erede) , che il ragazzo-killer ha cominciato a diventare «letteratura». Ed è da allora che l’immaginazione letteraria ha cominciato a sentire – complice il pulp internazionale – la novità di una cattiveria minorile senza redenzione, di una cattiveria adulta in pantaloni cortissimi. Il Rosario di De Silva non appartiene alla «generazione delle villette», non deve scontare il vuoto di un benessere senza qualità come quello che attraversa la Padania dalla provincia piemontese a quella veneta, e, per certi aspetti, è già inserito in una storia di violenze minorili che ha come sfondo i vicoli e la malavita organizzata partenopei. E tuttavia lo scrittore lo dota di una sorta di sonda interiore che è capace di registrare un ribaltamento, o meglio uno slittamento significativo nella stessa tradizione del camorrismo infantile. Rosario è, come si diceva sopra, un fanciullo a cui si chiede di accelerare l’esperienza del mondo, a cui si chiede in altri termini di troncare presto la sua formazione, di «spegnere» i sensori morali per accedere a una specie di indifferenza funzionale. Siamo lontani dal ragazzino che «diventa grande presto», siamo anche lontani dal grido che leva contro l’orfanezza offesa la bambina cattiva di Susanna Tamaro e, prima di lei, Ippolita Avalli con maggiore e più acre pertinenza (Rispondimi e La Dea dei baci). «Gli venne una bravura, un leggero distacco da se stesso e dalle cose che fece diventare tutto facile. Come un’illusione di impunità…»: il primo passo che Rosario fa verso la vita è sostenuto da questa illusione, un’illusione che alla percezione del male antepone l’anestesia della potenza. Gli undici anni di Rosario sono esposti alla forza del modello (Santino e Casaluce, la vitalità aperta del cambiamento e la maestà chiusa del codice malavitoso) , ma, contemporaneamente, sono esposti al doppio fronte di un’emotività scompigliata (l’amore, la gelosia) e di una comunità senza altri elementi comuni che «la faccia del torto ricevuto». Rosario è «bravo», sa eseguire bene i propri compiti (le pagine sull’accudimento della nonna sono fra le più potenti), perciò, quando deve «scegliere», gli risulta più semplice optare per chi è più preparato a dare ordini: «Aveva incrociato le braccia e guardava dritto davanti a sé. La fissità improvvisa e categorica di chi ha un compito da svolgere». La «bravura» di Rosario diventa «cattiveria» attraverso la percezione di una rabbia punitiva e autopunitiva, che produce indifferenza rispetto all’ azione: «Per la prima volta sentiva crescere dentro di sé una rabbia totale, che non era solo per i falchi ma per tutti e chiunque, chi c’entrava e chi non c’entrava, un credito che nemmeno lui sapeva come si poteva pagare, una voglia di morti. [. .. ] Avrebbe voluto rompere subito qualcosa di delicato e di importante in modo che non si potesse mai più riparare». Ecco. Ben si intende come siamo lontani dal bad guy. Siamo di fronte a personaggi vivi dentro una comunità assente o derelitta, che si volgono verso gli adulti solo per condividere con essi nient’altro che la «solidarietà nel peccato», come diceva Dostoevskij, che sono prigionieri di emozioni ininterpretate (si veda quel singolare romanzo di educazione alla rabbia «indifferente» che è La mia migliore amica di Anne-Sophie Brasme), che prendono sulle spalle della fanciullezza la decrepitezza dell’istituto famigliare (lo splendido romanzo di Michael Kimball, E allora siamo andati via) o lo sfascio del tessuto sociale (come nel formidabile romanzo di anticipazione di Jack Womack, Atti casuali di violenza insensata).
La narrativa – come si vede, non solo quella italiana – ha colto nel «bambino» un protagonista, ahimè significativo, di un’accelerazione dell’esperienza che coincide con l’azzeramento dell’esperienza, di una contrazione temporale che condanna l’infanzia all’azione, alla perdita della libertà prima che questa possa scatenare l’immaginazione, alla «solidarietà nel peccato» con il mondo adulto. Ci troviamo spesso di fronte a opere «fredde», agghiaccianti, veicolatrici di sintomi. Cionondimeno dicono – e la ricerca linguistica è sovente decisiva – il balbettio drammaticissimo di una compagine sociale che non sa «come» cambiare.