Le maîtresses à penser del no global

Quest’anno in campo no global le pubblicazioni più interessanti sono tutte femminili. I saggi informati e ironici insieme di Arundhati Roy sui grandi temi della globalizzazione (miseria contadina, sfruttamento minorile, armi e guerra, effetti del riscaldamento terrestre…). La personale testimonianza di Sandra Steingraber sui tumori dovuti all’inquinamento delle acque fluviali. Il pamphlet di Susan George sulle attività di ricerca scientifica del WTO, anche a scapito delle popolazioni. Lo studio di Liah Greenfield che smonta a uno a uno i miti delle teorie e delle pratiche neoliberiste.
 
Sarà per il pensiero modesto dei politici, le pubblicazioni più notevoli di quest’ultimo anno in campo no global sono firmate da donne. No Logo di Naomi Klein ha disseminato le tattiche di resistenza al capitalismo iniziate negli Stati Uniti nei primi anni novanta e poi adottate dai vari movimenti riassunti sotto l’etichetta «No Global». Il successo del libro in Italia e negli altri paesi occidentali è risaputo perciò segnaleremo qui altre quattro signore influenti: Arundhati Roy, Sandra Steingraber, Susan George e Liah Greenfield. Si sono date il compito di rendere visibile l’invisibile, il lato oscuro del libero mercato.
Arundhati Roy era nota in Occidente per Il dio delle piccole cose, premiato con il Booker Prize. Sognava di continuare a scrivere romanzi, nella bella casa vicina a quella della madre, Mary Roy, femminista, riformista famosa. E non solo nel Kerala dov’è nata, uno stato i cui tassi di alfabetizzazione sono pari ai nostri forse perché ha avuto monarchi illuminati e governi comunisti, sicuramente perché le donne ereditano dalla madre e, dotate così di un minimo di indipendenza, sono meno discriminate.
In India, dice Arundhati Roy, «appena la notorietà, comunque te la sei guadagnata, fa sì che la tua testa emerga sopra quelle della folla anonima, tutti si rivolgono a te. Diventi il bersaglio di storie tremende. Pensi che siano impossibili, eppure sembrano vere, allora cerchi di capirle, di farle capire». Era durante un vertice delle Nazioni Unite sulle risorse idriche, aveva appena liquidato Ismael Serageldin, all’epoca vicepresidente della Banca mondiale e pure presidente della Convenzione internazionale sull’acqua. Lui aveva preso alla leggera la quarantenne minuta che gli sedeva accanto sul podio, bocca a cuore e aria da ragazzina, trattandola con il paternalismo sornione degli uomini di potere davanti alla bellezza femminile. Le dighe in costruzione sul fiume Narmada, aveva sostenuto Serageldin, causeranno qualche disagio alle popolazioni delle rive ma forniranno l’energia con la quale si procureranno, a lavori ultimati, un tenore di vita dignitoso. Dignitoso un corno, aveva risposto lei in sintesi, inframezzando dati e battute. Mise l’uomo di potere k.o. in dieci minuti appena di oratoria sfolgorante e il pubblico si alzò per un’ovazione.
L’esattezza delle informazioni e l’ironia caratterizzano i saggi di Arundhati Roy usciti su riviste indiane, inglesi e americane negli ultimi quattro anni e raccolti in Guerra è pace. «Mi hanno avvertita una quantità di volte: Come puoi scrivere di irrigazione? A chi diavolo interessa l’irrigazione?» si legge in una parentesi a pagina 105. A chi le rivolge la domanda, risponde «con fatica», indagando a lungo, lavorando «la scrittura come l’impasto di un dolce» perché abbia la leggerezza e il gusto del parlato con il quale si riescono a proporre iniziative che partono da un impegno tra singole persone, un tu per tu moltiplicato per migliaia e migliaia, pur di cambiare una cosa, anche piccola ma intollerabile. Dietro la facciata liscia e semplice, si sente la stessa voce che, durante le manifestazioni per impedire l’allagamentò delle terre lungo il Narmada, Arundhati Roy usa per rivolgersi ai contadini e ai dalit, con le strutture narrative orali che loro già conoscono e amano.
I temi della Roy – la miseria contadina, l’oppressione delle donne, lo sfruttamento del lavoro minorile, le armi nucleari in un paese dove mancano le scuole e i dispensari, la guerra nel Kashmir o in Afghanistan, gli effetti del riscaldamento globale o dell’esportazione nel terzo mondo delle attività più inquinanti, la distruzione dell’ambiente e delle risorse che i suoi abitanti ne traggono – renderebbero un po’ risibile la lotta contro la pubblicità e le menzogne delle grandi marche di hamburger, magliette e scarpe da ginnastica contro cui lottano i no logo di Naomi Klein, se non fossero complementari. L’oggetto della denuncia è lo stesso: l’economicismo, per cui quello che conviene alla Generai Motors o alla McDonald’s conviene alla Corporate America – fa da pendant l’«Azienda Italia» – e quindi al mondo intero.
Oggi, è ovvio che conviene ai dirigenti della Enron e agli ex «chief executive officers» ora ministri nel governo Bush o in pensione con un «paracadute d’oro». Ma le ricette del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) per risolvere le ricorrenti crisi economiche non cambiano: mercati del terzo mondo aperti alle aziende occidentali; mercati del primo mondo chiusi alle esportazioni dal terzo mondo; privatizzazione dei servizi; tagli alla spesa pubblica. E come una nota a margine, un ripensamento, la lezioncina di morale: meno corruzione, più stato di diritto e garanzia della proprietà privata. Ma se i nostri governanti e i nostri giudici fossero integri e le terre dei contadini che le coltivano, ribatte giustamente la Roy, non servirebbe il vostro intervento. Come non ci serve, conclude nell’ultima pagina, chi propone «la Vita come Profitto… Quello che abbiamo bisogno di cercare e di trovare, di levigare e di perfezionare in qualcosa di magnifico e brillante è un nuovo genere di politica, non quella del governo ma della resistenza, dell’opposizione, di imporre responsabilità, di rallentare le cose. La politica di prendersi per mano da un capo all’altro del mondo e di impedire una distruzione certa… Direi che l’unica cosa che meriti di essere globalizzata è il dissenso. Il miglior prodotto di esportazione dell’India». Insieme ai testi di lei, che intrecciano con sapienza i problemi locali a quelli globali.
Contro quelli della «vita come profitto» si schiera anche Sandra Steingraber il cui secondo saggio, Having Faith. An Ecologist’s Journey to Motherhood dovrebbe uscire tra qualche mese in Italia. Come gli scrittori, poeti, cantanti, attori invitati da Arundhati Roy a «tradurre i diagrammi del cash flow e i discorsi da consiglio di amministrazione in storie vere di gente vera con vite vere», la biologa americana traduce conoscenze scientifiche nelle vicende della propria vita. Dopo Living Downstream, una testimonianza personale sui tumori dovuti all’inquinamento del fiume sotto casa, ora racconta la propria gravidanza e le sostanze tossiche immesse nell’ambiente che mettono in pericolo lei e la nascitura, Faith. L’omaggio a Primavera silenziosa di Rachel Carson è evidente, anche nel lirismo trattenuto con cui vengono descritti i paesaggi della costa Est, invitanti e infidi, cosparsi come sono da veleni invisibili. In più c’è la denuncia, spiritosa e mordace, delle pratiche ospedaliere, degli esami high-tech inutili, delle pressioni di Big Pharma, di un sistema sanitario privato, costoso, spietato, e delle sue inaspettate eccezioni. Dell’ipocrisia di un governo che si erge a difensore dei valori della famiglia ma si oppone a provvedimenti pubblici per facilitare la vita delle gestanti, il ritorno al lavoro delle madri, la previdenza sociale, gli asili nido, la gratuità delle cure elementari. Meno male che resistono il volontariato e le iniziative a volte spettacolari come quella cui partecipa Sandra Steingraber, fra donne vestite da Nanà di Nicky de Saint-Phalle o da Ubu Re, con giganteschi cuscini legati sulla pancia, sotto l’abito. La loro irruzione, con televisioni al seguito, durante le sedute del congresso di alcuni stati, è riuscita a bloccare alcuni provvedimenti iniqui.
Il pamphlet di Susan George, Fermiamo il WTO, andrebbe letto subito dopo Having Faith: mostra che l’esperienza locale di Sandra Steingraber sta per assumere dimensioni globali. Susan George è l’economista di origine inglese, celebre per le ricerche sui fattori di povertà nel terzo mondo. È una fondatrice di ATIAC, l’associazione di intellettuali partita per bloccare un accordo che premiava le transazioni finanziarie internazionali (il MAI). Traducendone gli arcani in termini comprensibili ai non addetti, e chiarendone così la spudoratezza all’opinione pubblica, ATIAC incarna la «politica dei ficcanaso» auspicata da Noam Chomsky. Susan George pubblica documenti riservati e ne dipana le conseguenze. Ad esempio sulle attività di ricerca scientifica e di sviluppo delle sue applicazioni che, stando ai desideri del wro, dovranno tra breve svolgersi esclusivamente in centri privati. Per chi (come me) per mestiere segue i brutti conflitti d’interesse in cui rimane invischiata la ricerca pubblica quand’è sovvenzionata da aziende, quei documenti sono i più allarmanti. Un esempio: l’unica autorità mondiale in grado di impedire lo spaccio internazionale di embrioni umani clonati è proprio il wro, preposto a legittimare o meno lo scambio di certe merci, visto che i singoli stati possono far applicare le proprie leggi soltanto sul proprio territorio.
Come le altre autrici, Susan George è indignata dall’indifferenza dei responsabili del WTO, del Fondo monetario o della Banca mondiale, davanti alla sofferenza che le loro decisioni infliggono «alla gente vera con vite vere». E dall’ostinazione con cui propongono rimedi il cui fallimento è stato più volte dimostrato. Nel 1997 , qualcuno se ne ricorderà, l’economia delle «tigri» del Sudest asiatico è crollata. li Fondo monetario ha compilato la solita prescrizione. I paesi che l’hanno seguita, come Tailandia o Indonesia, non riescono a pagare i debiti mentre la Malesia non ha voluto saperne e gode di ottima salute.
Colpa dell’ideologia e dell’autoreferenzialità di «tecnici» ed «esperti». Parlano una propria lingua astratta, s’incontrano negli stessi alberghi ad aria condizionata e non guardano mai fuori dalle finestre della propria suite, scrive Susan George troppo brevemente.
A proposito di linguaggio, va menzionata Nicole Dewandre, signora non conteggiata tra le quattro perché il suo intento non è contestare il nuovo ordine mondiale. Importante funzionaria della Commissione europea, ingegnere ed economista di formazione e recentemente laureata pure in filosofia, in Critique de la raison administrative. Pour une Europe ironiste fa «un esercizio di filosofia applicata» al gioco tra logos e praxis nella determinazione delle politiche dell’Unione.
Una prospettiva di contestazioni è invece quella di un’altra economista, l’americana Liah Greenfield in The Spirit of Capitalism. Non sappiamo se il libro sarà tradotto, ma lo auguriamo ai lettori che non sanno l’inglese. Erudita, esperta, gratificante anche quando, con disquisizioni un po’ tecniche, spazia per tre secoli di storia e tre continenti, Liah Greenfield smonta i miti propalati dalle teorie e dalle pratiche neoliberiste. Dimostra che capitalismo e individualismo – lo spirito del protestantesimo di cui parlava Max Weber e che il titolo della Greenfield evoca con un’eco beffarda – non sono affatto legati. Non lo sono stati né in Francia né in Germania e men che meno nel Giappone dell’Ottocento. Lo sviluppo economico può benissimo fare a meno di liberi mercati e di libertà individuali. Invece il capitalismo, scrive l’autrice, è legato al nazionalismo, innanzitutto americano.
Con un’ironia che trapela dall’esposizione accademica, l’autrice elenca gli slogan comunisti oggi ripresi pari pari dalla propaganda del capitalismo globale. Le forze economiche sono il motore della storia. Se continua a incepparsi, non significa che non funzioni, anzi. È perché il piano e le sue regole non sono stati rispettati. Semmai ne serve una dose ancora più massiccia perché domani brilli il sol dell’avvenire. Non soltanto l’ideologia, anche la pratica è la stessa: «una gigantesca e brutale opera di ingegneria sociale». Come i comunisti degli anni trenta che sostenevano i provvedimenti di Stalin ignorandone le conseguenze perverse e i costi umani, i fautori del libero mercato ignorano, per esempio, le ricadute palesemente mostruose della «terapia d’urto !iberista» somministrata alla Russia, unico paese non africano dove la durata di vita è calata del 15 % in soli dieci anni. Nel 2002, The Spirit of Capitalism ci è parso il miglior prodotto di esportazione dell’America. Non se la prenda Naomi Klein se speriamo che all’estero venda come la Coca-Cola.