I letterati come opinion maker

Nel formare l’opinione pubblica gli specialisti cedono il passo: cresce sempre di più il divario tra competenza scientifica e cognizione del mondo esterno. I letterati hanno il vantaggio di poter essere aperti, meglio dei teorici, a una certa dose di eclettismo. Ma la politica impone scelte, forse anche etiche. E il punto di criticità sta nella ricerca di interlocutori sociali. Su quali comportamenti, e di chi, i nuovi maitres à penser possono avere un influsso? Intanto vanno trasmutandosi la letteratura e la sua storicità.
 
1. Quando Daniele Del Giudice ha risposto a Donata Righetti sulla differenza fra destra e sinistra, nell’intervista per il «Corriere della sera» dell’11 giugno 2002, dalla politica subito alzando il tono è passato a una visione dell’esistenza e a un’antinomia radicale tra due modi di essere e di vivere: «tra la scelta di chi si chiude nell’individualismo e di chi ha invece bisogno di sentirsi determinato dalle relazioni con gli altri» (Il mondo salvato dai volontari). L’occasione era la quarta serie a sua cura di «Fondamenta», rassegna veneziana di incontri di artisti e intellettuali; l’intervista avveniva nel suo «bell’appartamento», a cui perviene di fuori il «boato rauco delle sirene» che annunciano l’acqua alta: e lui stesso, l’intervistato, appare composto in un «aspetto di elegante austerità»: ritratto che avvia Donata Righetti a riconoscerne l’immagine perfetta di «maitre à penser». Interessante quest’uso giornalistico, questa semplice riduzione di una figura complessa del Novecento a tratti di maniera nobilmente desueti senza un filo (o con un filo?) d’ironia. La necessità della scelta fra egoismo e altruismo ci riguarda tutti, compresi i letterati. Interessante però che la formula di «brutale semplicità» venga da Del Giudice, un letterato per così dire puro, già storicizzato agli esordi fra i custodi di una letteratura attratta da Calvino nel distacco e a difesa dalle passioni. Viceversa, sfuggendo ai canoni, il letterato Del Giudice oggi converge con i sociologi nel porre al centro un dilemma etico e la funzione del mediatore, e forse la crisi dell’etica laica quale si è venuta a configurare nel mondo detto postmoderno, «un mix inedito di spinte egoistiche e altruistiche» (Luca Ricolfi, La frattura etica), oppure «l’idea della generosità» come correttivo a «l’idea di un’espansione illimitata dell’individuo e del suo diritto alla felicità». Eccoci dunque all’illuminismo.
(Intanto, ho quasi riassunto due pagine di discussione del «Corriere della sera». Sono infatti intervenuti il 20 giugno Luigi Baldacci – in uno dei suoi ultimi articoli militanti, Orfani della politica, altruisti per necessità – e lateralmente, nella rubrica Improvvisi, Sebastiano Vassalli, ciascuno restando fedele alla propria fisionomia: il critico Baldacci replicando a Del Giudice, con realistica analisi della politica e diffidenza per l’etica dei pronunciamenti di massa; e il cinico Vassalli, sotto il titolo Quel che piace agli intellettuali, indirizzandosi a Dell’Otri, «gli dia soldi, gli dia cattedre e li faccia comparire in televisione».)
 
2. Quando collaborava al «Corriere della sera», e poi al supplemento di «il Sole-24 Ore», Franco Fortini tornò spesso a ragionare di «una specifica relazione fra ceto dirigente e uso della letteratura», argomento serio più di qualsiasi «premiatissimo romanzetto» ( Un materiale prepotente e Nel labirinto delle antologie). Sembrava infatti convinto che la scommessa su un progresso complessivo della società italiana, che la proposta di una formazione così ricca da tentare persino «l’indurato estremista» ch’era in lui, fosse fallita dalla parte dei destinatari. Se c’era stato uno «speranzoso banchetto di mille portate offerto alla onnivora bulimia culturale dei ceti medi e medioalti», scriveva nel 1993 , «gli eventi (planetari) dell’ultimo quinquennio» revocavano in dubbio l’ipotesi originaria che postulava lettori congeniali al modello. O anche, ecletticamente, a diversi modelli e ibridazioni; ma qui poteva aprirsi, e s’era infatti aperta, una crepa.
«Perché? non ti eri accorto che l’illuminismo è finito?», lo dice Enzensberger a un Arbasino che gli riferisce l’incredibile giornata dei funerali di Giangiacomo Feltrinelli. A noi lettori lo raccontava Arbasino, commemorando l’amico editore, morto il 14 marzo 1972, in una pagina di stile arbasiniano; e, con mossa di grande retorica, concentrando sulla fine dell’illuminismo la pena personale e il giudizio contestuale. Si tratta per Arbasino dell’illuminismo lombardo, «La linea europea e concreta», sempre perdente nei confronti dell’illuminismo napoletano», la linea mediterranea e astratta» ( Un paese senza).
 
3. Alberto Arbasino è stato, è giornalista e letterato di formazione non letteraria. Deputato del Partito repubblicano nella IX legislatura. Eletti deputati nel 1979 per il Partito comunista sono stati Alberto Asor Rosa e Edoardo Sanguineti. Editorialista e saggista, romanziere e professore, e intellettuale di dichiarato impegno è il semiotico principe Umberto Eco. Non rinunciano al romanzo i giornalisti eminenti, come Giampaolo Pansa e Eugenio Scalfari. Nella tipologia dell’intreccio fra intellettuali e politica, intellettuali e comunicazione, editoria, impresa, in mezzo a tanti percorsi trasversali sarà possibile distinguere anche un profilo più statico, una figura di ritorno: un critico o uno scrittore, un poeta, o un tecnico della letteratura e a volte un professore. Fruisce di una cattedra speciale Alessandro Baricco, che ha fondato a Torino, nella sua città, una scuola di scrittura creativa. S’occupa di musica, cinema, teatro. Scrive su «La Repubblica» e dagli articoli compone libri. Da quattro lunghi articoli usciti dopo l’11 settembre ha composto Next, un «piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà». Baricco, nato nel 1958, è più giovane degli altri finora nominati. È un tipo pure lui, e fa impresa. Di lui si può giustamente dire che è una griffe, un’icona; e ora un opinionista. Ma Baricco un maitre à penser? Sarà la nuova divisa? Sembra strano che lo voglia. Baricco solleva con la sua stessa presenza un problema di definizione. Intanto per «La Repubblica» hanno scritto l’intellettuale Asor Rosa, il letterato Pietro Citati, il semiologo Eco, figure ben distinte e note nel sistema novecentesco della comunicazione.
 
4. I letterati che diventano opinionisti occupano sui giornali gli spazi a ciò deputati: prime pagine, editoriali, rubriche. Ogni giornale ha i suoi (molti, se è, metti, il «Corriere della sera»). Ma chi li legge davvero? Hanno lettori o cultori? Se considero il fenomeno dalla parte della destinazione, questa è la domanda a cui mi provoca l’illuministica concretezza. Su quale giro di amici e consimili o su quale modo di vivere, su quale ceto o addirittura classe dirigente ritengono di esercitare un influsso? Vedo i maestri e mi sfuggono i contorni di massa dei loro scolari. Suppongo che la complicità dell’opinion maker con la sua base sia determinata anzitutto dalla scelta del giornale. Una scelta di pre-giudizio o di schieramento. TI gioco segreto, per i non addetti, sarà poi nel rapporto fra l’indirizzo complessivo del giornale e l’uso della letteratura, spesso la compresenza delle firme. Da decifrare, caso per caso, anche l’opposta circostanza, del letterato o intellettuale che ci tiene a tratteggiarsi in una compresenza di testate: come Marco Belpoliti, nato nel 1958, che scrive per «L’Espresso» e per «La Stampa» (nelle pagine culturali di Alberto Papuzzi) e resta fedele ad «Alias» del «Manifesto».
 
5. A proposito di schieramenti il periodo in cui viviamo, questo periodo letterario, è della politica. Per quanto ciascuno di noi, letterato o intellettuale, professore o scrittorello, casalinga o marinaio, pensi di avere un diario in testa e un’opinione, prevale l’assedio delle identità collettive, la forza degli elenchi e infine (per dirlo spicciolando) di chi ha il potere politico. Nel 2002 a maggio l’iniziativa più vistosa è di Marcello Dell’Otri, che ha ideato un «Manifesto per la cultura» di destra. (Fra le repliche spicca un «Manifesto per la Repubblica» promosso da Nicola Tranfaglia dell’Università di Torino e dal linguista e letterato Gianluigi Beccaria assieme a altri accademici; con la conseguente accusa di irresponsabilità sollevata da Belardelli sul «Corriere della sera» del 12 luglio.) Un mese prima Giovanni Raboni, sostenuto da Paolo Mieli, era già uscito con l’elenco di destra dei grandi scrittori del Novecento.
«Uno sciocchezzaio», ribatteva Scalfari. Eppure questa è opinione. Fa opinione pubblica il giudizio del poeta? O s’iscrive esso stesso in una deriva dell’opinione? Esiste insomma davvero l’opinion maker o è altra cosa?
 
6. A giugno si discute, a sinistra, di Antonio Moresco, che nel volume collettivo Scrivere sul fronte occidentale esibisce un suo elenco di nomi, tutti compromessi in «guerre, rivoluzioni, rivolte», per mostrare quanto la scrittura sia compenetrata con la «Vita vivente», la (aggiungo io) visionaria penetrazione (L’occhio del ciclone). A giugno esce l’«Almanacco di letteratura» di «MicroMega» (3/2002). Gli amici di «MicroMega» sono di movimento e di resistenza e attraversano generazioni e diramazioni. Di nomi nell’«Almanacco» se ne contano una ventina. Anche «Italianieuropei», bimestrale del riformismo italiano diretto da Amato e D’Alema, apre alla letteratura nella sezione «Storie» con un racconto originale di Carlo Lucarelli (1/2002) a cui ne segue uno di Diego De Silva (2/2002). Di Niccolò Ammaniti leggiamo i Frammenti dal G8, in un libriccino intitolato Non siamo in vendita. Voci contro il regime. Siamo sul limite tra scrivere e fare. Il gesto subentra al linguaggio e lo sostituisce. Esserci è in sé significativo, essere in un posto o in un elenco. Di questo discutiamo, e vi accenno per ricordarmi com’è affollato il campo in cui deve muoversi chi non solo scrive, si schiera, si mette in lista, ecc. ma prende l’abito del maitre. A giugno, il 18, a Milano i nuovi scrittori vanno al convegno promosso da Radio Popolare sul tema «Cosa vogliamo dalla letteratura?». E Filippo La Porta intervenendo commenta: «Gli interrogativi epocali posti da Radio Popolare a scrittori, editor e critici metterebbero a disagio un convegno di teologi !» (Il mondo cambia, e noi cosa vogliamo dagli scrittori?). Con La Porta possiamo ridacchiare, ma non perdiamoci la cattiveria intelligente del suo incrocio di letterati con teologi. È la teologia che si laicizza o (che imbarazzo !) è di nuovo la letteratura a sacralizzarsi? Qui ripensiamo al nostalgico Citati, quando, dopo essersi incontrato con giovani liceali e universitari di Roma, e in polemica con i critici marxisti e neoavanguardisti, scriveva sul «Corriere della sera»: «Mi chiedevo se quei ragazzi, che sembravano amare così puramente la letteratura, sapranno resistere ai nostri tempi». Così puramente. Era il 1986 e Citati azzardava una speranza: «Sono tornato a casa pensando con gioia al pubblico futuro dei lettori e forse degli scrittori italiani». Concludendo: negli attuali usi politici della letteratura c’è sovrabbondanza e confusione, c’è tradizione e presunzione; e forse un’antica rivincita (della pura letteratura, l’equivalente della pura vita).
 
7. I letterati opinionisti escono dal riparo dello specifico professionale e dai generi pertinenti, fra i quali la recensione, ormai una rarità. Sono autorevoli quando arrivano agli argomenti politici. Da loro però ci si aspetta che colleghino la politica alla cultura, la cultura all’etica, l’etica alla varia umanità, e la cronaca alla storia e la storia alla condizione umana. Dei letterati opinionisti e del loro divagare da dilettanti (vedi la cosiddetta irresponsabilità) è facile dir male. Meglio cercarne il lato forte. Anzitutto che hanno l’obbligo, e l’accettano, di esporsi, perché questo si chiede al letterato: anche l’ autorappresentazione, anche un personaggio, con una vita e una scrittura e con proprie idee. Le idee non sono indifferenti. Non lo sono le idee di letteratura e neppure le scelte politiche né le tribune. Moresco non è Magris, e non mi pare che si scambino messaggi; Vassalli non è Tabucchi, e non sarà indifferente per Tabucchi pubblicare sul «Corriere della sera» o polemizzare da «L’Unità» (Riflessioni di un impolitico) con Galli Della Loggia; e non confonderemo Renato Farina, vicedirettore di «Libero» e letterato di «Panorama», con la Lidia Ravera che sul «Corriere della sera» lo prende in giro. Lidia Ravera va citata, trattandosi di un raro caso femminile, una scrittrice che per la via dei romanzi e delle femminili rubriche, passando per il «Corriere della sera» e per «L’Unità» di Furio Colombo, è arrivata infine al notismo politico, appannaggio maschile. La Ravera di mestiere sta con gli scrittori e Carla Benedetti con i professori. Carla Benedetti è un caso notevole nel doppio aspetto femminile e accademico. Insegna letteratura all’Università di Pisa e arriva alle polemiche politiche e letterarie associandosi extra moenia ai nomi eccentrici di Pasolini, di Moresco. Visibilità mediatica. L’accademia non basta (Il tradimento dei critici).
 
8. Ci sono belle differenze. Eppure il fenomeno dei letterati/filosofi ha un carattere d’insieme e manda segnali. Ha figure esemplari, e una che vale per molte, è Claudio Magris. Magris insegna, ma il libro che ha cambiato la sua figura dinnanzi alla critica e al pubblico è stato Danubio (1986), un viaggio in cui la materia dotta prendeva una curvatura narrativa. Poi Microcosmi (1997 ), altro viaggio memoriale e simbolico, che ha vinto lo Strega. Sul «Corriere della sera» nell’arco di un mese, giugno 2002, ha pubblicato un corsivo su padre Pio (l’11 ), un elzeviro su libri e Balcani (il 27) e il 2 giugno l’importante editoriale intitolato Un’idea di patria (senza retorica). La figura di Magris s’appoggia al conversare in senso pieno: costruire con i lettori uno scambio tendenzialmente paritario, e perciò non rifuggire dai temi difficili mediandone tuttavia le punte per un pubblico informe, e lasciar ricadere nella scrittura giornalistico-giornaliera l’effetto della sostanza esistenziale dispiegata nei testi saggistici – il mare «simbolo di un assoluto, che a sua volta assomiglia paurosamente al vuoto e al nulla» (Tracce di un’assenza). Di Claudio Magris abbiamo l’immagine in interni e in esterni. Vedo la forma di Magris e della sua cerchia, meno chiari i contorni, oggi, della destinazione. È uno studioso triestino, un professore. Ma è da Danubio, e dal successo imprevisto in mezzo a lettori strani e misti, con reazioni diverse secondo i paesi, che s’è formata la sua voce-guida, la voce appunto magistrale. Qui, per capire qualcosa del contesto, servirebbe un confronto fra i diversi periodi e modi della ricezione.
 
9. I segnali che dall’insieme raccolgo sono i seguenti. Cambia il paradigma. È cresciuto il divario fra la comunità scientifica, con i suoi depositi sepolti di specialistiche competenze, e la presa, la cognizione, del mondo esterno. L’impossibilità di tenere aperto un circuito, che si presumeva virtuoso, sembra a me il segnale vero e triste di sofferenza delle istituzioni (latamente) pedagogiche. Il mondo accademico si proietta in un’immagine esterna quando crea opinionisti. Quando esprime opere e atteggiamenti che lo portano fuori di sé.
La seconda osservazione è su quanto pesano oggi gli eventi planetari e la politica. Con una certa autonomia i letterati s’avventurano nell’etica. La politica preme. Ma è sempre nel passaggio agli interlocutori sociali il punto di criticità. E sempre, per forza, torniamo ai fondamenti, all’illuminismo (all’autocritico, e mal vissuto, illuminismo).
Della frustrazione specialistica e accademica, e della ricerca di luoghi sostitutivi, abbiamo un riscontro nella fioritura biografica: vite e memorie di intellettuali e di politici, di letterati, di arruffapopoli e anche di voltagabbana. Così vanno trasmutandosi la letteratura e la sua storicità. Così infatti la letteratura finisce per negarsi nelle forme tradizionali, allargandosi sia alla microstoria dei fatti sia alla storia delle idee.