Scrittori per ridere, successi per davvero

Due grandi successi della passata stagione umoristica, l’esordiente Fabio Volo e la già collaudata Luciana Littizzetto. Due scrittori con molti punti in comune: lo stesso racconto di due scanzonate psicopatologie della vita quotidiana; lo stesso patto con il lettore cooptato sulla base di un’affinità emotivo-esistenziale e di un’identica sinfonia etica, estetica e generazionale; la stessa mancanza di finale (libri aperti come la generazione che si sforzano di ritrarre); la stessa comunità di lettori trenta-quarantenni, metropolitani e single; la stessa approssimazione stilistica che spesso rasenta la sciatteria; la stessa semplicità di impianto narrativo.
 
Qualche tempo fa giungeva a una direzione editoriale della Mondadori la lettera di un indignato lettore che aveva avuto la sventura di acquistare Esco a fare due passi di Fabio Volo senza trovarlo minimamente all’altezza delle proprie aspettative estetiche e culturali. Accompagnava la lettera la copertina divelta del libro, completa di costa e di quarta, crocifissa a colpi di graffettatrice al testo che più o meno recitava: «Caro Direttore, / il resto è già in un cassonetto. Questo libercolo mi ha dato il voltastomaco. Sorbirsi le fesserie di un deficiente non è mai stata la mia passione. Complimenti per il livello». / Firma
Prima di considerare in dettaglio l’opera incriminata, in realtà caso editoriale per molti aspetti inatteso, assieme all’ancora più sorprendente Sola come un gambo di sedano di Luciana Littizzetto, vale forse la pena soffermarsi sulle ragioni di una simile contrarietà. Tanta veemenza induce prima di tutto a pensare che ci troviamo di fronte a un lettore che ha un’opinione precisa in merito a ciò che in generale un libro dovrebbe o non dovrebbe essere. L’editore, parrebbe indicare il mittente della lettera con il suo gesto, ha tradito le aspettative non tanto proponendo un’opera di scarsa qualità letteraria, bensì immettendo nel sistema culturale un vero e proprio non-libro, quindi venendo meno ai doveri della sua professione. Non importa qui tanto stabilire in base a quali parametri interpretativi questo lettore formuli il proprio giudizio sul «livello» di un’opera. Più interessante è forse constatare il fatto che egli si sia sentito costretto a fare i conti con l’esistenza di una categoria di prodotti paraletterari che, dal suo punto di vista, sono di grave danno al sistema della produzione culturale. Niente di nuovo, in realtà. Si tratta della consueta azione di disturbo, antica forse come il libro stesso, condotta dal comico nei confronti dei generi ratificati come «alti» e che da sempre ha il potere di scatenare meccanismi aggressivi di rifiuto. D’altra parte, e neppure questa è certamente una novità, l’umorismo occupa ormai da parecchio tempo una precisa nicchia nel panorama dell’offerta libraria. A parte l’ormai più che ventennale «Biblioteca umoristica Mondadori» (nata nel 1 977 con autori come Stefano Benni, Antonio Amurri e Paolo Poli), altre case editrici hanno saputo sfruttare con intelligenza un filone che pare attingere a un ampio bacino di lettori. Gli esempi sono numerosi: negli ultimi anni la Baldini & Castoldi si è dimostrata particolarmente attenta nel captare il potenziale di riconversione di una serie di talenti della comicità nostrana, da Claudio Bisio a Paolo Rossi alla stessa Littizzetto, dal medium teatrale/radiofonico/televisivo a quello librario, tanto che oggi il marchio Zelig è sinonimo di comicità in libreria; e se le Formiche di Gino e Michele costituiscono uno stracollaudato sottogenere di intrattenimento editoriale, Stefano Benni rappresenta ormai da un ventennio un’efficace saldatura tra i modi della letteratura, del giornalismo e della comicità. Ovviamente, ogni qual volta si tratti di successi editoriali «spuri», ossia di matrice televisiva, è forte la tentazione di liquidare la faccenda attribuendo il merito (o la colpa) della loro buona riuscita alla martellante esposizione a cui il piccolo schermo sottopone i suoi autori. Sarebbe ovviamente irragionevole negare il forte vantaggio promozionale che si può ottenere cooptando all’interno del mondo librario un personaggio che goda di visibilità televisiva. Questo però non significa automaticamente che un editore possa semplicemente cessare di fare libri per limitarsi a stipulare contratti editoriali alle celebrità del momento. Occorre tenere presente infatti in primo luogo che, a differenza ad esempio degli Stati Uniti o della Gran Bretagna, in Italia lo iato tra spettatore televisivo e lettore di libri è una realtà ineludibile, tanto più oggi visti il progressivo scadere qualitativo della televisione generalista e il poco convincente andamento dei canali satellitari. Ora più che mai, insomma, l’editoria deve usare la massima cautela nel cercare di adattare allo spazio immaginativo del libro (e allo spazio merceologico delle sempre più affollate librerie) il fenomeno televisivo del momento. Il fondatissimo rischio infatti è semplicemente che il pubblico quel libro non lo «Veda», ossia che i lettori forti, cui possiamo apparentare con ragionevole azzardo il contrariato mittente della lettera citata, se ne tengano sdegnosamente alla larga, mentre il pubblico affezionato alle gesta televisive del proprio beniamino non si accorga del titolo semplicemente perché in grandissima parte non frequenta librerie e non acquista libri. Anche prodotti di questo genere, insomma, piaccia o no, non sfuggono alle regole dell’editoria classica, ossia che il libro corrisponda a un effettivo contenuto editoriale, in una parola che «esista», e in secondo luogo che esista il suo pubblico.
Forniamo a questo punto dei dati più precisi sui libri in oggetto: Esco a fare due passi, uscito nel gennaio del 2001, alla chiusura del suo fortunato ciclo di vendita «Hardcover»-«Mito»-«Oscar», prima cioè di entrare stabilmente nel catalogo paperback, veleggiava intorno alle 150.000 copie, destinate con ogni probabilità ad avvicinarsi alle 200.000 entro la fine del 2002 . Si tratta di numeri da vero e proprio best seller, e che tuttavia potrebbero addirittura apparire modesti se confrontati al libro della Littizzetto. Sola come un gambo di sedano infatti, anche perché sostenuto dalle precedenti e già fortunate esperienze editoriali dell’autrice, da Ti amo bastardo a Minchia Sabbry, esordiva nel maggio del 2001 con una tiratura di 50.000 copie, per arrivare a superare ampiamente le 300.000 copie entro la fine dell’anno e a chiudere il suo ciclo annuale a più di 700.000 copie totali prima ancora di arrivare all’edizione «Oscar».
Non ci preme riflettere qui tanto sulla disparità delle cifre di venduto tra questi due autori, su cui pure ci sarebbe da dire. Basterà forse a stabilire un minimo di proporzionalità tra i titoli il ricordare prima di tutto che Esco a fare due passi era il libro di un esordiente assoluto, di contro a un’autrice alla sua terza esperienza editoriale. Inoltre è probabile che questa divergenza stia anche a ratificare una crescita recente del pubblico librario femminile, a cui il libro della Littizzetto è dichiaratamente rivolto, rispetto a quello maschile (oggi si calcola che dei sette milioni di italiani identificati dalle statistiche come lettori «medi» e «forti», che significa dai cinque-dieci libri all’anno a undici e più, circa il 60% sono donne). Cerchiamo dunque, al di là delle differenze relative, di cercare qualche chiave utile a interpretare le ragioni di un successo così clamoroso. Un elemento che apparenta in modo preciso i due testi, pur nelle notevoli differenze di impianto, è prima di tutto il fatto di essere giocati a partire da un sostanziale appiattimento tra i piani dell’autore, del narratore e del protagonista, il che porta a una semplificazione massima del patto con il lettore. In un certo senso è come se il forte dilettantismo autoriale, facendo felicemente di necessità virtù, trasformasse la scrittura in un fatto poco più che personale che si traduce nella forma di un privatissimo «racconto di me stesso a me» nel caso di Volo oppure, come in Sola come un gambo di sedano, in quella di una fenomenologia del femminile contemporaneo condotta attraverso una fitta serie di microconfessioni tra amiche intime. In Volo l’ordito narrativo si dispone con ingenuo slancio intorno alla cornice strutturale della «lettera aperta» a un amico più grande di nome Nico che compie gli anni (salvo poi scoprire alla fine che la lettera è indirizzata in realtà a se stesso tra cinque anni). Il tono è caldo ed esitante, gli inciampi dell’avvio altrettante giustificazioni al fatto di ritrovarsi a maneggiare uno strumento insolito e seducente come quello della scrittura: «Fuori Piove. Ho deciso. Cioè non è che ho deciso che fuori piove, pioveva già. Ho deciso che ti scriverò una lettera. [… ] Niente imbarazzo tra noi: solamente una lettera. Quando apri un pacco finisce tutto: Oh… una maglietta. Grazie. Oh… le Nike, grazie. Oh… una stampante, grazie mille. Una lettera occupa meno spazio e più tempo. Ma siccome questo vale anche per i libri, i cd e le videocassette, mi sono accorto di averti scritto una gran cazzata. Scusa. Cominciamo bene. Ricomincio: ha smesso di piovere. E anche stavolta io non c’entro. Peccato, mi piace di più scrivere quando sento la pioggia. Aprirò la doccia».
La Littizzetto invece apre Sola come un gambo di sedano con il cipiglio di chi si appresta a svolgere, dietro precisa richiesta, un lavoro per cui non ha competenze specifiche: «Succede. E mi è successo. Dopo anni di sbattimenti, spettacoli nelle bettole e trasmissioni invedibili (in tutti i sensi), le cose sono cambiate: le persone giuste si sono accorte di me e adesso moltissimi apprezzano il mio talento. Da imbecille a genio. Ma io non mi sento affatto cambiata. Sarà che sono rimasta imbecille o sono sempre stata genio? Tant’è. Adesso mi capitano le cose più strane. Prima fra tutte mi si chiede il parere su qualsiasi cosa. Dai movimenti della tettonica a zolle al calo della libido. E io quasi mai ho qualcosa di veramente interessante da dire».
Dopo queste differenti ma ugualmente franche ammissioni di non professionismo, tese evidentemente a cooptare il lettore sulla base di un’affinità emotivo-esistenziale con i temi trattati, piuttosto che sulla raffinatezza stilistico-letteraria, francamente assente, quello che si svolge dinanzi ai nostri occhi è in buona sostanza il racconto di due scanzonate psicopatologie della vita quotidiana lungo gli eterni interrogativi sull’amore, il sesso, l’amicizia e la solitudine.
Nel libro di Volo la narrazione prende l’abbrivio da un nostalgico e a tratti spassoso amarcord delle tappe dell’età evolutiva, che dovrebbe avere la funzione di cartina al tornasole per indagare le mille difficoltà e insicurezze del presente adulto. Tra calzini spaiati e yogurt scaduto, piatti sporchi e cd sparsi sul pavimento, in Esco a fare due passi gli episodi cruciali della vita del protagonista si dispongono dunque, cementati dall’intercalare «ti ricordi?», lungo le direttrici di una sorta di sbilenco romanzo di formazione fuori tempo massimo, in cui i grandi quesiti esistenziali sembrano trovare sistemazione provvisoria all’interno della lamentata eppure irrinunciabile immaturità del protagonista («immaturo, immaturo, immaturo» salmodia sconsolato Nico ogni due o tre pagine). Il sesso trova così la sua espressione più genuina in uno sbandierato infantilismo: «Ieri pomeriggio sono andato in farmacia per comprare una scatola di biscotti al plasmon e una di preservativi. (Quella dei Plasmon l’ho quasi finita, l’altra non l’ho ancora aperta.)».
Mentre le relazioni affettive si riducono nell’ambito di un immaginario candidamente televisivo, in cui valori e consumi si confondono con adolescenziale spensieratezza: «Prendi appunto Alessia: lei era entrata in quella parte del cuore dove ci sono le cose più buone, quella simile a una credenza dei dolci dove c’è la Nutella, i biscotti, le merendine, la marmellata; quell’angolo di cuore dove quando uno ci entra, succeda quel che succeda, da lì non uscirà mai».
Alle categorie tradizionali di affermazione maschile del lavoro e del denaro Nico reagisce con una sintomatica oscillazione tra consolidate tipologie di consumo giovanile («mastico e penso alle cose che devo fare. Dunque: la spesa, comprare l’olio per la lanterna, la prolunga del telefono e assolutamente riconsegnare la videocassetta del Blockbuster») e ribellismo libertario («non voglio essere ricco, voglio essere libero»). E si tratta di un atteggiamento che trova una precisa corrispondenza nell’insofferenza che il protagonista dimostra nei confronti della dimensione politica («lo un’ideologia politica non ce l’ho, sono già quattro volte che non voto […] non so nemmeno se sono di destra o di sinistra»), contrapponendole piuttosto una difesa appassionata delle proprie libertà individuali. Attraverso Nico e la sua lunga lettera a se stesso, Fabio Volo inscena dunque un io narrante riottosamente alle prese con i tradizionali riti di passaggio maschili nella consapevolezza, poco più che intuitiva, di fare parte di una cultura che proprio come lui non sembra ancora aver scelto tra modello patriarcale e parità sessuale («ma Nico, cosa fa di una donna una troia? Tu questo lo hai capito, adesso? È quello che fa, o come lo fa? Qual è l’aggettivo equivalente per un uomo?»), figure parentali tradizionali e modelli educativi alternativi, rete familistica di sostegno e assertività individualista, città e campagna. Punteggia il tutto una vera e propria colonna sonora fatta di citazioni discografiche che, oltre a mimare i modi della cinematografia, sembra avere la funzione di segnale identitarie di appartenenza a un mondo giovanile da cui il protagonista non sembra avere alcuna fretta di uscire. Ecco allora Manu Chao, Nirvana, Subsonica, disposti accanto a un’ enciclopedia letteraria di riferimento anch’essa piuttosto sintomatica, in cui accanto a Il Grande Fratello – «quello di Orwell, non quello di Canale 5», ci tiene a specificare Nico – troviamo Siddharta, Chatwin e Suskind. Gravato così dalla sensazione di sentirsi ormai prossimo ai trent’anni e quindi in qualche modo inderogabilmente chiamato a una serie di responsabilità, il protagonista, scrivendo una lunga lettera a se stesso, decide semplicemente di rimandare la questione di cinque anni nella speranza, al suo trentaduesimo compleanno, di essere riuscito a fare i conti con un modello di uomo e di cittadino che pare attenderlo inderogabilmente e che egli sente appartenente a un passato, per quanto nostalgicamente rievocato (nonni e genitori riempiono l’ultima parte del libro con discreta efficacia), sostanzialmente estraneo e inservibile.
Se in Volo il pedale del comico e quello del patetico si combinano nel delineare alla bell’e meglio la figura di una sorta di simpatico e attardato Gianburrasca, tormentato tra spinte individualiste e pacificato conformismo sociale, la Littizzetto propone invece al lettore, senza porsi troppi problemi di cornice o ambientazione, una serie di siparietti sull’universo maschile e femminile, inscenati da un’iperassertiva protagonista. L’io narrante, che non sembra per nulla afflitta dai problemi identitari che tormentano il povero Nico, organizza perciò il racconto intorno alla quotidiana, generazionale fatica di accettarsi e farsi accettare in quanto donna: «Vorrà dire che per il resto della vita starò da sola; farò presine all’uncinetto, leggerò la vita quotidiana dei fenici e mi purificherò con tisane al finocchietto selvatico. E penserò alla vera, unica e suprema maestra dell’amore: Barbie. Quarantuno anni e non sentirli. […] Quale sarà mai il segreto della sua forma inossidabile? Ve lo dico io. Non si è mai sposata. E dire che quel rincoglionito di Ken le vuole bene, è dalla prima asilo che le sbava dietro. Ma lei niente. Dura; un tocco di marmo. Fidanzati sì ma poi… mi a ca’ mia e ti a ca’ tua. Lei nella sua villa a tre piani in pura plastica con un guardaroba da fare invidia alla Carrà e lui nel suo monolocale a scolpirsi i capelli con pialla e seghino».
Si tratta di una compiaciuta determinazione cui chiaramente non sono estranee le rivendicazioni del femminismo storico e che forse proprio per questo impatta con maggior efficacia con tutti gli stereotipi della condizione femminile contemporanea, a cui la protagonista non sembra per altro avere intenzione alcuna di rinunciare: «Mai provato lo stress da profumeria? Dunque. Le commesse hanno appena finito la quinta elementare e cercano di convincerti che la loro pelle serica è solo frutto dell’uso regolare della crema captatrice di glucosio a effetto riduttore con complesso di vitamina C e antiretinolo. Adorabile testolina biondo ottone, come posso crederti? Mi vedi? Ho lo stesso colore di un fagiolo rampicante, pensi davvero ·che abbia il coraggio di perseguitare i radicali liberi, proprio io che ho smesso l’eskimo e le barricate un minuto fa?».
Dal test della matita per saggiare la sodezza del seno al trauma da parrucchiere incompetente, il libro si snoda dunque tra accumuli esperienziali minimi e ordinarie sconfitte, sussurrate confidenze e dichiarazioni di guerra all’altro sesso: il tutto intercalato da riflessioni sull’universo maschile improntate a una sfiduciata quanto affettuosa casistica di tipi che va dal traditore all’ipocondriaco, dal pignolo al distratto. «In amore sono importanti le piccole cose. Che ti regali un fiore? No, molto meno. Che si lavi i piedi, per esempio. Che non sia della banda della goccia e che tiri su l’asse quando fa pipì, che eviti i defilé in calzino corto e pancera, che non esamini il fazzoletto dopo che si è soffiato il naso, che non si raschi la placca col tappo della bic e che quando russa si giri almeno dall’altra parte».
Alla fine il risultato non è, come nel libro di Volo, il profilo di una generazione alla poco convinta ricerca di un nuovo modello che tenga conto delle trasformazioni avvenute a livello di ruoli sessuali, bensì il ritratto partecipe e tutto sommato efficace di una precisa tipologia di donna italiana che, pur dall’interno di una concezione in fondo tradizionale della femminilità, vive uno spazio di autonomia progettuale che si esplica tanto nella quotidianità più ordinaria quanto nelle scelte fondamentali della coppia, del lavoro o della maternità: «Dicono che quando si è incinte si sta benissimo. Infatti. Ti viene una nausea bellissima, pisci in continuazione, ti si staccano i reni, ingrassi di venti chili, perdi la vista e cammini gobba. Bellissimo. […] Io non credo di potercela fare. Ci ho un desiderio di maternità a intermittenza. Sì, no, sì, no, sì, no, come le luci di emergenza delle automobili». Fermo restando che se l’io narrante mantiene nei confronti degli uomini un atteggiamento di agguerrito ma tutto sommato affettuoso antagonismo, non lascia scampo invece alla donna che pecchi di scarsa intelligenza o, peggio, di scarsa solidarietà: «Che qualcuno fermi Megan Gale che son settimane che si arrampica su un fungo dell’acquedotto come un macaco su una pianta di banano e soprattutto pieghi quella stronza di una microtata che sono anni che cucina il sugo col dado facendo credere a quei tre deficienti single di essere l’Artusi».
Fruttuosamente sul crinale tra orgoglio rivendicativo e rassegnazione esistenziale, frustrazione affettiva e amor proprio, anche quello della Littizzetto, proprio come quello di Volo, è un libro che non si conclude, preferendo rimanere aperto come la generazione che si sforza, peraltro non senza successo, di ritrarre. Certo, tra il racconto dell’onda lunga di un’adolescenza mai superata di Esco a fare due passi e il regesto puntiglioso del quotidiano psicoaffettivo di una signorina torinese di Sola come un gambo di sedano, il rischio poteva essere quello di un’esiziale idiosincraticità. In entrambi i casi, invece, ogni pericolo di ricaduta entro un orizzonte angustamente privatistico viene in realtà sventato. Nessuna traccia insomma, in questi testi, dell’asfittico «camerettismo» che ha perniciosamente afflitto la «giovane narrativa» italiana anni novanta (e che pure ha prodotto le pagine al vetriolo del miglior Ammaniti o le alienate e irresistibili fanciullaggini del primo Aldo Nove). Al contrario, sia il libro di Volo sia quello della Littizzetto decollano sull’immediata entrata in risonanza con comunità di lettori/lettrici che appaiono fortemente connotate prima di tutto da un punto di vista sociologico: trenta-quarantenni, metropolitani e single, categoria collettiva quest’ultima da tempo sbandierata dall’editoria periodica e televisiva ma che, al di là dell’advertising, in Italia solo di recente pare giunta a un grado di maturazione sociale tale da esigere modi espressivi suoi propri. Che questo segmento sociologico sia anche una tipologia precisa di consumatore culturale lo dimostrano del resto alcuni recenti successi della cinematografia italiana: si pensi ad esempio all’iter di Gabriele Muccino che, partito dall’epica adolescenziale di Come te nessuno mai, ha colto il successo con l’astuto ritratto della generazione dei trentenni italiani di L’ultimo bacio; o alla singolare avventura esistenziale che porta la protagonista femminile di Le Fate ignoranti a una solitudine elettiva carica di affettività; o, ancora, ai divertenti eterni fuori corso del piccolo cult Santa Maradona. E in libreria? Quali fra gli scrittori italiani si sono dimostrati in. grado di padroneggiare con altrettanta efficacia i medesimi temi attraverso gli strumenti espressivi della narrativa? È inevitabile constatare che da questo punto di vista il panorama locale è abbastanza desolante. Meglio affidarsi alla leggera e brillante Helen Fielding, con la sua ormai celeberrima Bridget Jones, o all’accattivante e più sofisticato Nick Hornby di Alta Fedeltà, autori di provata professionalità, scevri di velleitarismi letterari di sorta e dotati di una sicura quanto sdrammatizzante presa sul reale. Oppure si può sempre ricorrere a Esco a fare due passi e Sola come un gambo di sedano. Nella loro approssimazione stilistica che spesso rasenta la sciatteria, nella pacificata ingenuità di impianto narrativo, si tratta alla fin fine del lavoro di due scanzonati dilettanti che per buona parte hanno semplicemente dato voce a quello che sono, fidandosi di un’istintiva sintonia etica, estetica e generazionale con una precisa e, per la gioia dell’editore, tutt’altro che trascurabile comunità di lettori.