La bambinaia dell’Ottocento

Omaggio a un “mostro sacro” della letteratura ottocentesca, Jane Eyre di Charlotte Bronte, La bambinaia francese, ultimo bestseller di Bianca Pitzorno, ne rovescia in modo radicale la prospettiva, mettendo in primo piano una figura minore del noto romanzo inglese: Sophie, la giovane bambinaia della piccola allieva di miss Jane. Ne risulta un controritratto rispetto al cliché della governante inglese. Sophie non ha conosciuto le privazioni e le umiliazioni dei rigidi collegi inglesi, ma è stata educata in una scuola laica e democratica. Alla passionalità di Jane Eyre contrappone il buon senso, l’intraprendenza ma anche il valore dell’amicizia e della solidarietà.
 
«Lei signora Risotto che è brava a scrivere favole !
Io scrivo romanzi – lo ha interrotto la madre di Agnese – Le sembra una favola questo? E gli ha sbattuto sulla testa I sette gatti di Lola che sta giusto presentando e che è un volume di 400 pagine».
Così sbotta in Tornatras (2000), uno dei successi recenti di Bianca Pitzorno, Clarabella Risotto, vicina di casa della bimba protagonista, Colomba Toscani, nonché scrittrice affermata di libri per l’infanzia.
La battuta di Clarabella, controfigura riconoscibile e ammiccante dell’autrice, trova riscontro ulteriore in alcune dichiarazioni esplicite della Pitzorno, che pur avendo composto anche alcuni racconti di successo per i più piccoli (L’incredibile storia di Lavinia ne è un esempio noto) ha sempre ammesso di privilegiare la fascia di lettori preadolescenti, dai dieci anni in su, presumibilmente disponibili a letture di più ampio respiro. Di qui la sua predilezione per la misura del romanzo, per gli intrecci articolati e complessi. E di romanzi veri e propri la Pitzorno ne ha scritti in gran numero, nella carriera più che trentennale di autrice di libri per ragazzi, frutto di una scelta consapevole e, salvo rare eccezioni, esclusiva. La sua vasta produzione non disdegna le convenzioni della narrativa di genere, dal romanzo storico al racconto fantascientifico, ma riprende soprattutto, senza remore e snobismi, gli espedienti del grande feuilleton ottocentesco, pescando in un repertorio di temi, situazioni, artifici (viaggi avventurosi, separazioni, morti apparenti, agnizioni) ricco di attrattive per rimmaginario infantile. Non mancano in tale operazione consapevolezza critica e una certa tendenza alla rivisitazione ironica della tradizione letteraria otto-novecentesca: e, del resto, la Pitzorno, classicista di formazione, autrice per l’infanzia di professione, è scrittrice tutt’altro che ingenua.
La bambinaia francese (2004), l’ultimo bestseller della Pitzorno, sciorina dinanzi agli occhi dei lettori l’intero arsenale della retorica romanzesca. Nelle 500 pagine di cui consta il libro c’è di tutto: morti, abbandoni, orfanelle derelitte e benefattori generosi, viaggi, fughe avventurose, ritrovamenti e riconoscimenti. Il romanzo combina, innanzitutto, due moduli assai praticati dalla narrativa ottocentesca: l’impianto del romanzo storico si sovrappone, infatti, alla struttura polifonica del romanzo epistolare.
Ambientato nella Francia degli anni trenta con sconfinamenti nell’Inghilterra protovittoriana, l’intreccio procede intercalando al racconto in terza persona il modulo della narrazione epistolare a più mani, che alterna il punto di vista dei personaggi più giovani: la bambinaia Sophie, la sua piccola protetta Adèle Varens, lo schiavo affrancato Toussaint, la giovane ed eccentrica aristocratica Olympe. Fin qui nessuna novità: entrambi i modelli narrativi risultano già utilizzati nella precedente produzione della scrittrice sassarese. La Pitzorno è autrice di diversi romanzi storici, sempre ispirati a scelte di ambientazione tanto originali quanto ideologicamente connotate: la Sicilia laica e antipapale di Federico II in La bambina col falcone (1982), la Sardegna del secondo dopoguerra, tra pregiudizi di classe, povertà ed emarginazione in Ascolta il mio cuore (1991), la Francia della Restaurazione ancora percorsa da fremiti giacobini nell’ultimo romanzo. La si direbbe fautrice di una riedizione postmoderna del romanzo storico di scuola democratica. Altrettanto confacente le risulta la scrittura di stampo epistolare o diaristico, utile a riportare sulla pagina, in presa diretta il punto di vista dei personaggi e a favorire l’identificazione dei giovani lettori: in Extraterrestre alla pari (1979), Re Mida ha le orecchie d’asino (1996) e Eornatras, la trascrizione di lettere o scorci di diario dei personaggi è sapientemente intercalata alla narrazione in terza persona.
La bambinaia francese ha, tuttavia, una marcia in più, tanto riconoscibile quanto dichiarata dall’autrice nella nota in appendice: è, prima di tutto, un romanzo che ne rivisita un altro, un omaggio sui generis a un “mostro sacro” della narrativa ottocentesca: Jane Eyre di Charlotte Bronte. L’operazione di riscrittura è, però, condotta all’insegna di un rovesciamento radicale di prospettiva. Al resoconto memoriale di una governante inglese, educata secondo princìpi rigidi e severi, ma dal temperamento tenero e appassionato, al centro del romanzo della Bronte, si sostituisce il punto di vista duplice di una coppia intraprendente e solidale: la bambinaia francese Sophie e la sua piccola protetta Adèle, allieva di Jane Eyre. Nel rileggere secondo un’ottica rovesciata il noto capolavoro dell’Inghilterra vittoriana la Pitzorno si lascia guidare da un duplice intento programmatico: il suo impegno è parimenti volto alla riabilitazione dell’ambiente francese, spesso denigrato dalla Bronte, e alla affermazione dei meriti, del valore e dei diritti dell’infanzia, che il modello pedagogico anglosassone tende a misconoscere e negare.
Alla doppia dichiarazione di disistima della Bronte nei confronti delle donne francesi «dal carattere frivolo e superficiale» e degli adulti che si inteneriscono eccessivamente sull’infanzia «io – scrive la Pitzorno nella nota in appendice – che ho un debole per i bambini e una grande ammirazione per il carattere e la cultura dei francesi, cerco di dare la mia opinione». Un’opinione che si definisce, innanzitutto, attraverso la scelta del personaggio in primo piano. Sophie, la giovane bonne di Adèle, che nella Jane Eyre della Bronte era una comparsa insignificante, viene promossa al rango di protagonista, sia pure affiancata da giovani partner di uguale intraprendenza. Le spetta il compito di valicare la linea d’ombra della vicenda brontiana di Jane Eyre: la storia, rigidamente censurata nel romanzo inglese, della relazione di Sir Edward Rochester, il padrone aristocratico di cui la governante si innamora, con Céline Varens, la ballerina francese madre della piccola Adèle. Le lettere di Sophie a madame Varens, imprigionata a causa di un’accusa ingiusta, forniscono una versione alternativa dei fatti: la ballerina frivola e volgare del romanzo brontiano diviene l’interlocutrice privilegiata delle missive di Sophie, che ha conosciuto in lei una benefattrice spregiudicata e generosa. Attorno a Céline Varens e alle sua rete di eccentriche relazioni parigine prende corpo l’antefatto francese della storia, costruito alla luce di illustri reminiscenze letterarie, da Victor Hugo a Balzac, a George Sand. Come dire che la tendenza al rovesciamento a volte semplificato di un modello si combina, nella Pitzorno, con il riutilizzo sapiente di una molteplicità di fonti, che determina un’intertestualità ricca e stratificata.
Nel contesto della Francia degli anni trenta, dove resistono ancora i valori democratici di ispirazione giacobina, il personaggio di Sophie si configura inevitabilmente come un’anti Jane Eyre, un controritratto ben delineato rispetto all’archetipo ottocentesco della governante anglosassone: orfana anche lei, senza mezzi ma intenta all’affermazione di sé, non conosce, però, le sofferenze e le privazione delle sue colleghe anglosassoni, non cresce in rigidi e austeri collegi ma in una scuola d’eccezione, quella democratica e laica del Cittadino Marchese, padrino di Céline Varens, pedagogo eccentrico, fautore di un insegnamento ispirato ai valori di fraternità, uguaglianza, libertà. L’atmosfera lugubre del collegio inglese, della pia istituzione per orfanelle, non potrebbe essere più lontana: la scuola del Cittadino Marchese è frequentata da allievi provenienti da classi sociali diverse, poveri orfani, schiavi affrancati, giovani aristocratiche eccentriche e mascoline, che imparano la storia, la letteratura, le scienze naturali, la lingua inglese ma, soprattutto, i princìpi di collaborazione e il valore della solidarietà. Tutte carte che Sophie e i suoi amici potranno giocare nella seconda parte della storia, ambientata questa volta nelle fosche brughiere inglesi dove la giovane bambinaia francese ha dovuto accompagnare Adèle, costretta a seguire il padre, Sir Edward, nell’austera dimora di Thormfield. A questo punto la contiguità con il noto romanzo inglese diviene marcata. La storia della Pitzorno segue le tappe dell’intrigo amoroso tra la governante inglese e il suo padrone, Sir Edward, secondo la sequenza ben nota: la promessa di matrimonio tra i due, l’ostacolo rappresentato dal precedente matrimonio dell’aristocratico signore con la creola Bertha Mason, la vicenda della follia della prima moglie e della sua prigionia segreta tra le mura di Thormfield, la fuga di Jane Eyre e l’incendio finale della villa.
La serie degli eventi è, però, riproposta secondo una prospettiva inedita: lo sguardo vigile e attento di Sophie, tanto distante dalle smancerie sentimentali, dalle ipocrisie e dalle remore moralistiche della società inglese, quanto capace di dissimulare la consapevolezza critica e il dominio della situazione per essere pronta ad agire al momento opportuno. Il doppiogioco abile di Sophie, che si finge bambinaia semplice e ignorante, ignara della lingua inglese, le assicura un rapporto di complicità privilegiata con il lettore, disposto a seguirla sino in fondo nell’epilogo avventuroso. Sophie è un personaggio giovane, poco più che adolescente: il suo ruolo nella storia consente l’adozione di una fecalizzazione dal basso, efficace a favorire l’identificazione dei giovani lettori, tanto più che è affiancata da un’altra prospettiva infantile, quella della piccola Adèle. L’ottica di Adèle, come si configura nelle lettere alla madre, fa da controcanto puntuale alla voce di Sophie e propone una versione dei fatti sorretta dall’intuito e dalla sensibilità infantili, tutte qualità che condurranno alla scoperta del mistero scabroso di Thormfield: l’esistenza di Bertha Mason, prima moglie di Sir Edward, impazzita e da lui segregata al terzo piano della villa.
Prende corpo a questo punto il finale, divergente rispetto all’intreccio della Bronte: eliminato ogni riferimento al lieto fine dell’intrigo amoroso, reso possibile nel romanzo inglese grazie alla morte di Bertha nell’incendio di Thormfield, la storia della Pitzorno procede verso un finale aperto, consono all’universo giovanile protagonista. Alla fine vince il gioco di squadra: Sophie e Adèle fuggono dall’Inghilterra grazie alla complicità degli amici francesi giunti in loro soccorso, coinvolgono nella fuga la povera Bertha Mason e, una volta giunti in Francia, riescono persino a ricondurla alla ragione. Non resta che navigare verso il Nuovo Mondo per riportarla a casa: il viaggio è ovviamente occasione di nuovi incontri, ritrovamenti, matrimoni imminenti o unioni possibili in un futuro indefinito. Il rischio di strafare nella pratica della contaminalo (per l’epilogo la Pitzorno si è anche ispirata al romanzo di Jean Rhys, Il grande mare dei Sargassi, che racconta la storia di Bertha Mason) incombe, così come il pericolo di cadute, lungaggini e inutili complicazioni nella tenuta dell’intreccio. E, tuttavia, il senso dell’operazione di riscrittura pitzorniana alla fine emerge con chiarezza e ribadisce con coerenza i motivi di fondo della sua narrativa. All’infanzia negata di Jane Eyre fa riscontro la riaffermazione del valore e dei meriti del mondo dei bambini, capaci di buon senso e di razionalità e, soprattutto, in grado di stabilire relazioni solidali salde, da far valere al momento opportuno. Sophie non è un’eroina solitaria come Jane Eyre, al contrario fa parte di un’équipe, peraltro, quasi tutta femminile. Anche La bambinaia francese ripropone la netta dominanza del protagonismo femminile che caratterizza da sempre i romanzi della Pitzorno nei quali il buon senso, l’intraprendenza, lo spirito critico delle bambine si contrappone non tanto e non solo all’universo maschile quanto alla fragilità e alla scarsa affidabilità delle figure femminili adulte. Le madri fanno sempre una pessima figura nei romanzi di questa autrice (la stessa Céline dell’opera in questione non se la cava meglio, malmaritata, prigioniera, poi impazzita dal dolore, insomma sempre bisognosa di cure e di assistenza), che alla prospettiva del matriarcato tradizionale contrappone l’epos del suo popolo, “quello delle bambine”, costretto spesso a prendere l’iniziativa di fronte alla debolezza delle figure anziane. Anche Sophie appartiene a quel popolo, tanto da condividerne un’altra prerogativa, che è anche uno strumento formidabile di difesa rispetto alla fragilità adulta: l’estraneità sostanziale, sia pure temporanea e dovuta alla giovane età, alla dimensione dell’eros, ai suoi conflitti laceranti e conturbanti. E proprio sul versante del sentimento amoroso che la femminilità matura mostra un’arrendevolezza fragile e insipiente, che la rende spesso vittima di condizioni di soggezione penosa, bisognosa di conforto e sostegno. In tale contesto spetta alle bambine e alle ragazzine il compito di prendere in mano la situazione per gestirla con maggiore assennatezza e disincanto rispetto alle signore e signorine più attempate. Così è per Sophie: la bambinaia francese della Pitzorno ha la freschezza e l’intraprendenza della prima giovinezza e, insieme, il piglio dell’ironia consapevole, ma non cede a inquietudini tormentose; non partecipa della sensualità ora appassionata, ora turbata e morbosa delle tante governanti di tradizione anglosassone, ai cui occhi il mondo dell’infanzia appare distante, persino incomprensibile e ostile (basti pensare non solo alla Bronte ma anche a Katherine Mansfield o a Henry James). D’altronde Sophie non è neppure una Mary Poppins, vicina all’incanto magico del mondo infantile ma intenta a far prevalere un’autorevolezza adulta, sia pur di segno opposto rispetto a quella tradizionale. Sophie ricerca la complicità dei giovani lettori perché è una bambinaia poco più che bambina, interessata più alle relazioni amicali con i coetanei che ai turbamenti dell’eros. Non li esclude ma li proietta in un futuro ancora lontano, fuori dalla storia, in cui l’amico Toussaint potrebbe anche essere preso in considerazione come partner possibile.