«Questo è il suo primo romanzo»

L’esordio letterario non qualifica più lo scatto iniziale di un processo formativo: si limita a identificare l’opera di chi prima non è stato mai scrittore. Il criterio della “novità” si carica di valenze positive: venuta meno la minaccia del nome sconosciuto, proprio quell’essere ignoto postula una promessa che finalmente potrà essere mantenuta. In effetti, quanti più esordienti ci sono tanto più è possibile che uno di loro possa diventare qualcosa che non è più esattamente il “caso” ma un exploit per molti versi preparato. Spetta all’editore scegliere chi abbia le condizioni per non fermarsi al primo libro.
 
È una formula nota: «Questo è il suo primo romanzo». Compare in quarta di copertina e di solito chiude le righe che l’editore dedica alla biografia dell’autore. Con quella formula il lettore sa che è di fronte a un esordiente. Che sia detto esordiente un sedicenne implume, un maturo professore di biologia, un professionista, un alpinista, un cantante, non importa. Il vero “segno” è quella formula che sospende l’identità primaria per prepararne un’altra che forse sarà sostitutiva o non lo sarà ma per l’intanto sigla il cosiddetto esordio letterario. Va detto: la formula non è nuova, ma in anni recenti è diventata molto familiare.
L’“esordio letterario”. In un breve saggio pubblicato su «La Rivista dei Libri» (La metamorfosi del giovane autore, maggio 2002, che a sua volta prendeva le mosse dall’utilissimo volume Altre storie, a cura di Raffaele Cardone, Franco Galato e Fulvio Panzeri) cercavo di mettere a fuoco una tendenza che a partire dai tardi anni settanta a tutti i novanta del secolo scorso ha visto crescere con una rilevante progressione il numero di esordi letterari nazionali. Quella tendenza è diventata ancora più marcata negli anni seguenti. Siamo dunque di fronte a uno spostamento quantitativo che da una parte ha modificato e continua a modificare pesi e misure degli investimenti dell’industria culturale italiana e che dall’altra ha prodotto interventi, riflessioni, modalità originali di intendere la scrittura, attivando interessanti cortocircuiti che finiscono con l’agire anche sul management delle case editrici. Non mi preme stabilire qui quanta buona o quanta cattiva letteratura questo incremento abbia prodotto negli ultimi trent’anni ma se effettivamente – come credo – possegga una originalità che tocca trasversalmente autori, editori e persino i lettori.
 
L’annus mirabilis 1994
Fra il 1978 e il 1986 si contano una cinquantina di esordi, nei sei anni successivi arrivano a una sessantina, ma nel solo 1994 si contano cinquanta nuovi autori (è l’anno, per intenderci, di Ammaniti, Bettin, Brizzi, Brolli, Carlotto, Culicchia, Di Lascia, Di Stefano, Evangelisti, Mazzantini, Siti), nel 1995 gli esordi superano i sessanta (fra questi: Barbero, Carpi, Covacich, Galliazzo, Mazzuccato, Nata, Nesi, Santacroce, Teobaldi), e lo stesso vale per l’anno successivo (ne rammentiamo alcuni: Andrea De Marchi, Fusini, Magagnoli, Mazzucco, Nove, Piccolo, Scarpa, Tozzi, Zocchi). Il 1994 è anche l’anno in cui Andrea Camilleri pubblica La forma dell’acqua, il primo romanzo della serie dedicata a Montalbano: quantunque non si tratti certo di un esordio (quello vero risale al 1978), nel giro di pochi anni Camilleri guadagna un’attenzione che le sue opere non avevano prima mai avuto, imprimendo una accelerazione imprevista alla letteratura di genere e a quella che è stata chiamata la “rinascita del giallo italiano” (vogliamo aggiungere che sempre nello stesso anno esce il primo romanzo di Massimo Carlotto e la prima edizione di Almost Blue di Carlo Lucarelli presso Granata Press?). Dal 1994 – dunque annata decisiva per il futuro – il gettito editoriale di esordi resta costante. Alto. E posso ritenere, anche senza una stima precisa, che fra il 2002 e il 2005 ci sia stato un ulteriore incremento. Va da sé, ma questo è un altro discorso, che alla massiccia immissione non corrisponde – né può corrispondere – una tenuta altrettanto forte dei nuovi nomi. Questa caratteristica (la disparità numerica fra emersi che possono garantire e garantirsi continuità e sommersi) spicca con più nettezza negli anni seguenti senza tuttavia toccare o modificare il trend.
Contraddicendo un patetico adagio (che taluni gazzettieri non smettono di utilizzare) secondo il quale i “giovani” non riuscirebbero ad arrivare alle case editrici e a farsi pubblicare, gli ultimi venticinque anni di vita editoriale italiana hanno visto non solo la nascita della categoria del “giovane autore” e, più avanti, del “giovanissimo”, ma anche l’apertura della categoria anagrafica in un’altra più ampia, e indifferenziata. Vale a dire che l’esordio letterario non qualifica più lo scatto iniziale di un processo formativo: si limita a identificare l’opera di un autore che prima (per età o per scelta, non importa) non è stato mai scrittore di romanzi.
E il criterio della “novità” a dettare legge. Una novità che permea il prodotto e lo accompagna “fuori”, nel piccolo mondo del mercato del libro che tuttavia gioca a essere vasto e potenzialmente accogliente come tutti i mercati. Vien meno insomma la minaccia del nome ignoto («Chi è mai costui?»), ed è invece proprio quell’essere ignoto che si carica di valenze positive, che postula una promessa che finalmente potrà essere mantenuta.
Da qui alla sequenza di autori che – nella logica promozionale, certo, ma ormai anche in quella critica – finalmente “sono” portatori di valore o di novità, il passo è breve. La potenzialità di successo suona direttamente proporzionale alla crescita esponenziale di nomi che appaiono per la prima volta: quanti più esordienti ci sono tanto più è possibile che uno di loro possa diventare qualcosa che non è più esattamente il “caso” ma un exploit per molti versi preparato e annunciato. Non c’è nessuna facile ironia in quanto detto fin qui. L’esordio letterario è indubbiamente un aspetto saliente del nuovo millennio, e chi lavora nell’editoria non può che misurarne l’incidenza, registrarne la fisionomia e farci i conti (che sono, va detto, conti economici).
 
Giovani ma non solo
Il fenomeno ha per altro, si accennava sopra, una storia. Una storia che per comodità è bene far cominciare fra il 1980 e il 1983 quando esplode il successo di Il nome della rosa di Umberto Eco (1980), quando escono Altri libertini di PierVittorio Tondelli (1980), Boccalone di Enrico Palandri (1979), Casa di nessuno di Claudio Piersanti (1981), Treno di panna di Andrea De Carlo (1981), Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice (1983) e Bar Sport di Stefano Benni (1983). Si sommi a questi titoli di absolute beginners la sorprendente performance di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino (1979) che rappresenta una svolta significativa per molti versi destinata – proprio grazie alla postmoderna messa in scena della interdipendenza fra autore e lettore e alla legittimazione implicita dell’infingimento letterario – a chiudere una lunga stagione di giovane sordità nei confronti della narrativa. Dai nomi e dai titoli sopra citati si indovina tutto lo sviluppo successivo: si cheta l’eredità degli sperimentalismi anni sessanta, si attivano contaminazioni generose con altre forme espressive (il rock internazionale e il cinema, soprattutto) e si sciolgono le riserve “politiche” sulla scrittura (Porcicon le ali erastato nel 1976 l’ultimo segno, per altro clamoroso, di scrittura giocata all’interno di un vincolo referenziale fortissimo tuttavia pronto a diventare un “varco” aperto oltre il politico, un lasciapassare dai fittizi Rocco e Antonia agli autori Lidia Ravera e Marco Lombardo-Radice). Già allora riconosciamo la narrativa gergale di formazione, molto centrata sull’io, molto “parlata”, molto generazionale, il gusto del racconto, il pedale comico-satirico, e, attraverso Eco, l’attenzione all’architettura della narrazione e all’intrattenimento. Basterebbero alcuni esordi del decennio che segue per avere una più netta percezione dello sviluppo e dell’articolazione di quelle linee tendenziali: Busi (1986), Cavazzoni, La Spina (1987), Lodoli, Veronesi (1988), Albinati, Cardella, De Luca, Maggiani, Mari, Starnone, Tamaro (1989), Carraro, Doninelli, Lucarelli, Voltolini, Abate (1990), Ballestra, Baricco, Lanzetta, Onori, Valerio Massimo Manfredi (1991), Campo, Covito, Cesare De Marchi, Ferrante, Franchini, Picca (1992), Bosio, Carbone, Moresco, Mozzi, Romagnoli, Vallorani (1993). Con lo scatto, davvero impressionante, del 1994, va da sé che non siamo soltanto di fronte a una ripresa – variamente notata – della narrativa italiana, ma a un fenomeno, ancora parzialmente informe, che finisce con l’avere un peso sulla fisionomia stessa dell’editoria nazionale. Dopo Il nome della rosa che occupa le classifiche di vendita per almeno quattro anni, per i veri nuovi exploit di mercato bisogna attendere proprio i primi anni novanta, con La compagnia dei celestini di Stefano Benni, Oceano mare di Alessandro Baricco, Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro e Il coraggio del pettirosso di Maurizio Maggiani, che non sono opere prime ma appartengono all’ondata recente di nuovi narratori. Vi è tuttavia un giovanissimo autore, Enrico Brizzi, che, attraverso una vicenda editoriale destinata a diventare una modalità operativa diffusa (il passaggio da una piccola a una casa editrice più grande: lo pubblica Transeuropa nel 1994 ma è ripreso un anno più tardi da Baldini e Castoldi), fa del suo Jack Frusciante è uscito dal gruppo un vero e proprio bestseller.
Se Va’ dove ti porta il cuore costituisce il “caso” per eccellenza, per vastità e durata, e insegna quanto sia possibile – e con un accento italianissimo – la risposta alla colonizzazione (talora costosa) della narrativa americana di consumo, Jack Frusciante è la premessa di un mutamento più complesso, già parzialmente in atto, ma destinato a dilagare: attraverso la scuola tondelliana e il lavoro assiduo di un editor-editore come Massimo Canalini il giovane autore è di fatto un “artista” che entra a far parte di un’équipe, riceve suggerimenti e sostegno, viene “preparato”, non diversamente da quanto è sempre accaduto nel mondo della musica, mondo che però, attraverso la mitologia rock, è diventato familiare fornendo modelli comportamentali e strategie (l’immagine, la gestualità e la voce riletti alla luce della scrittura, le formule di esibizione, il rapporto fra seduzione e provocazione). In questa prospettiva è più comprensibile o più decrittabile nel 1996 il fenomeno dei “cannibali”, che, nella sua pur breve durata, ha mostrato quanto il “giovane autore” in gestazione era pronto ad affrancarsi dai vincoli “protettivi” dell’editore, a “giocare” in autonomia il proprio ruolo, a usare il linguaggio dei nuovi media, a entrare e uscire da maschere intelligenti per lo più autoriferite (attraverso un uso non passivo del giornalismo e della tv), a muoversi con sicurezza e competenza nelle trattative o a motivare (addirittura a generare) nuovi agenti letterari, agili e aggressivi. A dieci anni di distanza è molto più evidente di allora che quel giovane autore non opera di fatto una vera e propria rottura con il passato (si direbbe che non rinunci a nulla, neppure all’eredità dell’intellettuale-scrittore politicamente schierato) ma si appropria (o cerca di appropriarsi) del presente, di tutti gli strumenti che il presente (non solo tecnologico) gli mette a disposizione. E in questo senso lui, più della sua opera, il vero distillato della postmodernità. Anche quando non ha il supporto di consulenti specializzati (ma il gioco di rapporti, amicizie e alleanze taglia trasversalmente mondi contigui come la moda, la musica, la produzione televisiva e cinematografica) sembra esibire (e chiedere) una strategia. E vorrebbe essere studiata in un contesto siffatto – ma isolata – una figura come Alessandro Baricco, alla cui sfaccettata avventura culturale autori ed editori si sono – palesemente o meno, non importa – ispirati per riprodurre una modalità di cui si è colto purtroppo solo l’evidenza del successo durevole e non la maglia di implicazioni, il respiro, l’articolazione. Una modalità che è riuscita a coniugare con una contemporaneità sempre più marcata la moltiplicazione e diversificazione di un “gesto letterario” non confinato alla pagina ma agito, attraverso tv e collaborazioni giornalistiche, teatro e scuole di scrittura, per aggregazioni successive alternate alla progressiva redifinizione della propria identità di solista, fino al rotondo progetto editoriale che dal 2005 sembra assemblare in Fandango tutte le esperienze precedenti e aggiungere il cinema. Senza Baricco è oggettivamente difficile valutare le trasformazioni degli ultimi vent’anni.
La stessa fisionomia dell’esordio giovane si sposta – anche grazie al suo modello – dalla “scuola” tondelliana, generosamente scomposta, gergale, generazionale a un’altra più “professionale”, “internazionale”, anagraficamente più trasversale.
 
Esiste una politica degli esordi?
Va da sé che la schiera di giovani autori non è compatta: le raffinate strategie delle personalità di punta devono fare i conti con approcci alla scrittura (e alla pubblicazione) che restano in buona sostanza quelli di sempre. Quello che cambia davvero è la politica (o, comunque, la considerazione) degli esordi. Se infatti da una parte gli editori cercano di tradurre in programmi, lanci, collaborazioni, intese non stagionali, il rapporto con scrittori che sembrano sempre sul punto di svincolarsi e di non accettare l’identificazione autore-sigla editoriale, dall’altra l’offerta in costante aumento permette di attingere nell’inedito con più libertà, di costruire di più, di rischiare di più, e addirittura di sperimentare a tutto raggio sia sul versante della qualità letteraria che sull’intrattenimento, producendo talora generose ibridazioni.
E in questo passaggio che la metamorfosi del giovane autore in esordio si compie definitivamente portando a maturazione quegli aspetti anticipati nei primissimi anni ottanta e ribaditi dallo scatto quantitativo del 1994. E interessante notare anche come l’assetto dell’editoria nazionale viene progressivamente adeguandosi a questo sensibile cambiamento. L’esperienza pressoché unica della anconitana Transeuropa (fondata nel 1987) si moltiplica nel giro di una dozzina d’anni in un mosaico di piccole (ma spesso le dimensioni sono legate a una identità regionale) o piccolissime case editrici che in qualche modo filtrano la produzione narrativa italiana offrendo alle medie e grandi casi editrici un ampio bacino di valutazione e acquisizione o addirittura ad esse vendendo anticipatamente la funzione di scouting. Fra le molte ricordiamo peQuod di Ancona, minimum fax, Quiritta, DeriveApprodi, Robin Edizioni e Cooper di Roma, Il maestrale di Nuoro, Marcos y Marcos, Sironi, Addiction e Alacràn di Milano, Le Lettere e Cadmo di Firenze, Meridiano Zero di Padova, Avagliano, Cronopio e L’ancora del Mediterraneo di Napoli, Fernandel di Ravenna, Giano di Varese, Edizioni Pendragon di Bologna, Piero Manni di Lecce, Besa di Nardo, nuovi equilibri di Viterbo, Foschi Editore di Forlì, diabasis di Reggio Emilia. Alcune, non citate in questo elenco, non sono più piccole (nella fattispecie: e/o e Fazi di Roma, entrambe fortemente segnate da esordi italiani – fra gli altri Ferrante, Carlotto, Melissa P. – e da una blindata continuità di politica d’autore). Altre non esistono più come Camunia, Tranchida, Granata Press e soprattutto Theoria, la cui esperienza tuttavia è rifluita tutta (insieme a Paolo Repetti e Severino Cesari che l’avevano avviata) nell’avventura di «Stile libero» Einaudi che alla “movimentazione” degli esordi e dei “giovani autori” ha dato un contributo aggressivo e originale. E ancora: Castelvecchi rifluita parte in Cooper e parte in Quiritta (per l’apporto di Emanuele Trevi e Arnaldo Colasanti, già consulenti di Elido Fazi).
Al di là di una netta percezione di sviluppo del fenomeno dell’esordiente, bisogna anche dire che l’estensione quantitativa non prescinde dall’individuazione e dalla costruzione di punte, vale a dire di opere e autori sui quali un editore investe per intrinseca qualità presunta (le potenzialità dell’opera traducibili in comunicazione), per esplicita forza mediatica dell’autore (la popolarità pregressa dell’esordiente in altro settore: politica, giornalismo, spettacolo ecc.) o per implicita forza mediatica dell’autore (la particolarità del personaggio-scrittore: comunicatore orale, professore universitario, meteorologo ecc.).
 
Non più “casi” ma punte
Si pensi alla sostanziale differenza che esiste tra il macroscopico successo di Va’ dove ti porta il cuore, che è compreso ancora nell’area del “caso” (in qualche modo regressivo rispetto all’affermazione di una dozzina d’anni prima di Umberto Eco con Il nome della rosa), e le performance di Q di Luther Blisset (1999, ma il gruppo era invero già presente nel catalogo Castelvecchi), La mennulara di Simonetta Agnello Hornby (2002), di Io uccido di Giorgio Faletti (2002), 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire di Melissa P. (2003), L’elenco telefonico di Atlantide di Tullio Avoledo (2002), Non ti muovere di Margaret Mazzantini (2003) e Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno (2005).
La logica del “caso letterario” subisce una sorta di accelerazione e di spostamento: le ragioni sempre un po’ misteriose che muovono il passaparola sono in qualche modo isolate, anticipate, sollecitate a manifestarsi sia attraverso un lancio pubblicitario che prende le mosse dall’opera (per esempio quello realizzato sul quotidiano «la Repubblica», un teaser tutto fondato sull’aura di mistero che circonda la protagonista del romanzo) sia attraverso le operazioni di appropriazione e pre-canonizzazione che il magazine del «Corriere della Sera» e Antonio D’Orrico mettono in atto con Faletti, Avoledo e Piperno, sia attraverso la più tradizionale – ma non meno efficace – esaltazione dello scandalo che tocca Melissa P. e il suo romanzo, sia attraverso la progressiva messa a fuoco del personaggio autore estremamente caratterizzato (per Mazzantini la documentazione che la stampa dedica all’autrice-attrice, all’autrice-madre, all’autrice-moglie dell’attore e regista che mette in scena il romanzo) o, all’opposto, decaratterizzato (il collettivo di scrittura, l’autore modulare nel caso di Luther Blisset e Wu Ming, dove gioca una singolare contaminazione fra sperimentalismo “di battaglia” e scrittura di intrattenimento). Come si vede, per lo più, l’effetto lancio funziona con absolute beginners (i non esordienti in questa sequenza sono i Luther Blisset e Margaret Mazzantini). Siamo di fronte a uno scambio o incrocio di ruoli. Il critico lavora come un editore: interviene criticamente su copertine e quarte di copertine oppure lavora come un agente o come un supporter, o come hanno sempre fatto i critici d’arte e galleristi con gli artisti assumendo il ruolo di autorevoli e autoritari battipista; oppure, ancora, diventano, incrociando la fisionomia del supporter e quella severa dell’accademico, paladini di autori-vessilli di valori stilistici e critici. D’altro canto l’editore adotta gli strumenti della critica, dando spazio su fascette, cartelli da terra, spazi pubblicitari al superlativo avvalorante che spesso non appartiene all’ambito tradizionale dei recensori accreditati (e dunque cantanti, uomini di spettacolo, politici, o semplici lettori intervenuti in arene informatiche come blog, siti, chat ecc.) o utilizzando formule promozionali che giocano alla canonizzazione, al comparativo positivo, all’avallo qualitativo. Affiora inoltre con chiarezza che la confidenza con la letteratura di genere comincia ormai a produrre una efficace sovrapposizione spingendo verso contaminazioni sempre più profonde ed esibite a fronte di una sempre più forte sollecitazione di “storie”: il romanzo storico e il thriller convivono vicinissimi al romanzo borghese o al romanzo di formazione, la saga familiare al romanzo rosa. Non è una questione di indifferenza: di fatto in questo melting pot dei generi l’elemento determinante è quello della “novità”, di ciò che si impone come nuovo.
Anche il rapporto editoria e cinema vede una maggiore collaborazione, una più consapevole anticipazione di strategie operative (basterebbe citare in tal senso, oltre a Non ti muovere, Io non ho paura di Niccolò Ammaniti e Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia, La bestia nel cuore di Cristina Comencini, Tornando criminale di Giancarlo De Cataldo e I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante). L’industria culturale italiana è diventata capace di produrre bestseller in proprio o, detto un po’ meno drasticamente, ha sviluppato una attenzione non subalterna o intimidita per l’intrattenimento letterario, ha messo in atto strumenti per individuare con più precisione gli umori dei lettori, ha saputo inventare forme non approssimative di comunicazione all’interno delle nuove tecnologie, e, soprattutto, ha imparato a governare gli effetti del “misterioso” passaparola. Che queste “abilità”, non disgiunte dall’esperienza assorbita in ambito internazionale attraverso la fiction anglosassone, abbiano molto a che fare con il “terreno vergine” degli esordi (o più ampiamente con le potenzialità implicite nel talento ignoto o poco noto dello scrittore italiano) è, per molti versi, la vera novità.
 
Chi ha paura del mercato cattivo?
È molto probabile che tanta parte della letteratura pubblicata in questi ultimi floridi trent’anni non sia destinata a “restare”. Il problema per altro non sta lì. Che al numero di esordi in aumento non corrisponda una continuità percentualmente significativa è quasi fisiologico: molti nomi appaiono e scompaiono o restano in standby, essendo comunque ancora e sempre limitato il fronte di assorbimento. D’altro canto è del “giovane autore” saper occupare uno spazio di sopravvivenza (anche quando non è entrato nel mainstream letterario) attivando collaborazioni con cinema e tv, frequentando scuole di scrittura, “vendendo” creatività. L’editore, per contro, ha imparato a “chiedere” finzione narrativa o a rispondere con disponibilità ad artisti o a professionisti che alla scrittura guardano come area seduttivamente complementare al proprio percorso o addirittura in competizione con esso. Non è un caso che tanta parte della musica pop-rock italiana abbia esordito nel racconto o nel romanzo (si tratta quasi di una risposta speculare): con Francesco Guccini, che è fra i primi a rompere le barriere, Roberto Vecchioni, Lorenzo Jovanotti, Luciano Ligabue, Vinicio Capossela. Arriva al romanzo dall’archeologia Valerio Massimo Manfredi, dalla meteorologia Alessio Grosso, dalla critica d’arte Rossana Bossaglia, dagli studi filosofici Sergio Givone e Franco Rella, dalla sceneggiatura cinematografica Umberto Contarello, dalla radio Mario Cavatore, dal teatro Marco Baliani, dal management Sebastiano Nata e dall’avvocatura professata Carofiglio, De Silva, Agnello Hornby, De Cataldo. Gli scrittori-insegnanti (moltissimi, da Domenico Starnone a Paola Mastrocola, da Sandro Onori a Marco Lodoli) lasciano il posto a una compagine sociologicamente più mossa e contaminata.
Si direbbe che “fare lo scrittore” sia locuzione che non rimanda più a un destino, o una Bildung, ma che, insieme a quel percorso, ne contempli altri, paralleli, estemporanei, complementari. E proprio questa identità contaminata (che non è una novità in America o in Francia) che ha contribuito a rendere l’editoria più ricettiva e più spigliata nei confronti delle risorse nazionali. L’istituto della critica, in crisi, è lontano dall’imporre modelli, la scuola sente sbrecciate le mura delle canonizzazioni antologiche, la sociologia della letteratura è diventata patrimonio del lavoro editoriale: ecco dunque il confluire caotico ma benefico di forze dentro una interpretazione non riduttiva della letteratura come produttrice di storie.
Dal «bestseller di qualità» dei primi anni ottanta (sul quale hanno variamente riflettuto Gian Carlo Ferretti e Alberto Cadioli) al «si può fare letteratura oggi, stando nel mercato» che ha visto interrogarsi sulle pagine di «Alias» Andrea Cortellessa, Tiziano Scarpa, Antonio Scurati, Nicola Lagioia, Graziella Pulce, Luca Doninelli e Franco Cordelli, persiste un indeciso malinteso che di volta in volta punisce il “mostro” dell’industria culturale e/o la cedevolezza dell’autore al mostro, senza prendere davvero atto che entrambi sono cambiati e continuano a cambiare, e che hanno cominciato a cambiare in modo più drastico proprio a partire da quegli anni ottanta in cui il fenomeno dell’esordio si è manifestato con singolare nettezza. Anche Raffaele Cardone scriveva nel citato Altre storie: «Il nuovo narratore (esordiente o non affermato) “costa poco”, talmente poco che non è difficile recuperare qualche milione di anticipo. Si spiega forse in questo modo il battage su autori di modeste risorse letterarie. Sotto questo aspetto, la nuova narrativa è un fenomeno editoriale che andrebbe ridimensionato: quel 50% di autori fermi al libro d’esordio, quelle centinaia di titoli che non hanno trovato un pubblico potevano essere evitati». Davvero potevano essere evitati? E siamo solo nel 1996 e Cardone si trova a ragionare nel cuore di quella accelerazione (il 1994 e anni successivi) che poi si è trasformata in una velocità standard. E davvero la buona disposizione nei confronti della narrativa italiana è solo una questione di facile investimento? Il fatto che mettere sotto contratto un esordiente costi poco è ovvio, molto meno ovvio è scegliere chi abbia le condizioni per non fermarsi al primo libro. Meno ovvio ancora è non sbagliare. L’editoria, che come segmento di una ben più ampia “industria culturale”, non è così rozza e inadeguata, sa farlo. Piace vedere l’intelligente staff della minimum fax puntare su una giovane scrittrice napoletana, Valeria Parrella, e vederla arrivare ai lettori con due volumi di racconti. Piace riconoscere a Sironi di Milano il nobile ricupero di un romanzo teologico-resistenziale come La messa dell’uomo disarmato di padre Luisito Bianchi e pubblicarlo. Piace anche vedere che l’Adelphi di Calasso, così cauta con la narrativa italiana contemporanea (eppure anche lì almeno due esordi: Rosa Matteucci e Ferrandino), abbia acquisito uno scrittore sardo, Salvatore Niffoi, già pubblicato da Il Maestrale, assorbendolo nell’aura colta e raffinata della casa editrice e consegnandolo con queste caratteristiche al mercato. Piace sapere che e/o ha studiato per scrittori e lettori giovanissimi una collana dal buffo nome «Bill-Dung-Sroman» e fa esordire il diciassettenne livornese Jacopo Reali. Forse non piace ma è inevitabile che grandi, medi e piccoli editori non possano sottrarsi a una sorta di compulsione imitativa sul piano delle acquisizioni, e che dunque determinino un processo ancora lontano dall’essere esaurito. L’effetto è talora quello di un ingombro eccessivo, di una sovrappolazione o di una sovrapproduzione. La risposta alle preoccupazioni di Raffaele Cardone è, credo, che quell’eccesso sia inevitabile. Le “punte”, i bestseller, non sono la sostanza del fenomeno, sono un aspetto importante. Un aspetto che disegna, per così dire, lo skyline della produzione nazionale ma non cancella ciò che il profilo non registra. E che l’editoria (lo dico dall’interno con tutta la convinzione ma anche con tutte le cautele del caso) sia venuta investendo sempre di più in questo “settore” ha il suo più che ovvio risvolto di mercato, ma l’evidente espansione volumetrica ha acceso un meccanismo complesso, vitale, articolatissimo, di cui non possiamo conoscere tutte le conseguenze né possiamo anticiparle con l’ottimismo del fatturato o con il pessimismo di quanti continuano a celebrare il funerale del romanzo o della cultura occidentale.