La giovane Sicilia

Si può ancora parlare di fedeltà dei narratori siciliani contemporanei alla tradizione? Se nei libri di Camilleri l’immagine stereotipata dei siciliani funziona quanto l’intuizione di un linguaggio fittizio e geneticamente seriale che riusa a scopo ludico gli stilemi della grande narrativa dell’isola, il più alto esempio di fedeltà alla tradizione è rappresentato da Silvana Grasso, scrittrice capace di abbracciarne insieme la gran parte dei valori e delle soluzioni formali. Eppure, la presenza di echi d’autore non basta a compensare l’impressione complessiva di una nuova letteratura siciliana che vuole dialogare con l’Europa e l’America, pur senza rinunciare all’analisi attenta del vissuto isolano. In questo senso, la voce più interessante è quella di Santo Piazzese: i suoi noir metropolitani potrebbero essere ambientati in ogni grande città europea, ma restano intrinsecamente palermitani.
 
«Partivamo quando l’aurora nasceva con un color di rosa fra i fichidindia». E ancora così che può cominciare un romanzo di autore siciliano: si tratta di Il vicolo blu (2003), con il quale il decano dei narratori siciliani, Giuseppe Bonaviri, si ricollega, per suggestioni personaggi ambienti, all’esordio datato 1954, Il sarto della strada lunga. Una dichiarazione di fedeltà a se stesso, dunque, ma anche a una tradizione narrativa siciliana della quale gloriosi esempi otto-novecenteschi hanno disegnato i contorni. Riassumibili all’incirca così: coscienza scontrosa di un’alterità antropologica, che consente allo scrittore di farsi testimone e giudice del passato e dell’oggi; antistoricismo tenace, quasi sempre di matrice materialistica, talvolta proteso all’interrogativo metafisico; proiezione verso la grande cultura europea, che convive agevolmente con la scelta dell’isola e degli isolani come oggetto d’analisi; tentazione frequente del romanzo-cattedrale, affresco sociale o saga familiare, perfino epos reinventato; scrittura che procede sui sentieri sinuosi della prosa lirica e barocca o su quelli, non meno sinuosi, del ragionamento analitico in stile scabro ed essenziale.
Rispetto a questo quadro storico ormai accertato, qual è la situazione degli anni più recenti, diciamo dal 2000 in poi? Si può ancora parlare di fedeltà dei narratori siciliani contemporanei alla tradizione che hanno alle spalle? Contano ancora le “genealogie” Verga-Vittorini-D’Arrigo-Bonaviri-Consolo vs. De Roberto-Pirandello-Borgese-Brancati-Sciascia? Nascono ancora grandi eccentrici o grandi incompresi come, in passato, Tomasi di Lampedusa, Fiore, Bufalino, Samonà? C’è ancora qualcosa in comune tra Bonaviri e Piergiorgio Di Cara, che fa iniziare così il bel romanzo poliziesco L’anima in spalla-. «Stavo ascoltando The Wall, in cuffia. C’era caldo. Un caldo afoso, profondo, africano»?
Ogni ragionamento sulla narrativa siciliana contemporanea deve, a mo’ di premessa, fare i conti con due fatti significativi: il silenzio narrativo di Consolo e il successo commerciale di Camilleri. Il fatto che il più importante scrittore italiano vivente prosegua un’intensa attività pubblicistica ma non scriva un romanzo da più di otto anni, è sì frutto della sua convinzione che la narrativa non possa più restituire un’idea credibile del mondo: ma è anche l’emblema della fine di una tradizione che in questo suo estremo esponente ha cristallizzato la capacità di confrontarsi mitopoieticamente con la storia e la ricerca di un codice linguistico maturo e originale. Il silenzio di Consolo è, insomma, il segno di quell’«estinguersi di un’utopia per più di un secolo opposta all’omologazione» che Antonio Di Grado ha evocato nel titolo del suo ultimo libro saggistico, Finis Siciliae.
D’altra parte, la scrittura di Camilleri – divertente e transitiva, solo apparentemente complessa nella struttura e nel linguaggio – entra in sintonia con un orizzonte d’attesa già omologato a modelli narrativi internazionali (di matrice statunitense, innanzitutto: ma non si trascuri il modello offerto, a ben più alto livello di elaborazione letteraria, da Simenon); in tal senso, l’immagine stereotipata dei siciliani funziona, nei libri di Camilleri, quanto l’intuizione di un linguaggio fittizio e geneticamente seriale. Insomma, i romanzi di Camilleri sono il segnale che la tradizione bisecolare della grande narrativa siciliana è finita e che se ne sta riusando la scorza, a scopo ludico e senza mai accostarsi al suo nocciolo più profondo.
Rispetto a tale prospettiva premiata dal pubblico dei lettori – e anche pensando a un «caso» analogo (ma di scrittura ancor più corriva) come quello dei due bestseller di Simonetta Agnello Hornby -, c’è allora da verificare se di questa nobile tradizione resista qualche barlume e, soprattutto, che cosa stia nascendo di radicalmente o parzialmente nuovo. L’estremo, più alto esempio di fedeltà alla tradizione siciliana è rappresentato da Silvana Grasso: La pupa di zucchero, unico suo romanzo di questi ultimi anni, ha dimostrato una matura capacità di governare una struttura narrativa esemplarmente anacronica e uno stile lussureggiante di invenzioni barocche, approdando a un “espressionismo linguistico” giustamente elogiato da Cesare Segre. E ha rivitalizzato gli echi della saga familiare alla De Roberto, la celebrazione di un’alterità etica che molto deve agli eroi brancatiani e lampedusiani, una scrittura che ha imparato da Bufalino a creare un fecondo cortocircuito tra lessema colto e regionalismo, un’attenzione tutta consoliana alle rimosse tragedie della storia.
Se fedeltà alla tradizione vuol dire capacità di abbracciarne, insieme, la gran parte dei valori e delle soluzioni formali, il caso della Grasso appare unico. In altri scrittori, invece, baluginano le tracce di singole “discendenze”; si pensi al legame di Gaetano Savatteri con Sciascia, anche se La ferita di Vishinskij – rispetto all’esordio acerbo di La congiura dei loquaci – indica una rielaborazione più matura e personale del modello dell’inchiesta storica romanzata; è invece allo Sciascia del Consiglio d’Egitto, all’innesto del romanzo d’idee nella forma del romanzo storico, che ha guardato Silvana La Spina in La creata Antonia, con esiti però incerti fra un eccesso di scrupolo documentario e la ricerca di una scrittura più libera dal dato referenziale; è invece allo stile iperletterario di Consolo e alla sua peculiare destrutturazione del romanzo storico, che s’è ispirato Pino Di Silvestro, importante incisore e autore di un solo romanzo, La fuga, la sosta, dedicato alla permanenza di Caravaggio a Siracusa.
Il discorso si fa più interessante quando la lezione di un grande scrittore siciliano si mescola ad altre, meno prevedibili, influenze: è il caso dell’unico ma importante romanzo del biologo catanese Marco Vespa, La maniera dell’eroe, nel quale temi, atmosfere e caratteri tipicamente brancatiani vengono rivitalizzati da una sensibilità parodistica che dimostra un’assimilazione modernissima di Parini e Gozzano ma soprattutto di Arbasino, fra minuzioso esercizio di decodifica semiologica e costruzione di un’ammiccante colloquialità tra narratore e lettore, sviluppata alle spalle del personaggio narrato.
Notevole, poi, che alcuni tra i tanti narratori palermitani dimostrino di aver metabolizzato il rovello psicologico e la scontrosa torsione stilistica di un isolato grande e misconosciuto come Angelo Fiore, sia pure miscelandola con le più diverse influenze: Poe e Dostoevskij, Gadda e Beckett, Camus e il concittadino Samonà. Si disegna, insomma, uno spazio originale nel quale un fantastico assai temperato trapassa in grottesco per approdare così a uno straniato iperrealismo.
Domenico Conoscenti è forse il più dotato tra questi scrittori: tace però da tempo, avendo fatto seguire solo un libro di versi e qualche racconto sparso a quel memorabile esordio, tra dostoevskijano e pirandelliano, che fu La stanza dei lumini rossi (1997). Appena meno magra la produzione di Giosuè Calaciura, funambolo del monologo ad accumulazione nell’esordio eccellente di Malacarne e nel più recente Sgobbo, altra buona prova delle sue capacità mimetico-visionarie. Più abbondante, ma discontinua, è invece l’opera di Fulvio Abbate, che negli ultimi anni, dopo un caotico pseudoreportage sulla morte di Mauro De Mauro (Il rosa e il nero), ha pubblicato il più robusto romanzo Teledurruti, ambientato a Roma ma capace di rinverdire i fasti eroicomici (parola di Massimo Onofri) del lontano esordio, Zero maggio a Palermo.
Raccontando la vicenda di una televisione privata significativamente intitolata a un eroe anarchico, Abbate fa emergere una dimensione politica che non sempre è così esplicita nella narrativa siciliana di oggi. Essa può arrivare al lettore sotto forma di apologo, come in Ballata triste della città dei topi di Marcello Benfante, un racconto dallo stile nitido e classicheggiante, da far pensare alle Favole della dittatura del giovane Sciascia. Invece nei racconti di Maurizio Padovano (autore di Il bisarchista, alcuni anni dopo Mosaico siciliano) l’indignazione civile si traduce in un linguaggio fluido e moderno, capace di eleganti impennate di stile, sempre giustificate da una forte tensione conoscitiva o dall’aggancio alle ferite aperte della società italiana.
Ma il libro più intrinsecamente politico, e uno tra i più belli in assoluto, che sia stato pubblicato in questi ultimi anni è Romanzo civile, un memoriale che però, per ampiezza di visuale e capacità di trasformare una vicenda individuale in efficace allegoria di un’epoca e di una società, può agevolmente essere considerato un romanzo: lo scrisse nel 1983 la giornalista Giuliana Saladino ma ha visto la luce, postumo, solo nel 2000. Vi troviamo, al di là della storia di una «alta educazione alla vita che ora, capivo, ci serviva soprattutto alla morte», talune considerazioni aforistiche utili a ricordarci, per esempio, che «tutti volevano pane e lavoro, tutti ebbero pane prosciutto auto e seconde case, ma non certo e non solo per merito nostro, bensì a costo individuale e sociale altissimo, oserei dire a prezzo della Sicilia, del suo caracollante disordinato sviluppo nel sottosviluppo».
L’originaria attività giornalistica di molti scrittori siciliani contemporanei (Abbate, Savatteri, Alajmo, Di Stefano, Cacciatore, Riotta) ha sicuramente contribuito ad aprire al registro parlato un linguaggio che la tradizione letteraria isolana voleva spesso incline alla letterarietà, se non all’iperletterarietà di D’Arrigo, Bufalino, Consolo. Di una scrittura non iperletteraria ma elegante, precisa e limpidissima si fregiano invece le ricostruzioni storicosaggistiche a elevato tasso di narratività che Giuseppe Caronna e Fiammetta Basile hanno dedicato a Paul-Louis Courier e Sofonisba Anguissola, l’uno premettendo una lunga introduzione alla più recente ristampa dei Pamphlets, l’altra scrivendo, con Le rughe di Sofonisba, un’esemplare biografia intellettuale.
Nella narrativa degli ultimissimi anni, il gran tema siciliano della famiglia è stato affrontato in modo accurato e narrativamente avvincente in alcuni che dimostrano quanto nella Sicilia di oggi il familismo amorale resista, legandosi con le strutture socio-antropologiche più conservative e intrinsecamente mafiose. Mi riferisco a La pupa di zucchero e al complesso Putti contenti del siculoticinese Paolo Di Stefano, il quale fa compiere al suo smemorato protagonista un viaggio a ritroso nel tempo dell’infanzia isolana, alla ricerca di atroci traumi familiari e delle conseguenti rimozioni che ne segnarono la gioventù. E mi riferisco anche all’esilarante analisi dell’asfissiante ruolo matriarcale presente in ben quattro notevoli romanzi: il citato libro di Vespa, e poi Estate di San Scartino di Valentina Gebbia, L’uomo di spalle di Giacomo Cacciatore e Cuore di madre di Roberto Alajmo, tre romanzi d’impianto noir (lo è anche l’ultimo di Alajmo, È stato il figlio, nel quale però è non la madre, ma la famiglia intera a configurarsi umoristicamente come universo orrendo).
Se Valentina Gebbia ha saputo creare la più esilarante coppia di detective dilettanti che la letteratura poliziesca italiana conosca, facendo sapiente scialo di regionalismi italianizzati (un tratto linguistico di cui fa largo uso anche Alajmo e, più di rado, Santo Piazzese) che screziano una scrittura svelta ma non priva di intensa malinconia, il dittico romanzesco di Alajmo ha segnato una svolta in una carriera che aveva finora alternato la misura breve del racconto a più o meno convincenti esperimenti di contaminazione tra inchiesta, lacerto testimoniale e spunti di fiction. Il dialogato sorvegliatissimo e il dosaggio ben calibrato di elementi tragici e comici dimostrano quanto Alajmo padroneggi i ferri del mestiere: rispetto a Cuore di madre, È stato il figlio ne ha evidenziato la capacità di uscire dalla dimensione del Kammerspiel per allargare lo sguardo a una realtà più complessa, nella quale la follia che cova nel nucleo familiare interagisce con un contesto sociale non meno alienato, dove il potere della mafia è vissuto dai personaggi come inestirpabile. C’è ora da augurarsi che questo narratore di consumata perizia, che a Carlo Frutterò pare «l’unico scrittore spietato attualmente attivo in Italia», non si limiti a sfruttare quello che potrebbe facilmente diventare un filone.
Non sembra correre questo pericolo Giacomo Cacciatore, a giudicare da L’uomo di spalle, fulminante, recentissimo primo romanzo: si tratta di una vicenda che va ben oltre i confini della narrativa di genere, della quale anzi potrebbe persino risultare una raffinata parodia, se poi non prevalesse nell’autore l’urgenza di dare uno sfogo (e persino una conclusione positiva) al groviglio edipico su cui l’intreccio si regge. La madre assassina non ha qui la freddezza “professionale” della sua collega di Cuore di madre’, e il viluppo che la tiene legata al figlio è più inestricabile perché affonda le sue radici in un passato più torbido, tanto che la tragicomica liberazione del protagonista si dispiega in un finale da degradata tragedia.
Con questi scrittori siamo, dunque, ben oltre la tradizione letteraria siciliana. Echi piuttosto vaghi di un singolo autore o riprese di qualche topos fortunato non bastano a compensare un’immagine complessiva già tipica di una letteratura che vuole dialogare con l’Europa o con l’America contemporanee più che col passato isolano. Ma che non rinuncia all’analisi attenta del vissuto siciliano.
In tal senso, la voce in assoluto più interessante è quella di Santo Piazzese, autore, tra il 1996 e il 2002, di tre fortunati romanzi che, dietro la veste del noir metropolitano, hanno fornito una credibilissima rappresentazione delle trasformazioni in atto nella realtà palermitana. Piazzese ha utilizzato una formazione letteraria di marca anglosassone per acquisire una padronanza assoluta dei meccanismi dell’intreccio e una notevole capacità di pudico approfondimento psicologico: ed è riuscito nella difficile operazione di scrivere romanzi che potrebbero essere ambientati in ogni grande città europea ma che, tuttavia, sono intrinsecamente palermitani, per l’amore con cui luoghi e persone sono ritratti e per la perizia con cui la mafia e il sentire mafioso sono rappresentati come costitutivi di un contesto e di un momento storico. Ciò non implica, nell’autore, rassegnazione o fatalismo, ché anzi certi meccanismi del potere economico della mafia sono descritti con precisione ed efficacia: sempre nel segno under statement, la vera cifra stilistica di uno scrittore che, come ha dimostrato il più recente Il soffio della valanga, ha raggiunto un equilibrio mirabile tra pietas e umorismo nella rappresentazione di tragedie personali ma emblematiche di un’intera società, laddove i due primi romanzi privilegiavano piuttosto la prospettiva individuale del personaggio narratore. E l’omaggio sommesso che Piazzese tributa, nel terzo romanzo, a Sciascia dimostra che il profilo di un moderno scrittore siciliano può implicare il sereno riconoscimento del valore civile di un’eredità letteraria, pur nel superamento di qualunque “angoscia dell’influenza”.
S’è visto quanto la vena grottesca sia fruttuosa nei siciliani d’oggi. E una forma molto stilizzata e un po’ glaciale di grottesco nutre anche la vena degli scrittori che si sono raccolti intorno alla rivista palermitana «Per Approssimazione», poi casa editrice Perap. Gaetano Testa e Francesco Gambaro hanno autoprodotto, in questi anni, degli smilzi referti diaristico-aforistici, dove la nota di cronaca si fonde alla riflessione morale, ma il più interessante del “gruppo” di Perap mi sembra Sergio Toscano, soprattutto per l’ironia sottile che nutre Il museo degli oggetti, referto del fallimento di un progetto ossessivo: catalogare on line tutti gli oggetti presenti nella vita umana del ventesimo secolo.
Di tutt’altra temperatura l’esordio romanzesco di Salvatore Mugno, Opere terminali, diario aforistico e provocatorio di un personaggio che, mentre, si confronta con un amico malato terminale di Aids, scrive: «ecco, questo sì, mi piacerebbe essere “la vergogna della letteratura”». Mugno si è poi dedicato a più o meno romanzate biografie di alcuni personaggi che hanno agito nella sua provincia trapanese, con esiti di indignato e commovente rigore nel recentissimo Mecca maledetta.
Nulla di siciliano c’è, invece, nei libri di Evelina Santangelo: dai notevoli, allucinati racconti di L’occhio cieco del mondo ai due romanzi La lucertola color smeraldo e Il giorno degli orsi volanti, l’autrice ha costruito un ormai riconoscibile universo creativo – tra Fellini e Kafka, Bruegel e Chagall – alquanto sganciato dall’osservazione del reale e teso piuttosto alla costruzione di forme fantastiche di solidarietà e pietas, nel gran dolore del mondo. La Sant angelo è scrittrice molto interessante, anche se la sua scrittura non è immune, qua e là, da un certo volontarismo manieristico. Caratteristica ancor più evidente in Vanessa Ambrosecchio, un’altra scrittrice che è palermitana solo per nascita, almeno a giudicare dal suo primo, curioso romanzo, Cico c’è, storia di una gravidanza isterica non a caso ambientata nell’amniotica Venezia.
La Santangelo ha quarant’anni, l’Ambrosecchio trentacinque; questa carrellata termina però nel nome dell’ancor più giovane, Lorenzo Vecchio, scomparso a soli ventitré anni, avendo fatto in tempo a pubblicare un promettentissimo romanzo breve, Mia madre non chiude mai, che ne ha dimostrato la raffinatezza stilistica e l’asciutta capacità di scavo psicologico, ma che soprattutto risulta emblematico referto di un immaginario giovanile siciliano che guarda, come quello dei coetanei di tutt’Italia, a una cultura internazionale più ancora che italiana, e in cui l’America di Carver e la Francia di Rohmer prendono per mano le incertezze di un’adolescenza prolungata e provano a condurla sulle difficili strade di un mondo che si vorrebbe senza più frontiere.