I delitti veri

Sempre più spesso abbiamo visto nelle classifiche dei libri apparire volumi che potremmo catalogare sotto le voci “misteri d’Italia”, “crimini irrisolti” o – per usare una definizione made in Usa – “True Crime”. Quale è la natura di questo genere saggistico, che negli ultimi anni ha segnato alcuni grandi successi in libreria e che annovera tra le sue file un numero crescente di autori, da Carlo Lucarelli a Giancarlo De Cataldo? Che cosa accomuna una varietà di contenuti e di prodotti mediali che va dalla storia della catastrofe del Vajont alla ricostruzione, con dvd allegato, dei grandi delitti di mafia?
 
Nel curare i due volumi pubblicati dagli «Oscar Mondadori» degli scritti di “nera” che Dino Buzzati è andato via via componendo durante la sua lunga permanenza al «Corriere della Sera», Lorenzo Viganò ha giustamente pensato di dividerli in due macrocategorie. I “crimini” e gli “incubi”. I primi sono, potremmo dire, tutti i pezzi di cronaca che il grande scrittore milanese ha dedicato alla cronaca nera in senso stretto e, in parte, all’omicidio politico: vale a dire, il racconto, prodotto in un tempo immediatamente futuro rispetto all’accadimento, di un delitto in cui, genericamente, uno o più esseri umani hanno determinato la morte di un altro o più individui. Si va allora dal caso Rina Fort all’omicidio Kennedy; dal racconto dell’omicidio compiuto da Maria Pia Bellentani all’attentato di piazza Fontana ecc. I secondi, invece, includono tutte quelle che, comunemente, chiameremmo le “tragedie”. I casi di cui la vulgata vuole non esistano responsabili diretti: la tracimazione della diga del Vajont, la caduta dell’aereo che trasportava l’intera squadra del Torino su Superga, la tragedia di Albenga e altre drammatiche storie di questa natura.
Buzzati, in queste cronache, compiva in maniera esemplare il suo lavoro di giornalista. Si recava sul luogo del fatto o fattaccio e ne offriva un quadro, spesso personalissimo, al lettore del «Corriere», lasciando in eredità una serie di ritratti ambientali che vanno ben aldilà del mero contributo al resoconto quotidiano degli accadimenti del mondo. E probabile che mai avrebbe potuto pensare di venire un giorno associato, in una curiosa operazione di rilettura culturale, a quello che è un vero e proprio genere editoriale nascente: quello che viene di solito catalogato sotto l’espressione “misteri d’Italia”. Perché forse più che Buzzati, chi portò a termine una serie di opere che certo si possono collocare in un progetto culturale del «delitto realmente accaduto» che si iscriva in una lettura storicizzata del fatto criminoso all’interno di un clima politico, sociale e culturale, fu Leonardo Sciascia. Lo scrittore siciliano, come è noto, accompagnò tutta la sua produzione narrativa con una serie di opere (da Il teatro della memoria a L’affaire Moro, per citare solo qualche titolo noto) il cui centro è la ricostruzione di un evento criminale, dai contorni, per i motivi più vari, misteriosi e ancora in attesa di un approfondimento che faccia luce sui suoi nodi più reconditi e nel quale un momento della storia del paese o di una cultura trova la sua verità.
Delitti realmente compiuti oppure grandi tragedie o presunte tali. Ma anche pezzi di storia del paese, fenomeni singolari e spesso facilmente circoscrivibili, la cui interpretazione, secondo chi li ripercorre, si è troppo rapidamente cristallizzata. Il riferimento all’opera giornalistica di Buzzati e al saggismo romanzato di Sciascia può essere utile per chi cercasse qualche ascendente nobile a un fenomeno editoriale contemporaneo, ma soprattutto lo è al fine di isolare alcuni grandi filoni in cui i “misteri d’Italia” sembrano, dal momento della loro riemersione negli interessi culturali del nostro paese, da subito essersi articolati. Quello che mi sembra assolutamente certo, invece, è che il loro padre nell’Italia stampata a noi più vicina è Carlo Lucarelli.
Lucarelli, già noto al pubblico come giallista, nella seconda metà degli anni novanta raggiunge un buon livello di popolarità grazie al mezzo televisivo. Le serie per la televisione che nel corso degli ultimi sei anni ha curato e condotto, da Misteri in blu a Blu notte, Misteri d’Italia, hanno generato e dato impulso a una produzione libraria sia firmata da Lucarelli medesimo sia da altri autori sulla scia dei primi successi. Già quattro sono i titoli del giallista di Imola che Einaudi ha mandato in libreria: Mistero in blu, Misteri d’Italia, Nuovi misteri d’Italia e La mattanza. Tutti largamente premiati dal pubblico dei lettori, laddove non è per nulla scontato che il derivato librario di una trasmissione, seppure di grande successo, si traduca in un consenso altrettanto ampio tra gli acquirenti delle librerie.
Al di là di ogni dubbio, il mezzo televisivo ha giocato la sua parte. Ma Lucarelli non è certo il primo che abbia proposto sugli schermi nazionali ricostruzioni di “casi irrisolti”. Già in epoca recente lo ha fatto, e con enorme successo, Corrado Augias, con trasmissioni come Telefono giallo. Ma ci sembra chiaro che la sua proposta per il piccolo schermo non ha dato impulso a un genere librario. (I suoi grandi bestseller di saggistica sono incentrati, prima che sul mistero, su un luogo preciso, una città, alla cui scoperta l’autore parte per svelarne al pubblico i lati più segreti e nascosti. I segreti di Parigi e poi I segreti di New York e I segreti di Londra non hanno certo trovato il loro perno seriale nel delitto, ma più propriamente nel dato geografico.) E pure lo ha fatto Cinzia Tani, con titoli come Coppie assassine o Assassine o Nero di Londra. Sembra certo che nessuno di essi ha dato impulso a un genere editoriale, come è avvenuto invece nel caso di Lucarelli. Attorno a lui, in una sorta di fratellanza centrata, prima ancora che sul “delitto vero”, sul giallo e sulla passione per esso, si raccoglie una intera generazione di scrittori, che ha fatto del noir l’orizzonte ricorrente della propria ispirazione narrativa e che spesso punta decisamente alla ricostruzione del fatto criminale realmente accaduto per alimentare il romanzesco o per uscirne del tutto, orientati allo svelamento del mistero nazionale, dovunque esso si annidi. Si pensi in primo luogo al caso di un giallista come Giancarlo De Cataldo, autore di Romanzo criminale, ricostruzione romanzesca delle avventure della banda della Magliana, pur senza mai rivelarlo apertamente, ma in modo così scoperto che Lucarelli stesso, nel momento in cui racconta le vicende della stessa organizzazione criminale per la sua serie televisiva, si trova a utilizzare il testo di De Cataldo come documento di riferimento principale.
Ma non sono solo i giallisti che si sono dedicati largamente negli ultimi anni al cosiddetto “True Crime”. Il fenomeno coinvolge anche altre categorie di persone, primi fra tutti i giornalisti. Chi per professione, alla stregua di Buzzati, si occupa di nera, finisce spesso per inseguire il successo editoriale percorrendo le strade del “caso irrisolto” o emblematico nella sua natura criminale, magari sollecitato da editori desiderosi di riprodurre il successo di Lucarelli. E il caso di Giovanni Bianconi, ancora sulla banda della Magliana, o quello di Luigi Offeddu e Ferruccio Sansa sulle bestie di Satana. E il cerchio delle professionalità coinvolte si allarga fino a includere criminologi, come Massimo Picozzi, che a quattro mani con lo stesso Lucarelli realizza almeno un paio di successi librari (Serial killer e Scena del crimine), e persino esponenti delle forze dell’ordine, come il colonnello Luciano Garofano, che nella veste di capo del Ris di Parma (il nucleo investigativo scientifico dell’Arma dei Carabinieri) firma due Delitti imperfetti, raccolte di casi criminali risolti da lui stesso e dal suo gruppo di lavoro.
Che cosa tiene insieme questa vasta messe di titoli e di autori? In che cosa è ravvisabile un dato di novità? All’interno di un flusso principale (fatto di temi e contenuti che sono certamente gli stessi che trattarono Buzzati, con i modi della “sua” cronaca, o Sciascia, con i modi del giallista investito da una passione civile che ha fatto sì che per le strade del noir passasse anche la rilettura di casi criminali o politici della storia nazionale) sembrano confluire le più varie prospettive narrative, condotte dalle figure autoriali più disparate, spesso attraverso flussi mediali del tutto meticci.
Certo il “meticciato mediale”, e prima ancora autoriale, dei “misteri d’Italia” è uno dei fattori che più chiaramente ci balza agli occhi. Quello del “True Crime” (per usare ancora il termine che è stato adottato negli Stati Uniti per definire l’insieme di questi prodotti librari) è un genere che sembra essere nel nostro paese ormai battutissimo ma privo di autori propri. Chi si cimenta nella ricostruzione di un caso criminale, lo fa da una posizione “altra”, che lo autorizza a compiere l’impresa suddetta. Si tratti di giallisti, di criminologi, di giornalisti, di magistrati o di carabinieri, chi scrive di delitti lo fa da una posizione che lo legittima, agli occhi del lettore, a farlo (magari semplicemente perché lo ha già fatto in televisione). L’autore in questione è sempre un autore “in prestito”. E allo stesso modo il medium libro non è altro che un “medium in prestito”. Chi scrive un libro di questa natura normalmente non sta facendo altro che percorrere un canale di sfruttamento del suo contenuto. Perché il delitto o la strage che si appresta a offrire ai lettori potrebbe tranquillamente spenderla all’interno di un altro medium o utilizzarla come materia di una costruzione narrativa il cui fine ultimo è il romanzo di piena fantasia e non il saggio, per quanto narrativizzato. Una condizione, quest’ultima, che si sta poi traducendo in larga misura anche in un “meticciamento” del prodotto editoriale finito: libri che ospitano nella propria confezione dvd che riproducono a loro volta trasmissioni televisive. Come nel caso di La mattanza di – ancora lui – Carlo Lucarelli. E che l’autore di questo genere di prodotto culturale sia “in prestito” sembra non essere solo il frutto di un perverso cortocircuito nazionale: basti pensare a Truman Capote, che si è in qualche modo prestato alla cronaca nera nel costruire il suo capolavoro A sangue freddo.
Che cosa ha fatto sì però che la produzione di “True Crime” nel nostro paese diventasse una vera e propria moda, alla svolta tra ventesimo e ventunesimo secolo? Vale forse la pena azzardare due ipotesi di interpretazione, che vogliono avere solo il valore di un inquadramento contestuale e non certo essere esaustive.
Il primo quadro interpretativo ce lo offre un fenomeno del tutto liminare a quello che qui cerchiamo di descrivere e su cui già molto, anche in queste pagine, è stato detto. Mi riferisco naturalmente alla consistente voga per il noir che l’Italia sta vivendo in questi anni: sempre meno prodotto di genere, e sempre più vitale forma di narrazione contemporanea (ampiamente premiata dal pubblico ma largamente trascurata dalle istituzioni della repubblica delle lettere, come per esempio i premi letterari). Spesso gli autori di gialli sono gli stessi che si sono dedicati più o meno intensamente al nostro oggetto e non è certo un caso, appunto, se l’autore italiano che con maggior consenso ha affrontato i “misteri d’Italia”, Lucarelli, è anche un popolare giallista. E non è neppure un caso se i bacini professionali di provenienza delle nuove firme del noir nazionale sono spesso gli stessi da cui più volte sono emersi i creatori di successi editoriali incentrati sui delitti realmente compiuti: forze dell’ordine, magistrati e quanti possono dimostrare una competenza specialistica certa per quanto riguarda il crimine. In questo senso il “True Crime” sarebbe una sorta di sottogenere dal carattere vagamente parassitario rispetto al macrofenomeno del noir. Ma non si tratta solo di questo. E la multimedialità caratteristica del tipo di contenuti che andiamo descrivendo è un connotato che certo li differenzia dal mondo del giallo in senso proprio. In più, e qui si apre una probabile seconda cornice interpretativa che porta l’analisi su binari autonomi rispetto a quelli che condurrebbero a un semplice apparentamento con il giallo, ci si può rifare a una più ampia “passione documentaristica” che sembra contrassegnare alcuni segmenti del consumo mediale di questi ultimi anni. La prima metà di questo decennio ha visto l’affermarsi di alcuni clamorosi bestseller di saggistica, caratterizzati da una interpretazione radicale e fortemente critica della contemporaneità (penso a casi come No Logo di Naomi Klein, Impero di Antonio Negri e Michael Hardt e Stupid White Man di Michael Moore) che a loro volta si accompagnano al fiorire di prodotti mediali che fanno dell’indagine documentaristica il centro e la ragione della propria estetica. Farenheit 9/11 di Moore, tanto apprezzato da essere addirittura incoronato al Festival del cinema di Cannes, è solo la punta dell’iceberg di una serie di prodotti audiovisivi che vanno dalla ricostruzione compiuta da Marco Paolini della catastrofe del Vajont fino a una collana di documentari lanciata dalla Feltrinelli nel corso del 2005: una serie di dvd con allegato un libro (o libretto) dal titolo emblematico di «Real Cinema». È molto probabile che sia vero quanto altrove affermato da Gian Carlo Ferretti: nei momenti in cui la vita politica del nostro paese (o, per quel che riguarda il momento a cui ci riferiamo, dell’intero mondo occidentale) conosce un alto picco di criticità, la saggistica e tutte le sue declinazioni vivono un momento particolarmente fortunato dal punto di vista commerciale. E sembrano essere premiate con buona frequenza tutte quelle forme di saggistica che affrontano la contemporaneità con l’intenzione di offrire una lettura dei fatti alternativa a quella comunemente considerata attendibile. Lo “svelamento” è il motore narrativo tanto di Vajont di Marco Paolini quanto delle inchieste che formano le serie televisive di Lucarelli, fino alla Mattanza, grande denuncia di un patto scellerato tra Stato e mafia.
Insomma, le cose non sono mai come appaiono. Così sembrano ripeterci i nostri autori. E questo è il tema ricorrente di tutto il genere che qui abbiamo cercato di inquadrare. Un semplice omicidio, un rapimento, un attentato terroristico, il crollo di una diga non sono mai come sembrano. Le loro ragioni, i loro moventi, i loro autori, sono sempre diversi da quello che pensavamo. Che si tratti di “crimini” o di “incubi”, ciò che ci spinge curiosi a leggerne i resoconti, non è solo lo stupore di fronte al male in quanto presenza radicale e insuperabile, come sembrano suggerire le cronache di Buzzati, ma la certezza che dietro i meri fatti ci sia qualcos’altro ancora da scoprire.