Gli adorati arricchiti di Edoardo Nesi

La parabola di Edoardo Nesi, scrittore che a lungo si è diviso tra il mondo delle lettere e quello imprenditoriale, è un caso pressoché unico nel panorama letterario nazionale: la sua «doppia vita» gli ha però permesso di raccontare dall’interno, in romanzi che sono tutti variazioni su un unico tema, l’ascesa e la caduta di un distretto industriale.
 
Difficile non provare simpatia per Edoardo Nesi, lo scrittore-imprenditore che ha legato il proprio nome alla storia del distretto industriale di Prato. Nelle sue pagine vibra un’energia insolita nella nostra narrativa, un impasto di amore e di rabbia (il binomio che compare nel sottotitolo del suo libro più noto), di risentimento e voracità, in cui paiono mischiarsi opposti desideri di appropriazione e liberazione, di ribellione e radicamento, di conquista e di fuga: e che trova un efficace corrispettivo stilistico in una scrittura a pennellate spesse e a tinte fauves. L’esperienza di Nesi appare contrassegnata da un destino di ambivalenza. Fino a un certo punto egli ha operato contemporaneamente sui due fronti dell’attività aziendale e della creazione letteraria, coltivando le speculari sensazioni di rubare tempo ora alla sua vocazione artistica ora alle sue concrete responsabilità di imprenditore, erede di un’industria tessile, datore di lavoro. Con quattro romanzi già all’attivo (Fughe da fermo, 1995; Ride con gli angeli, 1996; Rebecca, 1999; Figli delle stelle, 2001), dopo la vendita dell’azienda, nell’anno-chiave 2004, ha avuto modo di identificarsi in maniera più piena con il ruolo di scrittore: ma vi si è applicato soprattutto per rendere conto della perdita dell’altro ruolo, quello di industriale, sullo sfondo dell’inopinata e generalizzata rovina del comparto tessile a Prato. Divenuto collaboratore di «la Repubblica», oggi Nesi firma interventi e testimonianze sui problemi delle piccole e medie imprese; non si tratta mai di discorsi strettamente tecnici – con gli economisti Nesi ha una partita aperta – ma di economia pur sempre si tratta. Destino istruttivo per chi, apparentemente predestinato a perpetuare l’azienda di famiglia, sognava invece di emulare Malcom Lowry e Francis Scott Fitzgerald.
Beninteso, si tratta di ambivalenze vissute con piena consapevolezza: e questa è, diciamolo subito, la maggior forza di Nesi. Per anni «sballottato fra una passione ardente e un confuso senso del dovere», diviso poi, all’indomani della decisione di vendere il Lanificio Nesi T.O. & Figli S.p.A., tra valutazioni opposte della scelta compiuta. «Non riesco a togliermi dalla testa quell’“& Figli” che suggella il nome del lanificio, quell’annuncio di continuità che era un richiamo e un augurio, una promessa fatta per me sessant’anni fa da un nonno che non ho mai conosciuto. Non so decidere se sono stato furbo o vigliacco, se ho fatto bene o se ho tradito, come se a un capitano d’industria si richiedesse lo stesso ardimento del capitano d’una nave e fosse moralmente necessario starci dentro fino in fondo, alla ditta che porta il tuo nome». Peraltro, esiste anche una frangia di ambiguità che esorbita dalla coscienza dell’autore. «Non volevo che finisse così» si rammarica Nesi «e solo Dio sa quanto sarei stato più contento di narrare il successo e l’eccesso della mia città; quanto più adatto a raccontare delle sbruffonate dei miei adorati arricchiti, invece che del loro declino». Proprio quel declino sembra invece aver conferito alle pagine di Nesi un mordente che in precedenza mancava; e del resto l’immagine che egli dà di quel ceto di artigiani divenuti piccoli imprenditori e poi facoltosi industriali è ben lungi dall’essere univoca, o pacificamente lusinghiera.
Altrettanto istruttivo, su un diverso piano, è che Nesi non sia stato premiato per il suo libro migliore. Lo Strega è arrivato nel 2011 per Storia della mia gente. La rabbia e l’amore della mia vita da industriale di provincia, libro dichiaratamente, appassionatamente autobiografico, a mio avviso molto meno riuscito del romanzo L’età dell’oro (2004), entrato nel 2005 nella cinquina da cui era poi uscito vincitore Il viaggiatore notturno di Maurizio Maggiani. Non occorre una particolare competenza in fatto di storia dei premi letterari per supporre che di tanto in tanto possano agire meccanismi di compensazione o di risarcimento. Certo è che il libro successivo allo Strega, Le nostre vite senza ieri (2012), non costituisce un passo avanti. Ancora più composito di Storia della mia gente, il testo assembla stralci autobiografici, brani narrativi, pagine saggistiche: riflessioni sulle nuove generazioni e sulla crisi economica, una specie di memoriale dello Strega, critiche al governo dei professori, una serata a San Siro con il figlio quindicenne. In questo pot-pourri spiccano alcuni capitoli che riprendono, alla stregua di complementi o appendici, la figura di Ivo Barrocciai, il protagonista dell’Età dell’oro, senza dubbio alcuno l’invenzione letteraria più memorabile di Edoardo Nesi.
Ivo Barrocciai, proprietario di un’industria tessile che dopo aver accumulato grandi ricchezze fallisce nel giro di pochi anni, sembra avere parecchio in comune con il suo creatore; soprattutto, si direbbe condivida con lui un temperamento impetuoso e sanguigno, un energico dinamismo, una dirompente carica di vitalità. Ma oltre a essere più rozzo, Barrocciai ha anche vistosi, flagranti difetti: quindi, inevitabilmente, come personaggio romanzesco riesce meglio. Intraprendente, infaticabile, laborioso e gaudente insieme, volta a volta cauto e spregiudicato, razionale e dissennato, sempre egocentrico, non di rado smargiasso, sa essere disonesto, prepotente, sleale. Al tracollo economico che investe la sua azienda fa seguito, quasi a suggellare la catastrofe, una malattia dalla prognosi infausta. La storia si arresta però un passo prima, a un tardivo soprassalto del suo delirio di onnipotenza: il sogno di avere un figlio da una giovane incontrata per caso, con la quale condivide un’estrema disperata fuga. Nell’ultima scena del romanzo un flashback richiama invece la sua più plateale prodezza, quando, al colmo della fortuna, per ripicca contro un cameriere del Crazy Horse dal quale si era sentito trattato con degnazione, aveva ordinato una bottiglia di Dom Pérignon chiedendo poi di versarla nel secchiello del ghiaccio: e così un’altra, e un’altra ancora, fino a ottenere le scuse della direzione e la simpatia di una schiera di avventori famosi, colpiti da quello stravagante sperpero. Le «giunte» delle Nostre vite senza ieri rievocano il vertice della sua parabola («Un giorno io ho guadagnato sette miliardi») e il racconto che egli stesso ne fa, più istrionico che mai, nella corsia dell’ospedale.
Una disamina sia pur superficiale della produzione di Nesi non può passare sotto silenzio la connessione che l’autore istituisce fra le sue opere. Da un romanzo all’altro passano non solo riferimenti culturali, musicali, cinematografici (alcune pagine spesseggiano di richiami a brani rock o heavy metal), ma anche nomi, personaggi, temi narrativi, persino intere scene: il capitolo Vagellare dell’Età dell’oro («vacillare», riferito alla mente) è una variazione dell’omonimo incipit di Fughe da fermo (1995), la trama del quale costituisce un antefatto di Rebecca (1999). Il ricorso a una procedura resa celebre dalla Comédie humaine è legittimato dalla coerenza dell’ispirazione. Prato è l’ombelico di un universo rigorosamente concentrico: sull’orbita più prossima vi sono la Versilia, Forte dei Marmi; poco più in là le città dell’Europa opulenta, come Parigi o Zurigo; quindi le Americhe e il resto del mondo. Tutto ruota intorno al perno di una cittadina di provincia che aveva assistito, anzi, che aveva dato vita a un miracolo sociale, oltre che economico: l’utopia di una prosperità diffusa e apparentemente senza conflitti, accessibile a chiunque avesse abbastanza voglia di lavorare. Un sogno breve che la storia ha tradito, facendo svanire nel nulla un’abbondanza inebriante, fatta non solo di denaro e di guadagni, ma anche di possibilità, di prospettive, di fiducia nel futuro.
Nei panni di osservatore e commentatore, Nesi punta il dito contro una politica economica che non si è opposta a una globalizzazione dissennata, privando così di ogni tutela la produzione nazionale; specie la galassia delle piccole e medie imprese, blandita a parole e sacrificata nei fatti. Nei panni di narratore, ci mostra i limiti intrinseci di un ambiente sociale in cui il dinamismo imprenditoriale poteva accompagnarsi al pullulare di ambizioni deliranti e ostentazioni grottesche, a una crescente inconsistenza umana, alla perdita di autenticità, alle derive nevrotiche: nonché allo storico abbaglio che ha accomunato tanti cittadini italiani, ammaliati dall’immagine (prima ancora che dalle promesse) di Silvio Berlusconi. Certo è che l’opera di Nesi, pur presentando un’inclinazione all’eccesso che è dello spirito dei nostri tempi, non offre conferme alle tesi che Daniele Giglioli ha formulato, con ammirevole abilità retorica, nel saggio Sema trauma (Quodlibet, 2011). Qui il trauma c’è, eccome: c’è un trauma individuale, correlato a un trauma collettivo che ha ferito profondamente una città e un territorio; e l’intreccio fra realtà e immaginario – sempre, giustamente, complesso – non si lascia in alcun modo descrivere in termini di prevaricazione del secondo termine sul primo.
Alla «letteratura industriale» del Novecento, tesa a rappresentare in chiave problematica le alienanti condizioni di vita nelle fabbriche e nelle aziende, sembra essere subentrata nel presente secolo una letteratura dell’alienazione dell’industria, giocata su tonalità prevalentemente epico-liriche. Da questo punto di vista, Nesi appare all’altezza dell’Ermanno Rea della Dismissione (2002); ma ad animarlo è uno spirito assai più combattivo. La fine di un’epoca di irripetibile, spensierato benessere non lo induce a ripiegare nella rassegnazione: non nelle pagine di intervento (per quanto accorate e amare), non nella scrittura d’invenzione. L’ostinato rifiuto di morire di Ivo Barrocciai (ancora vivo alla fine dell’Età dell’oro, risorto nelle Nostre vite senza ieri) ne è l’emblema più eloquente. Avere perso i nostri ieri non significa che abbiamo perso i nostri domani.