Scrivere serve ancora a qualcosa…

Con il suo ultimo romanzo, Walter Siti si conferma una delle voci di maggior spicco della nostra narrativa recente. I suoi libri mescolano narratività e modi saggistici, imponendo al lettore un criticismo radicale nei confronti del mondo contemporaneo: l’Occidente, trascinato dalle estreme conseguenze delle dinamiche economiche che ne hanno fatto la fortuna, sembra sull’orlo del tracollo. E se nell’esperienza privata balenano forme residuali di positività, la società e l’economia appaiono compromesse dal sovrapporsi indiscriminato di nuova finanza globalizzata e malavita organizzata.
 
Da poco meno di due decenni dal suo esordio romanzesco, con Scuola di nudo (Einaudi, 1994), Walter Siti si conferma sempre più come una delle voci di maggior spicco della nostra narrativa. Mentre scrivo questo doveroso complimento ho però anche l’impressione di dire qualcosa di insoddisfacente, se non proprio riduttivo. Se il romanzo ha una vocazione onnivora ed enciclopedica, e può dare spazio al proprio interno a qualsiasi genere di discorso, Siti costruisce i propri libri intrecciando in modo inestricabile, e per vari aspetti oltranzistico, narrazione e riflessione saggistica, attraversando senza soluzione di continuità una tavolozza stilistica amplissima (starei per dire onnicomprensiva), che passa con leggerezza, e non senza compiacimento, dalla ricercatezza persino preziosa alla provocazione del turpiloquio, e dall’esibita concretezza del quotidiano al dispiegamento di una discorsività fitta di tecnicismi (filosofici, sociologici, urbanistici, antropologici, economici). La miscela, è chiaro, varia da libro a libro. Ma costante, in Siti, è la tensione a fare di ogni intrapresa narrativa un ininterrotto e vigoroso sforzo ermeneutico, di cui una delle manifestazioni più vistose è la permanente, flagrante vocazione all’aforisma, alla sintesi folgorante e sorprendente, spinta non di rado fino al limite del barocchismo e della battuta. Solo due esempi, tratti dall’ultimo romanzo, Resistere non serve a niente (Rizzoli, 2012): «Qualsiasi raggio attraversando una lente cambia direzione: Dio è una lente potentissima, se vuoi che la tua vita gli appaia dritta devi offrirgliela spezzata»; «Col cuore si scherza, col portafoglio no». La realtà è opaca, enigmatica, parrebbe dirci Siti: proprio per questo, appare tanto più urgente il compito di cercare di decifrarla, di trovare un senso agli eventi che ci attraversano, rendendoli dicibili. Con l’impegno, esercitato di nuovo con peculiare vigore, e non senza una buona dose di civetteria, di non accontentarsi mai del senso comune, di schivare infallibilmente ogni conformismo e ogni buonismo, fino al limite del cinismo ostentato: come nelle pagine di Troppi paradisi (Einaudi 2006) in cui difende la pedofilia o dichiara «deludente» la «famosa esperienza archetipa» della morte del padre. E con la ferma intenzione di non lasciarci mai in pace, di costringerci a interrogarci a fondo su quello che ci sta succedendo, e su quello che stiamo diventando. Sullo sfondo, la percezione, acutissima, di come la realtà sociale ci cambi nell’intimo, modificando e colpendo non solo noi stessi, ma la natura dei nostri sentimenti, in un contesto segnato dall’inesorabile declino dell’Occidente e della cultura che ha saputo produrre, accanto alla ricchezza, per tanti secoli. D’altro canto, nonostante tutto, Siti continua (per fortuna) a riporre una non trascurabile fiducia nelle possibilità conoscitive della letteratura. Chiave di volta costante dei suoi libri, benché sempre diversamente modulata, è un narratore che si lascia supporre autobiografico, ma al tempo stesso ci proibisce di schiacciarlo sull’autobiografia reale dell’autore, dal momento che costituisce per programma qualcosa come un’ipotesi sul mondo, un tipo e una proposta di generalizzazione, proprio nel momento in cui ritaglia la proprio indiscutibile diversità: «Mi chiamo Walter Siti, come tutti» suona l’incipit di Troppi paradisi, memorabile anche nel plagio (eccone la fonte, non dichiarata: «Je m’appelle Erik Satie comme tout le monde», Ecrits réunis, Champ libre, 1981); e prosegue così: «Campione di mediocrità. Le mie reazioni sono standard, la mia diversità è di massa». La stessa indegnità del narratore, calcolatamente esibita, finisce così per funzionare quasi come una paradossale garanzia di onestà, e dunque di verità: «sarò lo strumento retorico attraverso cui passano i fatti per depurarsi e acquistare senso deformandosi: un pagliaccio al servizio delle cose» (così in Resistere non serve a niente).
Ultimo, ampio movimento della trilogia aperta con Scuola di nudo e proseguita con Un dolore normale (Einaudi, 1999), già Troppi paradisi, passaggio decisivo del percorso di Siti e della narrativa italiana recente, radicalizza l’indagine su un mondo nel quale l’offerta continua di godimenti e piaceri, frutto del trionfo della merce (ricordate lo Zola di Au bonheur des dames?), fa tutt’uno con lo svuotamento estremo dell’esperienza: avere «troppi» paradisi, palesemente, significa non averne nessuno, anche perché nessuno di questi ha sostanza. Strategicamente, Siti dà molto spazio nei suoi libri al discorso sui media, e sulla televisione in particolare (nel 2012 ha addirittura recitato in un reality di Italia 1, La scimmia), luogo emblematico di una società dominata sempre più radicalmente dal trionfo dell’immagine e dell’apparenza: «\d immagine, ecco la parola magica. Se si accettava che la realtà fosse sostituita dall’immagine della realtà, il paradiso in terra tornava ad essere possibile. Se l’arte era capace di questo, non restava che ampliare il procedimento, soprassedendo sulla qualità e puntando a un’arte di massa. E quello che il Novecento ha lentamente ottenuto, col cinema, col design, con la pubblicità, coi video musicali; e alla fine col look, con l’estetizzazione dell’esistenza, col trasformare in spettacolo la stessa informazione, e l’economia tutta». Persino la costante, esibita presenza degli amori omosessuali del narratore diventa in questa chiave, con un ennesimo, profondo paradosso, al tempo stesso garanzia di indegnità e dunque garanzia di verità, della rappresentazione e di chi ce la propone; infatti, chiosa Siti, gli omosessuali «sono i migliori interpreti dello Zeitgeist», perché «sono condizionati da sempre a desiderare non una persona, ma un’immagine. […] Il loro oggetto d’amore è, per definizione, un surrogato»; in questo modo gli omosessuali diventano l’«avanguardia dell’integrazione consumistica; maestri di recitazione, nell’epoca della recitazione universale. E maestri di regressione infantile, nell’epoca dell’infantilismo di massa», nonché, last but not least, «alfieri» del consumismo, come mostrerebbe esemplarmente la loro stessa sessualità, spesso segnata dall’occasionalità dei rapporti.
Nello splendido Il contagio (Mondadori, 2008; ne tratta più ampiamente Tirature ’10), l’amore omosessuale verso un borgataro diventa l’asse narrativo di un viaggio, fisico e sociologico, verso l’universo degradato della borgata, quasi discesa agl’inferi verso una società altra; e il viaggio si fa strumento di una tarda ma non per questo meno sconvolgente Bildung, di una scoperta dell’eterno presente della vitalità elementare. Solo che questo tempo senza tempo sta diventando la modalità dell’esperienza di tutti, nella precarietà crescente della società globalizzata: così «L’appassionata analisi di Pasolini, vecchia di oltre trent’anni, andrebbe rovesciata: non sono le borgate che si vanno imborghesendo, ma è la borghesia che si sta (se così si può dire) “imborgatando”». Ancora una volta, la singolarità della traiettoria esistenziale del narratore diventa emblema di un destino collettivo, ribadito, con quella miscela di leggerezza e spietatezza così caratteristica di Siti, in Il canto del diavolo (Rizzoli, 2009), racconto di un viaggio del 2008 nei sette Emirati Arabi Uniti, e soprattutto a Dubai, «Paese arretrato e futurista», «parodia d’Occidente dovuta a un capriccio della modernità», dove, dopo la scoperta del petrolio, avvenuta solo nel 1966, «in quarant’anni sono passati dal Medioevo al postmoderno, con una velocità di trasformazione che dev’essere apparsa miracolosa o stregonesca; dalle baracche di foglie di palma […] ai grattacieli di vetrocemento, dai sette giorni di cammello attraverso le dune all’ora e mezzo sulla superstrada in Ferrari; qui il telefonino è arrivato prima dell’acqua potabile, l’aereo prima della ferrovia (ancora oggi non esiste un solo chilometro di binari in tutto il paese), il computer prima dell’uso della forchetta».
Luogo esemplare della modernità estrema, e dunque del trionfo dell’apparenza, Dubai si mostra del tutto solidale al mondo della borgata: anche perché ciò che credevamo altro da noi vi si mostra immagine deformata, ma proprio per questo rivelatrice, e a suo modo perfetta, di quello che siamo diventati: «sottoposto a sollecitazione caricaturale, l’Occidente accelerato è andato in tilt, mostrando la propria inteccherita decrepitezza», e «forse si potrebbe sostenere che il tramonto di una civiltà lo si misura dalla sguaiatezza delle sue imitazioni». Ancora, Dubai ci mostra come siamo diventati perché è un mondo dove alla produzione, cioè al petrolio, sono subentrati gli scambi finanziari vertiginosi (con una mancanza di controlli pressoché assoluta, che ne ha fatto un paradiso, stavolta sì, del riciclaggio e delle mafie di tutto il mondo), l’edilizia (in un’esplosione di case che non troveranno mai sufficienti abitanti) e un singolare turismo, dove i turisti vanno perché «si mette in scena il turismo – quel che si mostra è il turismo stesso»: trionfo dell’antinatura, dell’artificio e della ricchezza in quanto tale, che qui «celebra la sua potenza intransitiva, il suo celibe giubileo», in un panorama di grattacieli, infrastrutture gigantesche, barriere onnipresenti e permanenti lavori in corso, dove diventa difficile riuscire a vedere, nonché il mare, persino il deserto. Estrema radicalizzazione di un modello che nasce con Disneyland, antesignana del «neo-turismo, un turismo che va a visitare ciò che non esiste», e prosegue con Las Vegas, Dubai ci mostra un mondo dove, come preconizzava genialmente Benjamin, scrivendo di Mickey Mouse e dei cartoon di Disney, «l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura», mettendo in scena in permanenza l’«allucinazione di un dopostoria in cui la differenza tra paradiso e inferno sarà azzerata sull’atlante del piacere».
Prima di riprendere, con l’ultimo romanzo, il tema della finanza globalizzata, in Autopsia dell’ossessione (Mondadori 2010) Siti prende di nuovo di petto il tema dell’amore omosessuale, che diventa la sede privilegiata per le residue chance di una pienezza di esperienza che non possiamo più dire autentica, ma pure conserva un’irriducibile, sconvolgente intensità. Il trionfo dell’immagine aggredisce dall’interno la natura stessa dell’esperienza, ma forse proprio per questo dà luogo alle nuove forme dell’amore, cioè dell’ossessione, che prende corpo (è il caso di dirlo) nell’amore omosessuale del colto antiquario Danilo Pulvirenti per il culturista borgataro Angelo: «Angelo e Danilo: un’anima non formata e una assordata dalla nostalgia dell’intero – un vincolo travestito da scambio mercenario, mentre nel buio si stringe la morsa che li salda in profondità». Significativamente, qui la pseudo autobiografia abbandona le modalità del narratore interno, con la sua proclamata, serio-comica indegnità: lo spazio per lo scherzo, infatti, si riduce ai minimi termini, dal momento che la posta in gioco, prima ancora che l’amore, è la bellezza, incarnata nel corpo desiderato. Già in Scuola di nudo la bellezza dei corpi e la sessualità potevano essere dimensione privilegiata di una tensione «gnostica», che è a dire mistica. In Autopsia dell’ossessione il corpo, goduto e/o ammirato, dell’amante si fa, ancora di più, campo dove si attualizzano dinamiche contraddittorie, ancora una volta espressione di una condizione generalizzata: anche se ormai, come constata il finale, «sulla terra non c’è che la terra», proprio l’ossessione può consentire di lasciar vivere un’eccedenza con cui bisogna fare i conti, la tensione umanissima, e nonostante tutto irriducibile, alla totalità e all’infinito. In altre parole, l’ossessione è l’ultimo esilio della trascendenza, o quanto meno del sacro. Ma, d’altro canto, il trionfo della mercificazione ha confinato quella nobilissima tensione nel campo delle dipendenze, delle coazioni: «forse la modernità all’individuo ha chiesto troppo e le nostalgie gregarie hanno preso la strada dell’ossessione». Così, «L’ossessionato vive in due dimensioni contemporaneamente: la dimensione mistica lo attira a sé ma lui ci entra con le scarpe sporche». L’ossessione chiama di nuovo in causa l’impoverimento dell’esperienza, a cui in qualche modo cerca di porre rimedio: essa si configura così come continua negazione del reale, che però ha bisogno del reale stesso, sia pure per negarlo; complementarmente, solo l’ossessione, che ha bisogno della metafisica, attribuisce senso e intensità alla carnalità: «Fuori dal mito non c’è desiderio». Il gioco di Siti è però ancora più complesso: basti dire che le domande su quanto sia reale la realtà, e in che maniera, s’intrecciano con un discorso sul potere nelle relazioni tra soggetti (anche e proprio in amore). A loro volta, le questioni della realtà e del potere si rifrangono nella riflessione sull’immagine: che si concentra intorno alla serie di fotografie, per lo più commentate, che attraversano il libro, ritraendo l’oggetto dell’ossessione, e rivelando volta a volta sia il gioco di poteri incrociati del fotografo, del committente e del modello, sia il più fondamentale tentativo di fare dell’amato un oggetto e non un soggetto, di possederlo (un po’ come nella Noia di Moravia), anche grazie al potere dei soldi. Non a caso, Autopsia dell’ossessione segna anche un picco della vocazione aforistica dell’autore, qui condensata nelle venticinque Proposizioni, in cui il narratore rielabora periodicamente e sintetizza in forma semiteorica il tema dell’ossessione, declinandolo secondo modulazioni e prospettive volta a volta diverse.
Con Resistere non serve a niente Siti riprende ancora più di petto il tema del crollo dell’Occidente, raccontando la parabola esemplare di un protagonista della nuova finanza globalizzata degli ultimi vent’anni, Tommaso Aricò, che affida la propria storia al narratore primo, di nuovo un Walter pseudo autobiografico: «devi dirmelo tu chi sono». Nato il 2 agosto 1976, Tommaso è espressione di «una generazione in debito di utopia, che si affanna a saturare con l’attivismo l’identità che le manca»; in lui «c’è un’ansia di assoluto di cui non è all’altezza»: come accade ormai quasi a tutti. Il narratore conosce Tommaso, ormai straricco, fidanzato con Gabry, una starlette che vorrebbe fare televisione, in una festa mondana, dove ritroviamo gente dei media e gossip: ma Tommaso, figlio della portinaia Irene e di Sante, malavitoso di mezza tacca (costretto dai propri capi non solo a eseguire un omicidio, ma anche a farsi arrestare), era un poveraccio, borgataro e «pezzente atavico», mangione, obeso, complessato. Se è diventato un mago della finanza globalizzata, lo deve al proprio straordinario talento matematico, ma anche all’aiuto di un misterioso signore, che lo ha fatto operare in modo da ridargli un corpo normale (ancora l’ossessione del corpo), e gli ha dato i soldi per studiare, naturalmente Economia. Appena laureato, fonderà una società di fondi d’investimento, che lo farà entrare in un gioco via via più grande: «Tommaso è estasiato dal pirotecnico gioco di prestigio, far apparire soldi dal nulla semplicemente spostando dei numeri; siamo davvero i nuovi alchimisti, i soli che si orientano nel pianeta in bollitura. Tutto in diretta, un videogame giocato sulla realtà». Tommaso è un «prototipo della mutazione»: perché incarna il trionfo dell’immagine nella sua forma più pesante e luciferina, quella finanza digitale e globalizzata che sconvolge quotidianamente la vita di tutti, ma anche perché si muove in uno scenario dove l’economia legale si mescola sempre di più a quella criminale della malavita organizzata, capace ormai di controllare circa la metà dell’economia mondiale e di mescolarsi alla politica in modo sempre più organico e raffinato. Emblematicamente, nella parte finale del romanzo la storia di Tommaso lascerà per un po’ il posto, quasi sdoppiandosi, a quella di Morgan Lucchese, figlio di un celebre mafioso, e a sua volta mago della nuova finanza, oltre che patron degli affari di Tommaso.
Fin dal titolo, Siti radicalizza ulteriormente la propria spietata diagnosi sull’inesorabile declino, anzi senz’altro sull’imminente «crollo dell’Occidente padrone-dei-prodotti», sottoposto a una serie infinita di crisi, generate dal movimento forsennato di un «denaro caldo» dall’origine indecifrabile, «i soldi senza patria che vagano per il mondo avendo perduto qualunque traccia della loro origine. E il lato oscuro della globalizzazione». Anche in questo caso, pare inutile fuggire: ci siamo dentro comunque anche noi, e ogni passo della nostra vita quotidiana è coinvolto di fatto in una dinamica economica forsennata e ambigua, che non può lasciarci tranquilli. Eppure, nonostante tutto, anche se Resistere non serve a niente, lo scrittore scrive ancora, e, chissà, qualcosina ancora forse si può fare. Come dice Edith, l’altra donna di Tommaso, l’amante seria e onesta, «con le parole, sia pure di pochissimo, puoi migliorare le cose». Edith, si capisce, è troppo ottimista, troppo ingenuamente etica; ma resta vivo il sospetto che lo stesso Walter Siti finisca per insegnarci energicamente, per quanto a contraggenio, proprio una via di resistenza, sia pure residuale: nulla è sicuro, e forse tutto è perduto, ma scrivi.