Cosa si aspetta a «fare» i cantautori a scuola?

Il ministro dei Beni e delle Attività Culturali si è espresso favorevolmente sull’opportunità di inserire i testi dei cantautori nelle ore di insegnamento scolastico. I dubbi sono molti: ha senso affollare con testi di canzoni programmi in cui faticano a trovare spazio persino i protagonisti letterari del Novecento? E quale dovrebbe essere, nel caso, il criterio di selezione?
 
Bologna, 4 marzo 2015, commemorazione ufficiale di Lucio Dalla a tre anni dalla morte. Fuori programma, a sorpresa, il ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini, canta Piazza grande insieme a Gianni Morandi e al sindaco di Bologna, [Virginio] Merola. Poi dichiara: «Questi testi sono formidabili anche senza musica, penso sia ora di insegnarli nelle scuole. C’è una generazione di cantautori che ha formato e trasmesso valori a generazioni intere di italiani perché ha saputo unire la bellezza della musica a testi straordinari, ognuno con uno stile unico, e penso facciano ormai parte della letteratura italiana. Quindi, anche togliendo la musica, penso che sia il momento di inserire lo studio dei testi dei grandi cantautori italiani nella storia della letteratura italiana. L’analisi delle canzoni italiane dovrebbe essere inserita nel programma. Oltre Dalla potremmo fare un elenco infinito: [Fabrizio] De André, [Francesco] Guccini, [Francesco] De Gregori, [Paolo] Conte, potrei andare avanti a lungo. Ne parlerò con il ministro dell’istruzione [Stefania] Giannini, che è sempre molto disponibile, quindi sono sicuro che ci sarà un’apertura.»
Oh! Finalmente qualcuno ha il coraggio di prendere le difese della canzone d’autore italiana, che da anni vive di stenti, emarginata e ignorata dai media. Mi piace immaginarmi il ministro che – improvvisamente scandalizzato dall’assenza dei testi di Dalla dai programmi scolastici – alza il telefono e dice alla collega: «Ma insomma, cosa aspetti a dire ai tuoi dipendenti di insegnare Lucio?». La risposta della ministra fatico a immaginarla; so però che, se desse un’occhiata ai programmi di italiano dell’ultimo anno delle superiori (parlo dei programmi effettivamente svolti), si accorgerebbe che pochissimi insegnanti riescono a spingersi in poesia oltre [Umberto] Saba, [Giuseppe] Ungaretti e [Eugenio] Montale. Le ore non bastano. Prima di «fare» i cantautori, non sarebbe magari il caso di «fare» [Vittorio] Sereni, [Giorgio] Caproni, [Giovanni] Giudici, [Pier Paolo] Pasolini, [Andrea] Zanzotto («giovani» nati nei primi due decenni del secolo scorso)?
Quanto poi al «formidabile» valore letterario di un pezzo come Piazza grande, mi permetto di nutrire qualche dubbio: senza considerare la qualità dei versi e delle rime (condizionata, certo, dalle esigenze musicali), il testo (di Sergio Bardotti) è improntato a un patetismo e a un sentimentalismo di maniera che la poesia maggiore ci ha insegnato a evitare; l’idea centrale è – grosso modo quella che i barboni abbiano un cuore e siano spesso più sensibili di tante persone «normali». Idea moralmente sacrosanta, intendiamoci; ma forse non meno dolciastra e convenzionale di quella che ispira Balocchi e profumi, un classico della canzone italiana mai inserito nei nostri programmi scolastici.
Già, perché il problema è anche questo: poniamo pure che sia opportuno inserire i cantautori degli anni settanta nei programmi ministeriali; ma per quale motivo dovremmo escluderne invece la maggiore tradizione canzonettistica (a partire da [Salvatore] Di Giacomo) o – che so? – i grandi libretti d’opera? Su, alziamo il telefono, e diciamo alla ministra di mettere in programma anche [Arrigo] Boito e [Giuseppe] Giacosa, [Libero] Bovio e E.A. Mario [Ermete Alessandro Mario, al secolo Giovanni Ermete Gaeta]. Cosa ci vuole?
20 marzo 2015. A Un giorno da pecora, su Rai Radio 2, Giorgio Lauro e Claudio Sabelli Fioretti ospitano Malika Ayane, una delle più belle voci italiane degli ultimi anni. Si parla di Adesso e qui (Nostalgico presente), la canzone che Malika ha presentato, con grande successo di pubblico, all’ultimo Festival di Sanremo. Nello stile della trasmissione, l’«anziano» e il «simpatico» (questi i loro epiteti canonici) incalzano l’artista, interrogandola sul senso del testo (il pezzo è firmato, oltre che da lei, da Pacifico [nome d’arte], [Giovanni] Caccamo e [Alessandra] Flora). L’imbarazzo mi attanaglia. Malika scherza, si affida all’autoironia (questa è la regola), ma in sostanza non riesce bene a spiegare di cosa parli la sua canzone.
Penso a Mina [Mazzini]: se qualcuno le avesse chiesto quale rapporto ci sia tra la lei e il lui protagonisti di Se telefonando, non avrebbe avuto problemi; prima degli anni settanta, i testi delle canzonette non avevano paura di risultare troppo trasparenti. Poi – ahimè – da qualche parte è piovuta sulla canzone quella che io chiamo la Poheszìa: da allora, le parole cantate galleggiano una qui una là in un brodo caldiccio, fumigante aromi indecifrabili. La Poheszìa è l’iperuranio linguistico italioide in cui nuotano i vocaboli dei parolieri insieme a quelli degli appuntati e dei manager, degli uscieri e dei pi-erre. Da questa «zona rossa», ogni frase normale è bandita: la lingua deve vestirsi a festa, truccarsi, agghindarsi, ammiccare, aggrondarsi, prodursi in smorfie e bronci, grinte e mossette.
«Silenzi per cena» è un verso che funziona, e infatti si è imposto sul titolo (come a suo tempo Volare su Nel blu dipinto di blu). Ma subito vapora la foschia poetica d’ordinanza: «Conoscersi / Lasciarsi le mani / Non è quello che ci spetta / Né buone idee / Né baci per strada». Paul Celan, in confronto, è Trilussa [Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri]. A chi spetta cosa, e in che senso? Conoscersi, lasciarsi le mani… Ma cosa vuol dire? E le buone idee da dove sgrondano, cosa c’entrano coi baci per stradai Mah.
Inteneriti, i due conduttori suggeriscono che si tratti di metafore. Già, pare che la poesia funzioni così, a metafore. Ma dov’è, qui, la metafora? Qualcuno suggerisce che il sintagma «nostalgico presente» costituisca un ossimoro. L’ossimoro – come si sa – è una figura retorica in cui due elementi stanno in forte contrasto; ma in che senso il presente contrasterebbe con la nostalgia?
La nostalgia è rimpianto del passato; e dove, se non nel presente, si potrebbe rimpiangerlo? Che il presente sia nostalgico, più che un ossimoro, è un’ovvietà. Ahimè, la mia povera pedanteria – che fa a pugni con la simpatia per Malika e per i conduttori – mi tormenta. D’altra parte, se io dichiarassi pubblicamente che i neutrini sono degli elfi venusiani e che i buchi neri si possono curare con le pomate, un fisico avrebbe diritto di rabbrividire, no?
Alla fine, Lauro e Sabelli Fioretti invitano Malika a cantare un annuncio per case in affitto (ha fatto anche questo mestiere), poi la formazione del Milan (Malika è milanista). Lei accetta, canta. Ed ecco la voce stagliarsi sulle parole, nuda più che mai. Anche di Edith Piaf si diceva che «avrebbe potuto cantare l’elenco del telefono». Ma non è vero, non è così. Quando deve reggere un testo insulso, la voce più bella diventa una smorfia. Una bimbetta vezzosa, che non vuole logica né retorica, né ossimori né metafore, solo un pugno di parolette da cantare e tanti tanti tanti applausi.
Dai, Malika, trovati un paroliere all’altezza della tua voce.
A varie riprese la canzone italiana ha tentato un rapporto con la poesia. Gli esperimenti, purtroppo, si sono presto o tardi insabbiati. La collaborazione tra poeti e musicisti è stata per lo più occasionale, sporadica, distratta: i due mondi si sfioravano, per poi tornare a staccarsi, consapevoli della reciproca estraneità. Splendida eccezione è il lavoro di Fiorenzo Carpi, presentato ora nel volume Fiorenzo Carpi. Ma mi (Skira 2015) a cura di Stella Casiraghi e Giulio Luciani, con contributi di Dario Fo, Nicola Piovani, Germano Mazzocchetti e altri.
Compositore di formazione «colta», Carpi (1918-1997) ha scritto musiche per il teatro (il Piccolo di Milano, in particolare), per il cinema (memorabile la colonna sonora del Pinocchio di [Luigi] Comencini), per la televisione e – questo qui ci interessa soprattutto – canzoni.
La più conosciuta, opportunamente inserita nel titolo del volume, Ma mi (testo di [Giorgio] Strehler), è un miracoloso connubio tra raffinatezza e popolarità. Da ragazzo, quando ancora non sapevo chi fossero gli autori, credevo che si trattasse di una canzone folk, una canzone di anonimo, come Bella ciao o Fischia il vento. Il genio di Carpi sta proprio nella combinazione inimitabile tra originalità e anonimato. Il valzerino della strofa e del ritornello suona come uno di quei motivetti a cui nessuno fa caso, una melodia che circola nell’aria; ma questa musica apparentemente «qualsiasi» riesce – insieme al testo – ad articolarsi espressivamente dall’epos all’elegia, dal comico all’inno, fino al memorabile finale «Mi sun de quei che parlen no». E un grido di rivolta; ma la tonalità minore che ritorna a sorpresa dopo il trionfale maggiore del ritornello impedisce che –a partire dal ma – tutto si raggeli nel marmo di un monumento. Mi ha sempre colpito quel «mi sun de quei»: il protagonista parla in prima persona, parla di sé e della sua vicenda, ma la sua individualità si costituisce a partire da un plurale, da un «tipo», da un modello umano, da una comunità che è antropologica ancor prima che politica. Non l’eroe di un romanzo: l’anonimo soggetto di un’epica popolare. Poche canzoni rispecchiano tanto fedelmente e profondamente lo spirito della Resistenza.