I libri dei segretari del Pd

Di fronte a una bomba d’acqua o a un’invasione di cavallette, la domanda di rito è sempre la stessa: «E allora il Pd?!». La risposta si cela nei libri degli ex segretari: Veltroni, Franceschini e Renzi. Pubblicando ricordi personali o storie di fantasia, con buona volontà e un pizzico di incoscienza, i tre leader hanno cercato di rinnovare le basi e il linguaggio del pensiero progressista. Se poi gli esiti sono stati discontinui in libreria e disastrosi alle elezioni, non è colpa delle défaillance di scrittura. Il vero problema è l’assenza, a monte, di un’elaborazione ideologica forte, capace di sostenere le rispettive ambizioni.
 
Quando penso alla gran mole di romanzi, racconti e saggi sfornati negli ultimi anni dai segretari del Pd, mi torna in mente un vecchio spot del caffè Hag: «Io scrivo a qualsiasi ora» spiegava il protagonista, tra un sorso di caffè e un giro per bancarelle con una tipa mica male. «Però c’è un momento, quando arriva la sera, in cui scrivere diventa un piacere…» e al diavolo tutti, fidanzata compresa. Era fatto così, l’Uomo Hag: lavorava al computer fino all’alba, solo soletto con la sua musa, un micio e una moka gorgogliante.
Oggi, al tempo delle capsule Nespresso, tirano tardi anche Walter Veltroni, Dario Franceschini e Matteo Renzi? Forse sì, forse no, ma un po’ di ironia la devono mettere in conto: «Temo che i pregiudizi siano inevitabili, e non mi pesano, anzi li capisco» confessa Franceschini. «Anch’io, quando vado in libreria, istintivamente tendo a propendere per l’acquisto dell’ultima novità di un romanziere di professione.» Meno conciliante, a sorpresa, è Veltroni: «Scrivere fa parte del mio dna, non credo debba esserci incompatibilità tra la passione politica e quella per l’arte». Renzi, dal canto suo, ha fatto sapere di aver scritto Avanti senza l’aiuto di un ghostwriter, e poi, di punto in bianco, ha rilanciato con una docufiction sulle bellezze artistiche di Firenze (Florence), scandalizzando quelli che venerano Alberto Angela come una riserva della Repubblica.
I politici con l’hobby della scrittura a dire il vero non sono mai mancati, in un paese in cui la cultura umanistica e giuridica è stata a lungo uno strumento di selezione della classe dirigente. E il web, che nulla oblia, restituirà ai più smemorati il ricordo di iniziative editoriali clamorose come la guida di Gianni De Michelis (Dove andiamo a ballare questa sera?) o il romanzo postumo di Giulio Andreotti (Il buono cattivo).
II caso dei segretari del Pd appare tuttavia diverso e assai più rilevante, se consideriamo la quantità (una caterva), la qualità (sì, sanno scrivere) e i generi dei loro libri (romanzi, racconti, storytelling politico). Oltre ai soliti album di figurine della sinistra moderna (Berlinguer, la sua stagione; Il sogno spezzato. Le idee di Robert Kennedy), Veltroni ha dato alle stampe una raccolta di racconti e cinque romanzi. A ruota lo segue Franceschini, che predilige però la forma breve. Renzi, invece, ha rottamato i format del libro-intervista (Pier Luigi Bersani, Per una buona ragione) e dell’inchiesta parlamentare (come il Viaggio nell’economia italiana di Bersani e Letta) sostituendoli con una non-fiction che trasforma la politica in esperienza: «Questo libro non è solo un diario personale» scrive all’inizio di Avanti. «Più di tutto è la condivisione di idee, emozioni e speranze.»
Sarebbe ingiusto liquidare queste opere come capricci della domenica, o tentativi di monetizzare la visibilità degli incarichi pubblici, presenti e passati. Un simile impegno di scrittura, lodevole ma non sempre efficace, tradisce piuttosto la consapevolezza di dover condurre una battaglia culturale in perfetta solitudine, arrangiandosi con mezzi propri, perché i ceti intellettuali, lungi dal collaborare, esorcizzano nello scontro fratricida l’incapacità di fornire soluzioni alternative alle utopie per gonzi (al posto dell’Ilva, agriturismi e marmellate biologiche) e al criptofascismo dei sovranisti. Ha detto bene l’editore Giuseppe Laterza all’«Espresso»: «De Gasperi o Togliatti erano dei giganti, ma non erano certo soli: avevano pantheon, elaborazioni, culture, mondi», che ora non ci sono più, e quindi ognuno fa quel che può.
La scelta della narrativa, se da un lato consente di intercettare un pubblico vasto, dall’altro rivela sin dalle opzioni di genere prospettive divergenti: spia ulteriore della mancanza di un collante ideologico. Quasi a rimarcare la faglia che tuttora separa le due anime del Pd, Veltroni ambisce alle campiture del feuilleton e della storia nazionale, mentre il ferrarese si dedica in via pressoché esclusiva al racconto e alle variazioni sul tema della follia, da intendere come reazione alle piccinerie della vita privata e professionale (La follia improvvisa di Ignazio Rando, Daccapo). La forma breve, del resto, è perfetta per la messa in scena di personaggi un po’ matti, da cui è lecito attendersi un finale col botto. Anche i romanzi sono in realtà dei racconti, più o meno mascherati: rispettano la regola della sorpresa in chiusura (Iacopo Dalla Libera ricomincia daccapo la propria vita facendo saltare in aria la villa di famiglia) e procedono per incastro o giustapposizione di piccole storie, come i sogni del travet Rando o il catalogo, potenzialmente infinito, dei Mestieri immateriali di Sebastiano Delgado (che, per inciso, è davvero un bel libro).
L’idea di fondo di questi racconti, stando al risvolto di Disadorna e altre storie, sarebbe la possibilità di scoprire il segreto della felicità «nelle cose più semplici della vita». Mah, bah. Per fortuna, una volta chiuso il libro, si intravede un’ipotesi più interessante: una sorta di egualitarismo fantastico, che non associa gli uomini secondo logiche di classe, ma in base alla capacità dei singoli individui di essere unici e inimitabili, pur rimanendo anonimi e sconosciuti. Se la vita di ciascuno di noi è potenzialmente straordinaria, ergo passibile di essere raccontata, lo scrittore non deve nemmeno inventare: sono le storie stesse che gli «ronzano attorno, come le zanzare» (Disadorna).
Si tratta di un messaggio di emancipazione cucito su misura per la borghesia intellettuale e impiegatizia: il che fa capire, al di là delle polemiche spesso pretestuose sugli operai che non votano piddì, quale sia stato fino a ieri l’elettorato piddino. Forse non tutti avranno il coraggio di alzarsi in piedi sulla scrivania, davanti ai colleghi d’ufficio, come fa Ignazio Rando, ma non è difficile essere solidali con Primo Bottardi, che un bel giorno si allontana da casa per cercare un amico d’infanzia («Non ho mai risposto a una domanda che mi ha fatto una mattina a scuola, prima di partire», Nelle vene quell’acqua d’argento), o con Sebastiano Delgado, che vuol provare l’abbrivio di un’idea geniale, «come quella che doveva aver svegliato una notte Bill Gates o Steve Jobs»: sentimento direi condivisibile, nella stagione della retorica dei “giovani talenti”, in virtù della quale se non sei uno startupper di successo allora sei l’ultimo della cucciolata. E a ben vedere di giovani ce ne sono pochi, in questi libri: sono i personaggi anziani, per ovvi motivi, quelli più idonei a farsi carico dei cambiamenti strepitosi di cui si compiace il loro creatore. C’è chi comincia a suonare il violino a ottantacinque anni, pur essendo un contadino analfabeta; chi vuole diventare padre a novantotto («Cazzo, nove mesi di attesa sono veramente tanti», Disadorna) o chi vuole convincere un figlio a spartire l’eredità con cinquantadue fratellastri (Daccapo). Il criterio della follia accorcia le distanze generazionali e socioeconomiche: diventa perciò possibile sentirsi affini tanto al bifolco quanto al notaio, in nome di una sana fratellanza tra spiriti liberi. A garanzia della tenuta del consorzio civile, chi narra si premura tuttavia di mettere in guardia i lettori: se si esagera si finisce come Rando, crivellati dai proiettili della polizia («Sapeste, pensò sorridendo, quante volte sono già morto nei miei sogni») o fagocitati dai flutti come Bottardi.
Rischiosi o precari, in particolare, sono i rapporti con l’altro sesso: sarà mai possibile conciliare le follie maschili con quelle femminili? Una risposta sembra suggerirla Delgado: solo in mezzo al deserto con la moglie Marta, capisce che «quando due silenzi si sfiorano, una quiete avvolge ogni cosa». Ma basta poco per volgere la quiete in tempesta, come testimoniano il marameo di Albina a Iacopo, dopo il falò della villa-prigione («Adesso che siamo liberi, io andrò a vivere da sola», Daccapo) e lo sfogo di Consuelo: «Non ho ancora trovato un uomo che provi davvero per me tutte quelle belle stronzate che dice solo per portarmi a letto» (Delgado). Rientra in queste dinamiche la nobilitazione ironica delle prostitute, che, bontà loro, non pretendono di essere mogli ma all’occorrenza possono essere madri: «Cinquantadue puttane» esclama Ippolito Dalla Libera, parlando delle madri dei suoi figli illegittimi, «Donne libere e meravigliose» (Daccapo).
Dalle nevrosi dell’io si passa invece, con Veltroni, alle storie del Noi: un pronome che è il titolo del suo romanzo più ambizioso e, si potrebbe aggiungere, una dichiarazione di poetica. Il compito della letteratura, per il fondatore del Pd, è quello di ricondurre a unità e concordia le tensioni che hanno attraversato la storia italiana dal fascismo ai giorni nostri. Veltroni insomma, pur essendo il più romanzesco dei tre, è anche il più scopertamente politico: rielabora pro domo sua il contesto ideologico degli eventi narrati. L’esempio migliore di tale strategia è L’isola e le rose, che recupera una storia da tempo rimossa dalla memoria collettiva (la costruzione, al largo di Rimini, di una piattaforma poi proclamata stato sovrano) e ne fa un simbolo delle speranze sessantottine. Niente di più falso, hanno gridato (non a torto) alcuni recensori, giudicando Veltroni (a torto) un pollo o uno sprovveduto (L’isola di Veltroni era il paradiso fiscale di un fascista, «Linkiesta»). Non ha molto senso valutare la fiction con il metro della plausibilità storica, perché la scommessa del politico è trasformare in mito condiviso una vicenda che in origine mescolava avventura e opportunismo: l’isola era il sogno di un ex repubblichino che, per non pagare le tasse, cercò di farsi uno staterello personale. Nel romanzo di Veltroni, la piattaforma di cemento nasce invece dall’audacia di alcuni giovani riminesi, vitelloni e non, decisi a fondare in pochi metri quadri «una comunità senza gerarchie, legata da un vincolo di solidarietà tra persone, ispirata alla ricerca del bello, fondata sul rapporto con la natura e le sue leggi», beninteso con un occhio al portafogli (gli isolani non rinunciano all’eventualità di fare «un sacco di soldi») e l’altro alle stelle che, in mezzo al mare, splendono luminose. Pura utopia? «Siamo alla vigilia del 1968» avverte il risvolto «e niente sembra impossibile.» La fine degli anni sessanta, per Veltroni, è un momento irripetibile di conciliazione degli opposti, un modello che le generazioni successive dovrebbero tenere a mente, per superare la conflittualità sociale che ha portato prima al terrorismo e poi alla psicologia del rancore.
Il primato concesso al Sessantotto poggia sul confronto con periodi meno fortunati: la Seconda guerra mondiale (Noi), gli anni settanta, con enfasi comprensibile sulle Brigate rosse (La scoperta dell’alba), gli ottanta, che si arrestano al 1984 in omaggio non a Orwell ma alla morte di Berlinguer (Quando), il presente degli smartphone (ancora Quando) e, per finire, i futuri anni venti del duemila (ancora Noi). La premessa necessaria a valorizzare il decennio dei sessanta è però l’omissione di un aspetto non irrilevante: la conflittualità intergenerazionale, che nei romanzi veltroniani viene assorbita dalla collaborazione padri-figli o dall’elisione della figura paterna. Il padre non c’è perché muore (Ciao) o perché se ne va, abbandonando moglie e figli (La scoperta dell’alba, Noi, L’isola e le rose, Quando).
Pesa molto, in queste svolte d’intreccio, un dato biografico su cui l’autore ha costruito il romanzo Ciao: la morte di Vittorio Veltroni quando Walter aveva solo un anno. È un evento privato che sul piano della storia spinge all’autocensura, ma a livello narrativo produce sviluppi interessanti: se non è possibile rappresentare uno scontro con i padri, per pudore o senso di colpa, bisogna postulare una costante propensione al dialogo. E qui Veltroni non si limita a un generico auspicio: sconfinando nei territori del fantastico, immagina un uomo che resta per anni in attesa di un ragazzo scomparso con il suo aeroplano (Senza Patricio), registra telefonate soprannaturali tra un protagonista adulto e se stesso bambino (La scoperta dell’alba) e racconta il ritorno di Vittorio dall’oltretomba, una sera d’estate (Ciao).
Un primo effetto collaterale di tanta solidarietà è una stilizzazione irrealistica dei figli, che tendono a essere un po’ troppo perfettini: bravi, buoni e di buone letture. Lorenzo, nella Scoperta dell’alba, legge solo Calvino e richiama all’ordine i genitori, che gli hanno affidato la sorellina affetta da sindrome di Down («Fate la vostra parte, vi prego»), mentre Enrico, che di anni ne ha tredici, fa da grillo parlante a Giovanni, risvegliatosi nel 2017 dopo un coma trentennale: «Si sentiva, lui, adulto in un mondo bambino». La seconda conseguenza della pace in famiglia si presta invece a un’interpretazione più spiccatamente ideologica: nel ritrarre padri e figli, Veltroni coglie l’occasione per restituire dignità letteraria a una figura estranea alla storia della sinistra, ossia l’imprenditore, che viene dunque accettato nel pantheon progressista di quanti abbiano contribuito a far rinascere l’Italia postbellica. Ciò è reso possibile dal fatto che gli imprenditori descritti in questi romanzi mettono le proprie energie al servizio dei tempi nuovi (il proprietario del Grand Hotel di Rimini finanzia la costruzione dell’isola artificiale, su richiesta del figlio Lorenzo) così come in passato hanno scelto di stare dalla parte giusta: il simpatico industriale di elettrodomestici che Giovanni e Andrea incontrano in autogrill, durante un viaggio da Milano a Roma, è stato partigiano sui monti dell’Appennino e ha voluto che i figli studiassero fino alla laurea (Noi).
Nessuno resta fuori dal grande affresco storico-sociale. C’è posto per tutti nei libri di Veltroni, che aspirano decisamente a essere nazionalpopolari, grazie anche ai numerosi riferimenti alla musica di largo consumo (si va dai musicarelli a Summertime, da Vasco Rossi ai grandi successi internazionali), al cinema di qualità ma non d’avanguardia (Fellini è un padre costituente) e alla letteratura dell’Italia migliore (Italo Calvino). È molto forte, in questa narrativa volutamente pop, la propensione alle derive melodrammatiche. Basti pensare alla relazione oppositiva e complementare tra Giovanni (Quando) e l’infermiera che lo accudisce (lui è un comunista entrato in coma durante i funerali di Berlinguer, lei una suora figlia di genitori comunisti) o alle sollecitazioni al pianto trasmesse per via romanzesca (la piccola Giuditta sfugge alla retata nel ghetto, la sua famiglia no) o saggistica, con la storia di Alfredo Rampi caduto in un pozzo a Vermicino, la prima tragedia italiana trasmessa in diretta televisiva (L’inizio del buio).
Nel complesso i libri di Veltroni sono un tentativo, coraggioso e soprattutto generoso, di riportare a una storia condivisa, e a un orientamento politico di centrosinistra, gli esclusi dalle grandi narrazioni del passato nazionale. Non sempre però il risultato è convincente, e non solo perché l’io veltroniano, un po’ Andrea Sperelli e un po’ Antonello Venditti («È il paradiso? No, è Villa Borghese», Ciao), veltronizza i discorsi dei personaggi, rendendoli molto simili ai pensieri del narratore. Come già si intuisce dalla predilezione per il Calvino dei destini incrociati e delle notti d’inverno, a spese dei Nostri antenati, che pure sarebbero caduti a fagiolo, Veltroni privilegia i consumi culturali e i percorsi di vita cari alla borghesia delle professioni intellettuali. Se il Giovanni di Quando studia geografia («Tuo nonno muratore, tuo padre impiegato e tu professore»), il Giovanni di La scoperta dell’alba fa l’archivista. Nulla al confronto della famiglia Noi, protagonista collettivo del romanzo omonimo, che annovera tra i suoi ranghi, dopo il bisnonno maggiordomo, un soprintendente alle Belle Arti, un art director ex terrorista, un giornalista che lavora in radio e in università, un’insegnante precaria e una ricercatrice di storia ebraica. Lo stesso discorso vale per Franceschini, certo, ma lì il disimpegno ironico della scrittura seleziona a priori il pubblico elettivo. Qui invece il rischio è che il lettore si senta respinto da un sistema di valori da cui, dopo le prime pagine, era giusto aspettarsi maggiore inclusività. Al netto della buona fede, qualche perplessità suscita inoltre la decisione di presentare senza chiaroscuri la figura di Enrico Berlinguer: se ne fai un santino laico, poi va a finire che qualcuno più zelante te lo ruba, come è successo di recente, in un curioso episodio di sincretismo politico-religioso (Domenico De Masi, Il M5S di Di Maio è come il Pci di Berlinguer, «La Stampa»).
Nelle epigrafi di Avanti, anche Renzi cita Calvino (non quello oulipista di Veltroni, bensì quello più impegnato di La giornata d’uno scrutatore) e Gabriel Garcia Màrquez (caro a Franceschini), ma ovviamente l’ex premier non segue le strategie di inclusione dei suoi predecessori. Anzi, come è noto, porta avanti da tempo una strategia di rottura o riformulazione dell’elettorato tradizionale. A questo proposito è illuminante Fuori! (2011), che si avvale di una quarta di copertina scritta da un sosia di Vittorio Feltri: «Contro i soliti noti, contro tromboni e trombati, contro una classe politica che ha già sprecato la propria opportunità di cambiare le cose». Ma al di là delle pose spavalde, che hanno ripopolato il mondo di gufi, Renzi parla sempre del suo lavoro in politica come di un’esperienza di cui il lettore è parte integrante. E infatti Fuori!, nonostante il titolo, si apre con una visita guidata dentro lo studio del sindaco di Firenze, e con l’ammissione di una fortuna personale che è pari alla riconoscenza dovuta agli elettori: «Dovrei urlare il mio grazie, perché faccio un lavoro fantastico». Avanti, pubblicato dopo le dimissioni dalla Presidenza del Consiglio, si dilunga invece sugli effetti dell’allontanamento dalle stanze del potere: il telefono non squilla più, se viaggi te la devi cavare con un trolley e i figli ti considerano un disoccupato che ciondola per casa («Ti sei dimesso, babbo! Che lavoro fai, adesso, scusa?»). Proprio a uno dei figli, calciatore professionista, è attribuita la lezione di vita che dovrebbe preludere alla riscossa: «Io non mollerò mai. Piuttosto finisco il campionato in panchina, ma non lascio questa maglia». Alla casacca ci teneva pure un altro premier, accusato di vittimismo con parole che anticipano il “cattivismo” oggi in voga: durante il passaggio di consegne a Palazzo Chigi, «Letta entra in modalità broncio».
La metafora calcistica esemplifica bene il concetto di democrazia competitiva che fa da cardine alla politica renziana, nutrendosi di riferimenti culturali ancor più eterogenei di quelli di Veltroni, ma tutti all’insegna di un agonismo acceso, che oscilla tra l’invito a rimboccarsi le maniche e la retorica delle eccellenze. Si va da Clint Eastwood («Se vuoi una garanzia, compra un tostapane») a Steve Jobs, passando per Mourinho, l’arbitro Collina e Robert Baden-Powell, il fondatore dei Boy scout (Fuori!). O forse non si va da nessuna parte: in un paese assuefatto al consociativismo, ci vuole un’elaborazione ideologica più solida degli esempi e delle frasette motivazionali. Si spiega così la proposta artigianale di una «rivoluzione della bellezza tra Dante e Twitter»: «La storia di Firenze ha molto da insegnare alla politica contemporanea. I fiorentini realizzarono un miracolo chiamato Rinascimento investendo bene la montagna di soldi che erano stati capaci di guadagnare, e con quei soldi finanziarono opere utili e belle. Costruirono orfanotrofi e ospedali. Sovvenzionarono gli artisti ma si preoccuparono di accogliere i bisognosi» (Stil novo, 2012). E un’operazione non dissimile da quella tentata da Veltroni con il Sessantotto, ma il presupposto è una concezione risorgimentale della cultura preunitaria, e cioè una lettura del passato che oggi suona un po’ falsa persino a scuola. Nasce da qui, sembra di capire, la decisione di rivolgersi a un pubblico internazionale, sensibile alle vestigia di un’epopea grandiosa (Florence), magari in vista di una corsa al Parlamento Europeo. Al che una domanda sorge spontanea: come ci arriva Renzi a Bruxelles? Con la bici dalle gomme un po’ sgonfie che vediamo sulla quarta di Avanti. E le ironie potrebbero continuare: fino al giorno in cui, di fronte a chi le gomme te le buca, forse rimpiangeremo quelli con le ruote a terra. «Sarà una cosa ai coltelli.» Parola di Rocco Casalino.