Narrazioni apparenti. Le “prose in prosa” di Inglese e Bortolotti

I libri recenti di Inglese e Bortolotti danno bene l’idea dell’originale esperienza di ricerca che si conduce oggi nell’ambito della cosiddetta “prosa in prosa’’. Esempi di un avanguardismo davvero postnovecentesco, queste “narrazioni apparenti” mantengono un rapporto più forte e dialettico con le strutture della leggibilità, mentre ci sfidano a una energica verifica dei dispositivi di fiction che mediano e organizzano la nostra esperienza – del mondo del testo come di quello della vita.
 
La percepibile aria di famiglia accomuna due libretti notevoli e anomali come i recenti Ollivud di Andrea Inglese (Prufrock, 2018) e Storie del pavimento di Gherardo Bortolotti (Tic, 2018). Entrambi giocano sull’inventiva messa in opera di suggestive forme di illusio rappresentativa – mescolando narrazione e cinema, saggistica e autobiografia il primo; immergendoci in un surreale, cupo fiabesco del quotidiano il secondo – che sottopongono però a diffusi effetti di inceppamento e straniamento, lasciando che i nessi non quaglino, le strutture non solidifichino. In questo modo ci coinvolgono in un’esperienza estetica disturbata, di straniante incantamento-disincantamento affabulatorio: secondo un meccanismo tipico di quelle “narrazioni apparenti” che spesso sono le “prose in prosa”.
Prose in che? Giusto dieci anni fa usciva per Le lettere, nella collana «fuoriformato» diretta da Andrea Cortellessa, un’antologia di scritture “di ricerca” che portava proprio questo titolo: Prosa in prosa (oltre a Inglese e Bortolotti, c’erano testi di Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Andrea Raos, Michele Zaffarano). La formula, coniata dallo scrittore e critico francese Jean-Marie Gleize (studioso di Erancis Ponge), rimanda da un lato a un’idea di congedo dalle forme anche più rastremate del poetico novecentesco: una prosa in prosa non è (più) una poesia in prosa – ma semmai una forma di “scrittura” praticabile in un età di postpoesia. D’altro canto il suo aspetto tautologico rinvia alla poetica guida della “literalité”, della letteralità, intesa come aspirazione alla massima riduzione del tasso di letterarietà dei testi. Che significa non solo un ideale azzeramento di ogni distanza fra lingua poetico-letteraria e lingua “comune”, ma anche un impegno all’inibizione o messa in scacco dell’insieme di convenzioni e codici che mediano la nostra produzione, e fruizione, di immagini o rappresentazioni del reale. Al rifiuto del poetico si associa così anche quello per le strutture della narratività, della trama, della fiction.
Nonostante le ragioni di continuità che si possono ben ravvisare fra un simile programma e la tradizione dell’avanguardismo novecentesco, queste scritture conservano, nel complesso, un contatto più forte, più produttivamente dialettico con il regime della leggibilità. Poco interessati ai programmi di sabotaggio del linguaggio in sé, i “testi” dei prosatori in prosa si distinguono semmai per la logica installativa con cui i materiali narrativi, o più generalmente verbali – oltre che grafico-visuali, spesso – sono per così dire messi in azione ma anche in blocco, in stallo, all’interno di libri-esposizione che ci propongono un’esperienza fruitiva ambigua, in costante bilico fra coinvolgimento e distanziamento.
Nella Nota che chiude il suo libro Inglese lo dichiara d’altronde a chiare lettere: «Se molta narrativa assume i codici della finzione cinematografica come filtro per parlare in modo più accattivante della realtà, Ollivud parla del cinema per esibire i codici sociali per nulla accattivanti che governano la nostra realtà». Il volumetto ha un impianto composito. Intanto si presenta come un dittico, che monta in sequenza, ma meglio sarebbe dire a specchio, due “sezioni-opera” distinte. La seconda ripropone in realtà un testo già uscito nel 2011 per le minuscole edizioni La camera verde (senza però il ricco apparato iconografico, purtroppo): Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001: Odissea nello spazio. Come suggerisce il titolo, si tratta di una sorta di bizzoso pseudosaggio, che se per un verso prende davvero a oggetto di discorso il capolavoro di Kubrick, discutendone ed esplorandone, fra il serio-analitico e il parodico-visionario, la natura di estremo e inesauribile «multi-film», per altro verso fa di 2001 il nucleo irradiante di una raggiera centrifuga/divagante di altri discorsi e percorsi. Ecco allora l’aneddotica sulla vita di Kubrick e la lavorazione del film, le riflessioni sulla fantascienza come genere e forma simbolica, le discussioni-chiacchiera sulle possibili interpretazioni di Mulholland Drive di Lynch, che si intrecciano in modo via via più spericolato con i mulinelli e le intermittenze di una irrituale quete identitaria. E infatti nelle «lisergiche» regioni dell’infanzia che affonda le proprie radici il rapporto – reciprocamente disvelante – fra il soggetto e 2001: Odissea nello spazio. L’iniziativa del «nonno fantasticante» che lo porta a vedere il film a sei anni – per poi farlo assistere a Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner, e regalargli quindi i tre smaglianti volumi de I segreti dell’astronomia (Edizioni Ferini, 1976: da allora «testo sacro» e «libro di chevet» dell’io bambino) – compie una volta per sempre la sua iniziazione alla «meditazione astro-fanta-metafisica», ascrivendolo a pieno titolo, nella grande tripartizione archetipica fra «bambini dei trenini», «dei dinosauri», «dei pianeti», a quest’ultima visionaria schiatta. Ma nel contempo, quell’esperienza porta alla luce la più vera natura dello stesso capolavoro di Kubrick: «non […] propriamente un film di fantascienza» ma uno straordinario «film per bambini», «per la migliore infanzia post-sessantottina». A dispetto dei marcati effetti di disorientamento cui questo collage installativo di piste e forme discorsive ci espone – accentuati dall’alternanza fra paragrafi in prosa, sequenze “versificate”, elenchi di nomi titoli date ecc. – per chi legge è difficile restare indifferente alla forza seduttiva della sua sbrigliatezza immaginosa. La stessa impressione di «serietà» dell’impianto argomentativo è sì minacciata, ma mai del tutto vinta dalla sua diffusa patina autoparodistica: risolvendo la lettura in un’esperienza di confronto a un tempo spassosa e perturbante con l’irriducibilità delle nostre più elementari, e radicali, domande di senso sul mondo.
Rispetto a questa seconda sezione, la prima – che è la più nuova, ed eponima – funziona come una sorta di doppio rovesciato. A prevalere, intanto, è qui la logica della serie. Si tratta infatti di ventisette «prose sghembe» o brevi “racconti” autonomi, scritti però nell’insolita forma della sinossi o scheda di commento di altrettanti film («È un film paradossale, giocato sulla complessità degli ambienti, degli intrecci e delle psicologie», Stanchezza; «Fin dalla prima scena, si vede che è Giuseppe quello più capace», Centro di accoglienza; «Sembra proprio un film sulla confessione laica, o sulla sicurezza sociale», Ricevimenti). Solo che, questa volta, i film di cui si parla in realtà non esistono: per chi legge si rivelano referenti puramente fantasmatici, mal immaginabili se non addirittura impossibili, di cui i poco coerenti e mal funzionanti sommari che Inglese congegna sono tutto ciò che resta. Invariabilmente frustrate lì, nelle trame difettose che quei “cattivi testi” pretendono di descrivere (più che narrare), le nostre attese di coerenza non hanno allora più alcun rassicurante altrove verso cui sporgersi, nella speranza di una ricomposizione. Ma il gioco di Inglese è anche più screziato perché, a dispetto delle loro scapicollate bizzarrie e sconnessioni, e dei diffusi effetti parodistici attinti anche per via stilistica (specie tramite l’imitazione deformante di un “critichese” altisonante e vuoto), le sue “finzioni di finzioni” riescono comunque quasi sempre a risultare, a loro modo, godibilissime. Modulate fra il grottesco-caricaturale e l’attonito-straniante, lo spettacolo del loro esuberante immaginario, fra violenza orrorosa e visionarietà fantascientifica, umori di critica sociale, metamorfismi di caratteri e situazioni, argute fantasie metacinematografiche, ci espone a una forma di bellezza strana e molesta: riuscendo perfino ad appassionarci a questi ectoplasmi di storie talmente già narrate, e viste, da poter ormai solo essere rese irriconoscibili.
Benché in modo diverso da Inglese, anche Bortolotti – nelle sue Storie del pavimento – prende le mosse da un prestigioso, benché certo più scelto, “ipotesto”. Il richiamo a quel piccolo capolavoro della letteratura umoristico-sentimentale che è il Viaggio intorno alla mia camera di de Maistre è non solo reso esplicito nell’epigrafe («Ho iniziato e compiuto un viaggio di quarantadue giorni attorno alla mia camera», Xavier de Maistre), ma ribadito poi da un elemento strutturale macroscopico. Il racconto è scandito in quarantadue brevi capitoletti, tutti siglati da una data, in una sequenza diaristica che va dal 17 febbraio al 30 marzo 1790 (appunto i giorni in cui si sarebbe svolto il “viaggio” di de Maistre). Si tratta in realtà, anche qui, di una tipica operazione installativa: l’ambientazione delle Storie del pavimento – per quanto rarefatta – non è settecentesca ma senz’altro contemporanea (qua e là si parla di «ombre del parcheggio», «vie con le auto parcheggiate», «pizzerie»). Bortolotti modella insomma il suo “spazio espositivo” istituendo un richiamo vistoso ma puramente concettuale all’opera da cui è mutuata l’invenzione-chiave intorno alla quale il suo testo lavora: l’immaginosa lievitazione del più banale e antiemotivo spazio dell’ordinario domestico nel senso dell’avventuroso-meraviglioso-sterminato. I mezzi con cui l’operazione è realizzata, e gli esiti cui dà luogo, sono però del tutto originali. Quella che Bortolotti intesse qui è una sorta di intermittente “saga” di tono leggendario-favolistico, quasi un miniaturizzato e disperso “epos” delle vicende che, nel corso delle incommensurabili «epoche dell’appartamento», coinvolgono i più o meno evanescenti abitanti delle sue sconfinate regioni. La dilatazione parossistica delle coordinate di spazio e tempo si associa all’anomala dislocazione prospettica del racconto. Se a condurlo è sempre una prima persona plurale, corale, che dà voce a una misteriosa popolazione di esseri minuscoli e umbratili, impegnati in faticose peregrinazioni fra «i grandi scenari delle stanze», l’intero mondo narrato – compresa appunto quella voce – sembra essere generato delle facoltà fantastico-percettive del bambino «Paolino», l’altro grande protagonista delle Storie del pavimento – con le sue attonite auscultazioni dell’appartamento «nel silenzio dei pomeriggi», le palpitanti visioni notturne «nel buio della cameretta». Ad accomunare i due “personaggi” («noi» e «Paolino») è una condizione di confinamento in un inframondo attutito, sospeso, disorientato, dal quale si sporgono continuamente – fra attrazione e timore, desiderio e spavento – verso due regimi di realtà diversamente alieni e misteriosi. Da un lato un mondo oscuro, leggendario-fiabesco, di presenze che si narra alberghino «in fondo ai cassetti», di cui si possono spiare i brusii «dietro i muri», «negli spessori» sotto la superficie del pavimento: «l’Omino dell’Ombra», gli «Anteriori» e i «Successori», «l’Uomo di Pelo» e «la Vecchina dell’Orto»… Dall’altro, il non meno inquietante e incomprensibile mondo dei «Grandi», che si aggirano per casa muti e sgraziati, «gli occhi colmi delle loro allucinazioni, degli incubi ottusi che chiamavano Vita». Una sorta di raccordo fra i due universi è il personaggio di «Paparone», coinvolto nei due episodi chiave – il secondo dei quali chiude il libro – in cui Paolino deve affrontarlo dopo aver fatto «la cosa sbagliata». Ma questo è solo il fronte più esposto dell’operazione di Bortolotti. Procedendo nella lettura, mentre ci si rende conto che – in ogni caso – le «storie» che il libro raccoglie non quagliano mai in una vera trama unitaria, permanendo allo stato instabile, disarticolato, di un aggregato di episodi modulari, è impossibile non cominciare ad accorgersi, anche, della impressionante modularità del linguaggio con cui questo mondo narrato prende forma. Il ricorrere continuo, benché sempre variato, di certi schemi periodali, giunture sintattiche e clausole – ma anche e proprio di uno sciame di singole espressioni, sintagmi, parole – instilla l’impressione di una scrittura a funzionamento quasi combinatorio, o comunque costretta a procedere scontando la soggezione a protocolli compositivi e routine immaginative inaggirabili. Ciò attiva in chi legge un cortocircuito fastidioso, e non facilmente risolvibile, fra le potenti dinamiche immersive che il testo continua comunque a sollecitare, con la fascinosità delle sue figurazioni favolose; l’orrore per le dinamiche di sclerotizzazione che affliggono ambienti e attanti del mondo rappresentato, per come vi sono ritratti; e la preoccupante impressione che la stessa esperienza estetica in cui è coinvolto sia soggetta, in certa misura, a una segreta, minacciosa logica di sclerotizzazione – alla rimodulazione elegantemente variata di certi modelli di mondo esteriore e interiore, di un certo formulario per la rappresentazione di enti stati rapporti. Ed è anche o soprattutto per questa via, allora, che l’universo di Storie del pavimento si rovescia su quello in cui viviamo, ci sconcerta mostrandoci, all’improvviso, il nostro ritratto.
Proprio come nella migliore tradizione della fantascienza, insomma, la più inquietante e ovvia sorpresa che libri come quelli di Bortolotti e Inglese possono riservarci, alla fine, è proprio questa: di farci scoprire che le loro scritture “aliene”, i loro strani ufo letterari in realtà ci somigliano – molto più di quanto ci saremmo aspettati.