Quasi un romanzo

La nuova fortuna della narrazione breve, nella produzione italiana, si accompagna a un ritorno alle sperimentazioni sul libro di racconti. Il ricorso alle cornici narrative rende chiara l’unità della raccolta e consente di tratteggiare affreschi corali, ma senza ricorrere alle sequenze “riempitive” tipiche della forma romanzo.
 
Che il romanzo italiano non goda di buona salute è cosa nota da tempo. Al di là degli appelli, sempre frequenti, affinché gli scrittori nostrani si facciano carico del cosiddetto Grande romanzo italiano (con ammicco agli Stati Uniti) o, al contrario, la smettano di riempire gli scaffali delle librerie con narrazioni che hanno ormai esaurito la loro funzione rappresentativa, sembra evidente che, tra gli autori più ambiziosi, pochi siano quelli ancora interessati alle potenzialità espressive della narrazione lunga. Si tratta forse di un fatto generazionale, visto che gli unici “veri” romanzieri, oggi, risultano coloro che, per età anagrafica, potremmo annoverare tra i veterani della nostra letteratura – e penso a Walter Siti, Francesco Pecoraro e anche Elena Ferrante. La generazione più matura, quella di chi oggi galleggia intorno ai cinquant’anni, preferisce rivolgersi a forme ibride, mescolando l’estro narrativo con formule riflessive e saggistiche di volta in volta diverse, al confine tra fiction e non-fiction (Giorgio Vasta, Helena Janeczek). E non va diversamente con i più giovani, nati tra fine settanta e inizio novanta (Vanni Santoni, Emmanuela Carbè), che sembrano attribuire alla forma romanzo una componente di commerciabilità in contrasto con l’idea di “ricerca” maturata a contatto con forme di cultura e intrattenimento non solo letterarie.
È forse anche per questo che oggi ci troviamo di fronte a una nuova ondata di passione per il racconto breve; che si accompagna tuttavia – confermando che quando si parla di “opera” narrativa si continua a pensare a una struttura articolata di racconto – a forme variegate di “romanzi di racconti”. Ovvero libri in cui il racconto costituisce l’unità minima di architetture più ampie che ricercano la profondità della narrazione lunga nell’accumulo di frammenti e in una rete ellittica di relazioni. Per questo genere di narrazioni la stagione 2017-2018 si è rivelata particolarmente prolifica. Vita e morte delle aragoste di Nicola Cosentino e Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio, usciti nel 2017, Atlante delle meraviglie di Danilo Soscia, la riedizione di Cani dell’inferno di Daniele Benati e A misura d’uomo di Roberto Camurri, usciti nel 2018, sono libri ambiziosi, che adottano soluzioni formali e strategie macrotestuali differenti, scommettendo tutte, però, su un recupero significativo della tradizione narrativa italiana. D’altra parte, senza risalire indietro fino al Calvino più combinatorio o alle irriverenze storiche di Wilcock, molti dei libri più importanti degli ultimi due decenni del Novecento sono scommesse sulle capacità della forma breve di restituire un mondo: da Centuria di Manganelli (1979) alle Vite di uomini non illustri (1993) di Pontiggia, passando per Narratori delle pianure (1985) di Celati o per Altri libertini (1980) di Tondelli.
Nelle opere contemporanee è la scelta di un microcosmo fortemente caratterizzato, di cui si portano alla luce, con specifici affondi, le singole storie, l’espediente più diffuso, poiché garantisce una cornice narrativa sommaria, ma decisiva per orientare la comprensione del lettore. Nel caso del libro di Cosentino, può venire addirittura il dubbio di aver di fronte un vero romanzo. Infatti, la natura episodica della narrazione, tutta incentrata sulla storia di Vincenzo Teapot, personaggio eccentrico e centro nevralgico di un gruppo di amici, viene compensata dall’ordine tematicamente progressivo in cui sono disposti i racconti. La voce narrante di Antonio assembla i frammenti secondo un criterio di “associazione sentimentale” che parte dal centro – «quando Vincenzo diventò Teapot» – e arriva al momento in cui l’amicizia (o l’ossessione) per Vincenzo è stata in qualche modo superata: in mezzo c’è tutto un repertorio di avventure picaresche, miti erotici e riflessioni che arricchiscono per via di accumulazione lo spessore del personaggio, lasciando l’impressione che molto altro resti da dire. Scegliendo il punto di vista di chi può ragionare senza preoccuparsi di vivere – perché a farlo è Vincenzo –, Cosentino costruisce, anche grazie a un notevole talento linguistico edificato sull’understatement, lo sfuggente romanzo di una generazione: nel comporre l’identità mobile ed enigmatica di un suo rappresentante, cerca di rendere conto di un’imprevedibile complessità che la struttura “a racconti” può mimare, ma senza restituirne a pieno il senso.
Su una comunità di conoscenti frammentata ed esposta alle diaspore del tempo si costruisce anche il libro di Camurri. C’è la storia di Valerio, che ha rinunciato alla sua vita in città per stare al fianco di Anela dopo la morte del compagno; c’è la storia di Elena e Mario, a lungo uniti dall’entusiasmo dell’innamoramento e ora divisi dall’ineffabilità della depressione; c’è la storia di Luigi, scrittore di madre eritrea, che alla festa della Liberazione viene contestato da un gruppo di fascisti per il colore della sua pelle. Ci sono tante altre storie, che da un capitolo all’altro ripetono nomi, intrecciano destini, tratteggiando il perimetro di una narrazione che svela in maniera disordinata traumi rimossi, ferite mai rimarginate, piccole verità tenute chiuse dentro le case del piccolo borgo emiliano di Fabbrico, sfondo dell’intera raccolta. A tenere le fila dell’intreccio è una terza persona laconica e distaccata, che, pur rispettando un minimalismo sintattico e lessicale, cerca di restituire la temperatura emotiva delle diverse scene, sovraccaricando di tensione ogni minimo gesto. Ne deriva una “mistica delle piccole cose”, che trasforma il microcosmo di Fabbrico, da incarnazione della zavattiniana “qualsiasità”, in palcoscenico di un’umanità che freme nell’attesa di una liberazione che non arriva mai. E il silenzio della pianura, come la tensione del non-detto, a riempire di inquietudine e ambizioni una narrazione che vorrebbe soltanto descrivere la difficoltà dell’esistere, ma che non può fare a meno di alludere a qualcosa di più grande: un significato superiore, che però non riesce a dire.
Un’altra Emilia s’intravede dietro gli avveniristici scorci urbani del New England, in Cani dell’inferno di Daniele Benati. Già pubblicato nel 2004, questo libro si ripresenta oggi mantenendo intatta la sua carica di visionarietà lunatica (Benati appartiene alla cerchia dei “semplici” con Celati, Cavazzoni e altri). I protagonisti sono tutti inquilini di un misterioso edificio di Mystic Avenue, dalle parti di Boston, in cui si avvicendano una sorta di albergo per esiliati italiani, un McDonald ’s e le aule di un’università. Nessuno di loro sa come vi è arrivato, né cosa deve fare; tutti sanno di avere avuto una vita prima, ma non ne portano memoria. Prendendo la parola nel capitolo che porta il proprio nome, ogni personaggio riporta in presa diretta le strane avventure che capitano a chi esce di casa senza saper dove andare: c’è chi s’improvvisa autore di un trattato filosofico, chi va in cerca di donne, chi vorrebbe accreditarsi nel mondo accademico americano. Ma quello inventato da Benati è un universo onirico mosso da strane coincidenze, una wonderland in cui le distanze si trasformano imprevedibilmente, in cui ciascuno è se stesso ma anche qualcun altro; in cui, soprattutto, nessuno riesce a farsi riconoscere per chi crede di essere. Si ritrovano, da un racconto all’altro, delle costanti tematiche – figure femminili enigmatiche, voci che chiamano «ehi Joe!» –, ma niente consente di definire una continuità cronologica tra le varie vicende. La vera dannazione, in effetti, è vivere in un universo in cui il tempo non scorre, ma si ripete e in forme sempre diverse, frustrando ogni tentativo di ritrovare la verità (vero tarlo di ogni personaggio), ma anche di costruire la propria trama. Resta infatti il dubbio che questi racconti non siano altro che diversi incubi di uno stesso personaggio, in preda a una crisi di identità che lo spinge, nell’ultimo capitolo, a rinunciare definitivamente a quella maschera sociale che è il nome proprio. La struttura accumulativa del libro diventa così figura di una condizione di cattività da cui è impossibile uscire se non sottraendosi a tutto. Soprattutto al racconto della propria storia.
Su tutt’altri presupposti costruisce invece la propria raccolta Danilo Soscia. Come svela il sottotitolo – Sessanta piccoli racconti mondo –, i numi tutelari di questo Atlante sono il già citato Manganelli, ma anche gli enciclopedici Borges e Bolano. Terreno di convergenza dei vari brani non è certo uno scenario fisso, perché la pretesa è proprio quella di muoversi nel tempo e nello spazio per tracciare una storia in miniatura dell’umanità. Per questo ogni racconto va inteso come una “parabola” i cui significati riverberano per trovare completamento e riflesso nelle storie contigue: vale per la confessione di Elettra, figlia di Agamennone, ma anche per la veglia notturna di due anonimi figli al fianco della madre in coma o per la fuga del leopardo dallo zoo di Basilea denunciata da Friedrich Nietzsche a Papa Leone XIII. Inoltre, come in ogni atlante che si rispetti, anche qui gli strumenti di lettura della carta – si legga “i paratesti” – rivestono un’importanza decisiva. Infatti, gli indici finali di luoghi e temi notevoli suggeriscono accoppiamenti giudiziosi tra racconti diversi e distanti, costruendo quindi “aree di famiglia” che possono aiutare il lettore a orientarsi in un bazar di noto e ignoto. Ma, soprattutto, la pagina e mezza ad apertura d’opera offre una sintesi valida per questi sessanta racconti, raccoglie cioè i nomi di tutti i personaggi unendoli sotto la categoria metafisica delle personae, maschere di una vicenda universale che si sparpaglia nei rivoli della tradizione religiosa, del mito, della letteratura o della Storia. Tutte declinazioni di un universo che solo la vita – non certo il libro – può permettersi di esaurire.
Anche Davide Orecchio, infine, affida ai paratesti il compito di cucire una trama che tenga avvinte le dodici «storie» (così recita il frontespizio) di Mio padre la rivoluzione. Come già nel precedente Città distrutte (2011), le note che chiudono ogni racconto intervengono a spiegare il sistema di riferimenti bibliografici veri e fittizi, così come le conoscenze storiche, i documenti privati e le suggestioni immaginative mobilitate per dare corpo a narrazioni che mischiano realtà, invenzione e possibilità. Basta leggere il titolo del primo racconto, Una possibilità di Lev Trockij, per capire il crinale lungo cui si muove la scrittura densa e a forte voltaggio figurale di Orecchio: è fantastoria, sì, ma anche altro. L’autore dà corpo a un universo narrativo mobile, in cui i grandi “eventi” della rivoluzione d’ottobre danno luogo a esiti diversi – si può immaginare la costituzione di un impero che unisce Unione Sovietica staliniana e Terzo Reich di Hitler sotto il comando di un dittatore-ircocervo; ma anche che la rivoluzione abbia dato origine a uno stato pacificato e giusto, guidato da Rosa Luxemburg; esiti che tuttavia possono convivere in un unico campo di possibilità e significati, composto proprio dal racconto della Storia, quella vera. Al centro del libro una suite di citazioni tratte da testimonianze autobiografiche, biografie e saggi storici di e su protagonisti della vicenda sovietica (Karl Marx, Hannah Arendt, Edward H. Carr, ma anche Antonio Gramsci e Rossana Rossanda) evoca un mondo di storie personali e collettive, un quadro di valori storici e politici che fanno da cassa di risonanza e, al tempo stesso, da ancoraggio realistico alle fantasticazioni stranianti dei singoli racconti.
Per questa via, e paradossalmente, Orecchio riesce a ricostituire quell’orizzonte di totalità tipico del romanzo che invece i “romanzi di racconti” di cui si è detto eludono o richiamano solo per via allusiva e frammentaria. La parzialità dello sguardo, cardine rappresentativo, ma anche alibi della forma breve, viene rivendicata qui come mezzo per restituire alla narrazione un’ambizione di pienezza rappresentativa: non perché pretenda di dire tutto, ma perché vuole trasformare storie singole (e anche eccentriche) nel riflesso di destini generali, come il romanzo ha sempre fatto, da che mondo è mondo.