Narrare la disabilità negli anni duemila

Negli anni duemila sono stati pubblicati numerosi libri che raccontano vite di persone disabili: difficoltà, relazioni con la famiglia, con gli amici, con le figure e i luoghi di cura, con le istituzioni. Molte sono testimonianze di madri, padri, fratelli, sorelle o sono scritti dagli stessi disabili che ripercorrono o reinventano narrativamente la loro condizione. Una produzione – stimolata dal mondo editoriale che ha intercettato un bisogno di sensibilizzazione, informazione e riconoscimento – in cui, nella varietà degli stili e dei generi, si segnalano alcune prove di originalità espressiva ed efficacia comunicativa.
 
Prendo come spartiacque un romanzo di alta qualità letteraria e insieme di grande successo di critica e pubblico, Nati due volte di Giuseppe Pontiggia, pubblicato da Mondadori nel 2000: il racconto, di ispirazione autobiografica, del rapporto fra un padre e io narrante (il professor Frigerio) e il figlio Paolo, affetto da tetraparesi spastica distonica, dalla nascita alla giovinezza del ragazzo. Un libro che certo di handicap, accettazione, integrazione, rivendicazione di diritti, momenti di sconforto, affetti, rabbia, successi parla, ma anche e soprattutto di comunicazione (moltissimi i capitoli costruiti essenzialmente su dialoghi fra i diversi personaggi): fra medici e pazienti, medici e familiari di pazienti, fra professionisti della cura e “utenti”, fra personale della scuola e genitori, fra genitori e figli… E in prima istanza, fra l’autore e i suoi lettori, che vengono guidati a sperimentare “per verba” senza buonismi, pietismo, forzature, pregiudizi, ma con ironia sapiente, intensità di sguardo e limpidezza di giudizio – condizioni di vita complesse (dei disabili e delle loro famiglie).
Una rapida mappatura di libri italiani usciti nel nuovo millennio con un disabile per protagonista dice della presenza e della vitalità di un filone, che, seppure con un andamento quantitativo non sempre costante, il mondo editoriale ha cercato di cogliere e promuovere, intercettando una fascia di pubblico che direttamente (e non solo, anche grazie a una sensibilizzazione sociale su fenomeni di fragilità e diversità) si sente chiamata in causa. Matteo Schianchi ci ricorda infatti, nel suo libro La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà (Feltrinelli, 2009), che i disabili sono oltre il 10% della popolazione globale e in Italia circa sei milioni, «un dato che ne farebbe la seconda regione del paese per numero di abitanti».
Quali le costanti e le specificità di questo “genere”, che a narrazioni più squisitamente di testimonianza affianca alcuni esempi di efficace invenzione narrativa e stilistica?
In primo luogo chi sono gli autori. La maggior parte hanno “familiarità” con la disabilità (in senso letterale: sono padri, madri, fratelli, sorelle di una persona disabile) e con la scrittura, più “professionale” che creativa: da Gianluca Nicoletti, giornalista e conduttore radiofonico, autore di una trilogia sul figlio autistico (Una notte ho sognato che parlavi. Così ho imparato a fare il padre di mio figlio autistico, Mondadori, 2013 \Alla fine qualcosa ci inventeremo. Che ne sarà di mio figlio autistico quando non sarò più al suo fianco, Mondadori, 2014; lo, figlio di mio figlio. Quello che il genitore di un autistico non racconterà mai, Mondadori, 2018), a Massimiliano Verga, docente di Sociologia dei diritti fondamentali, padre di Moreno che «non solo è cieco, ma ha un cervello che gli impedisce di parlare e di capire il novantanove per cento di quanto potrebbe capire un bambino della sua età» (Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile, Mondadori, 2012; Un gettone di libertà. Come ho imparato a essere padre di figli diversi: una storia di amore e di handicap, Mondadori, 2014); da Martina Fuga, docente universitaria e amministratrice di Artkids, e Francesca Magni, giornalista, rispettivamente madri di una bambina con sindrome di Down e di un ragazzo dislessico (Lo zaino di Emma, Mondadori, 2014; Il bambino che disegnava parole. Un viaggio verso l’isola della dislessia e una mappa per scoprirne i tesori, Giunti, 2017), ai giovani esordienti Giacomo Mazzariol (Mio fratello rincorre i dinosauri. Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più, Einaudi, 2016) e Gaia Rayneri, sorella di una bambina autistica (Pulce non c’è, Einaudi, 2009).
Con l’eccezione dell’ultimo titolo – in cui la dolorosa vicenda familiare dell’autrice (alla sindrome della protagonista si somma una falsa accusa per abusi sulla figlia rivolta al padre) viene trasfigurata attraverso lo sguardo della narratrice Giovanna, sorella di Pulce – gli altri sono scopertamente autobiografici, testimonianze che nascono da un’esigenza vuoi di denuncia, di sfogo, di condivisione, di informazione, di solidarietà. Sono libri stesi in tempi molto brevi: per Nicoletti, «aver raccontato quello che è il difficoltoso quotidiano con mio figlio» è stato l’«atto più spudorato della mia vita Mi è costato fatica interiore decidere di farlo ma poi è stato semplicissimo scriverlo»; così per Verga: «Metà di quello che ho scritto è uscito in una notte, il resto sul tram mentre andavo al lavoro». Scritture dunque che si dichiarano di getto, come indicano strutture narrative a flash, frammenti, episodi, notazioni, riflessioni, a volte amare, a volte rabbiose, a volte commosse.
La nascita di alcuni di questi libri – fenomeno ormai non insolito – è stata legata alla Rete: Giacomo Mazzariol, il 21 marzo del 2015, in occasione della Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down carica su YouTube un grazioso breve video, dal titolo The Simple Interview girato con il fratello minore Giovanni. Il corto diventa “virale”, viene ripreso dai principali quotidiani, e Giacomo viene contattato da diverse case editrici: la vicenda della sua famiglia, episodi buffi o teneri raccontati con candore e freschezza, esce per Einaudi, prima nella collana «Stile libero Extra» e nel 2018 nei «Super ET». Martina Fuga comincia a raccontare di sé e della figlia Emma in un forum di genitori, poi in un blog privato, poi in una pagina Facebook dedicata alla bambina. Segue la proposta del libro da parte di Mondadori.
Altra storia è invece quella di un caso editoriale del 2012, Se ti abbraccio non avere paura pubblicato da Marcos y Marcos, uno dei dieci libri più venduti nell’anno con 300mila copie. Franco Antonello, padre di Andrea, un ragazzo autistico di 18 anni, racconta un loro viaggio attraverso Stati Uniti e America del Sud allo scrittore Fulvio Ervas che ne trae «un romanzo che intreccia vicende ed emozioni autentiche con fantasia e arte narrativa» (come si legge ad apertura di libro). L’eccezionalità delle loro avventure, per i protagonisti, deve richiedere una mediazione letteraria che le renda più vere. Ma nel 2015 Andrea Antonello pubblicherà Baci a tutti da Sperling & Kupfer. Come risulta dall’elenco precedente infatti è difficile che gli autori che con il loro libro hanno riscosso l’attenzione dei media e dei lettori si sottraggano alla pubblicazione di un “sequel”.
Non familiare di un disabile, ma per professione vicino a ragazzi disabili è Mario Mapelli, che in H. Diario impertinente di un insegnante di sostegno (Erickson, 2018) coniuga il genere del racconto di scuola con quello della narrazione e della riflessione sulla disabilità, per ben mettere a fuoco un ambiente e figure (l’istituzione scolastica, i docenti) che nei libri su bambini e ragazzi con handicap non mancano mai (per stigmatizzarne le carenze o per rendere riconoscente omaggio).
La seconda categoria di autori è costituita dagli stessi disabili, che raccontano il loro esserlo diventato, gli incidenti, le operazioni subite, i soggiorni in ospedali e cliniche, la riabilitazione, il sostegno di amici e parenti, la professionalità e la sensibilità, o l’incompetenza, del personale medico e paramedico, il faticoso riappropriarsi di una normalità condizionata da ausili meccanici o dal supporto degli altri. Speculari sono le vicende di Lorenzo Amurri (Apnea, Fandango, 2013; Perché non lo portate a Lourdes, Fandango, 2014) e Barbara Garlaschelli (Sirena (mezzo pesante in movimento), Moby Dick, 2001, poi Salani, 2004, e Laurana, 2014; Non volevo morire vergine, Piemme, 2017). Entrambi rimasti paralizzati l’uno per una caduta sugli sci, l’altra, a 15 anni, per un tuffo in mare. Nelle loro narrazioni è centrale la dimensione del corpo e del dolore, declinata anche nei momenti di sollievo, di leggerezza, di ironia e autoironia, con un’incisiva gestione dei registri che vira dal tragico (pulsione di morte, sofferenza fisica, sconforto) al grottesco (Amurri tratteggia personaggi da commedia all’italiana nel suo reportage su un pellegrinaggio a Lourdes – intrapreso un po’ per sfida, un po’ “su commissione” dell’editore) al sorriso pungente (divertita e divertente la rassegna della Garlaschelli delle «varie specie» di «disabilitate» – le miracolate, le sportive a oltranza, le «uguali a oltranza», le ipersocievoli, le vanitose… – in Non volevo morire vergine).
Nei libri più riusciti (già contraddistinti da asciuttezza e densità dei titoli, rispetto a quelli anche suggestivi ma subito svelati da sottotitoli esplicativi) gli autori mettono a punto soluzioni strutturali, stilistiche, espressive, o invenzioni narrative, veicoli di empatia, inquietudine, interrogativi.
Spiazzanti, a volte urticanti, ma con consapevole volontà antiretorica, le scelte lessicali e metaforiche di Massimiliano Verga, che ben si oppongono alle posture equilibrate e un po’ mielose dei libri “materni” o alla gradevolezza giovanilistica di Mazzariol. Garlaschelli, nel primo libro sulla sua storia sceglie una narrazione in seconda persona, che avvicina il lettore e insieme distacca un po’ l’autrice da se stessa, dai ricordi troppo brucianti. Mentre nel più recente gioca su ripetizioni calcolate di parole chiave (corpo, vergine, piacere, amore…), tralicci lessicali della sua iniziazione al sesso e all’amore.
Perturbante e scritto con elegante compostezza è il romanzo La notte ha la mia voce (Einaudi, 2017, vincitore del premio Mondello e della prima edizione del premio Wondy 2018 per la letteratura resiliente) di Alessandra Sarchi, scrittrice, traduttrice, storica dell’arte. Anche lei, a seguito di un incidente stradale, ha perso l’uso delle gambe e la sua condizione diventa materia per una trasfigurazione e uno sdoppiamento narrativo: la protagonista e io narrante della vicenda, costretta su una sedia a rotelle, intenta a scandagliare le sensazioni, le percezioni di un corpo «presente e futuro» diventato «indicibile», che non si sente più proprio, che rende prigionieri («camminando non facciamo altro che scrivere chi siamo. E questa scrittura ripetuta, cancellata, corretta, sempre nuova, traccia la nostra libertà») si incontra e confronta con Giovanna, la “Donnagatto”, «senza una gamba e con l’altra paralizzata, e con la voce che rideva, producendo il suono di tante tazzine da caffè che tintinnano su un vassoio», collezionista di biografie e fotografie di ballerini classici (ne ha la casa tappezzata, specie di immagini di gambe e piedi), telefonista di una linea erotica. La Sarchi mette in primo piano così due elementi corporei, quello più concreto, che ci ancora alla terra e consente il movimento, e quello più immateriale che ci fa intrecciare i fili della comunicazione con gli altri.
Ho incominciato con Nati due volte, chiudo con Tempo di imparare (Einaudi, 2013) di Valeria Parrella, storia del rapporto fra una madre e un bambino disabile (ha problemi di vista, di orientamento nello spazio, di linguaggio), del loro percorso di apprendimento fatto di dolore, frustrazione, bellezza e gioia. Nella pagina finale del libro la madre, da un pontile proteso sul mare, si volta a guardare la scuola dove il figlio ha iniziato a frequentare la prima elementare: «Tu, dentro una di quelle finestre, impegnato nella tua vita. Ho chiuso un occhio per guardar meglio […] e tutta quella distanza non c’era più». Visione e distanza: un implicito omaggio al romanzo di Pontiggia nel cui ultimo capitolo (A distanza), al padre, dalla finestra di casa, «capita di vederlo [il figlio] a distanza, nella via lunga e stretta dove abito». Due immagini che condensano con intensità conoscitiva e poetica un tema decisivo di tante di queste narrazioni: la messa a fuoco di uno sguardo vicino e partecipe capace di rispettare la specificità di un modo di essere nel mondo.