La Marghera senza fabbriche di Targhetta

Quando il gruppo di rasta veneziani denominati Pitura freska più di 25 anni fa pensava a una «Marghera sensa fabriche», non avrebbe nemmeno sospettato la Marghera che Francesco Targhetta oggi ci racconta. Luogo di confine tra la durezza dei vecchi rapporti (non solo sociali) e una nuova eticità, tuttavia non liquida. A restituircela, un io memore dei soggetti narrativi tardonovecenteschi, peraltro installati nella poesia. Ma non per questo il lettore è escluso. Anzi. Perché c’è una trama non banale da queste parti.
 
A raccontarlo, riassumendolo, Le vite potenziali di Francesco Targhetta (Mondadori, 2018), ha una trama molto semplice. Alberto Casagrande, il titolare dell’azienda informatica Albecom, Luciano Foresti, il suo miglior dipendente e antico compagno di studi, e Giorgio De Lazzari, il pre-sales (diciamo il rappresentante, il promotore), coetanei intorno ai 35, intrecciano le loro vite professionali e affettive, finendo per separarsi – ma per ragioni diametralmente opposte: emotive ed esistenziali da un lato, carrieristiche dall’altro. In realtà, il contenuto che meglio caratterizza questa storia è forse la sua spazialità, la sua collocazione in un territorio come quello di Marghera, tangibilmente postindustriale, tangibilmente “distopico” (se usiamo una categoria persino visiva di un certo raccontare odierno). Brumose distese lagunari, ammassi arrugginiti di fabbriche abbandonate, tristi condomini polverosi, strade e rotatorie perse nel nulla, ma anche edifici hi-tech, ristrutturazioni trompe-l’oeil, parcheggi esclusivi. Il romanzo si compiace di dettagliare con acribia (sintattica, oltre che lessicale) questi ambienti, interni ed esterni, per ricavarne qualcosa come un’antropologia: che una volta avremmo definito postmoderna oltre che postindustriale. Oggi, non si sa più che etichette adottare, anche per le ragioni “costruttive” e positive che vedremo tra poco.
Gli eventi, che pur ci sono e finiscono per coinvolgere il lettore (sono in gioco un vero e proprio tradimento professionale e il ripensamento di un’intera esistenza, nonché un paio di maternità variamente “catastrofiche”), passano in secondo piano rispetto al reticolo di movimenti, di perlustrazioni spaziali, di scorrimenti all’interno della pianura veneta, e poi anche di un’Europa (Austria in testa) in cui è possibile ogni volta ritrovare il medesimo nesso di apparenza e di falsificazione, di fasulla superficie in contrasto con un diverso che via via si rivela. Anche la lindezza borghese degli ameni dintorni di Salisburgo non può che rivelare la propria intima miseria, oltre alle proprie tangenziali in fondo non molto diverse da quelle della pianura veneta. Marghera non sarebbe dunque altro che la figura di un rimescolamento complessivo: la traccia tangibile e tanto più esemplare di una trasformazione che ha scardinato equilibri relativamente recenti – la fabbrica, la piccola borghesia dei sessanta-ottanta – consentendo al nuovo di installarsi in modo leggermente ossimorico negli spazi lasciati liberi da quell’inelegante hardware, da quelle strutture esemplarmente grevi.
Del resto – a ben guardare – la pesantezza è anche e forse soprattutto a carico delle strutture famigliari. Negli ultimi anni, mai (o quasi mai) come in questo romanzo è stata tanto intensa l’elegia di un certo tipo di famiglia lindamente piccolo-borghese. Ma è anche vero che la sua necessità è messa in dubbio da una constatazione crudele: e cioè che la riuscita dei figli finisce per rendere inutile la vita dei padri e delle madri, accelerando il loro declino e morte. Che è notazione acutissima, e perfettamente in controtendenza rispetto a taluni luoghi comuni sociologici, che suggerirebbero l’incapacità delle nuove generazioni di separarsi fino in fondo dalle vecchie – con il corollario di una resistenza di queste alla scomparsa. La diagnosi di Targhetta è chiara: nel trapasso in cui viviamo, il vecchio può e anzi deve essere amato, ma con l’affetto verso qualcosa che in realtà è già morto o è moribondo, e non serve più a nulla se non a lasciarci in eredità qualche residuo spazio in cui installarci provvisoriamente, o da contemplare nel suo progressivo degrado.
In questo senso, lo scenario global molto più che giocai che il romanzo restituisce non deve essere frainteso. In primo luogo, perché (ed è uno dei meriti indubbi del libro) vi si coglie una serie di lucidissime osservazioni intorno a ciò che il mondo della Rete ha fatto delle nostre vite. E adottata la prospettiva di un gruppo di giovani smanettoni, imprenditori e programmatori di altissimo livello: millennials, nel senso che la loro primissima formazione si colloca nel momento in cui il pc, da non molto nato, diventa Internet e Google appare come l’evoluzione naturale dell’adolescenza prima che della tecnologia. Tutto ciò comporta un racconto in cui certi elementi tecnologici contano, incidono sull’intreccio. Ma soprattutto è detto a chiare lettere (in parte lo abbiamo osservato) che la Rete e la sua logica implicano la perenne negoziazione con due realtà a un tempo, ci costringono a vivere in due mondi: e se Alberto, l’imprenditore, e Luciano, il nerd, sono capaci di non farsi inghiottire dal buco nero di Internet («che si allarga senza sosta nel suo incessante ronzio») mantenendo un contatto con la vita variamente soddisfacente, il terzo personaggio, GDL, vi si trasferisce quasi senza residui, lasciandosi abbacinare da un desiderio di onnipotenza, di dominio sulla realtà – e sulla vita degli altri.
Ed è su queste basi che poggia la seconda notazione “forte” (neomoderna?…) del romanzo. Il punto è che, forse inaspettatamente, qui un eroe positivo c’è, una morale tutt’altro che banale è spiattellata con chiarezza (a chi sappia coglierla), i personaggi crescono sotto i nostri occhi secondo un plotting che esalta al massimo la questione etica. Non parlerò di politicità, ma mi piacerebbe farlo, anche perché in Targhetta c’è sempre una reticenza a mio avviso ammirevole. La battaglia per la felicità (o per una paradossale atarassia attiva) che questi personaggi combattono possiede un’esemplarità che deve essere sottolineata. Vediamo: il giovane “padrone” è tale in quanto ha sempre lavorato anche per gli altri; e il nerd non riesce mai a mettersi del tutto al centro dei propri fallimenti sentimentali, opponendo intelligenza e riserbo, e rispetto, alle troppe parole violente della vita. E poi c’è il nodo della paternità: esemplarmente, Targhetta elogia l’acquisizione di responsabilità verso una nuova vita come la pietra di paragone di una diversa socialità.
Al limite, anzi, stringendolo ai suoi minimi termini, questo romanzo trasuda di indicazioni positive, di inviti a una costruzione di senso “simbolica” coraggiosamente bilicata sopra un (apparente) vuoto. Nell’improbabile appartamento con affaccio su una tangenziale, nel bar al centro di una terra di nessuno, nelle acque oleose ma balneabili di un canale, là dove non te lo aspetteresti – qualcosa come il “vecchio” e qualcosa come il “nuovo” producono il loro migliore effetto di senso.
Ma il punto è proprio questo. A una conclusione “etica” si arriva attraverso un percorso tutt’altro che agevole, confrontandosi con molte contraddizioni. Ed è anche, se non soprattutto, una vicissitudine di lettura. Il lettore implicito delle Vite potenziali è disposto a entrare nella storia con un massimo di pazienza letteraria e di coinvolgimento empatico: due cose che non sempre vanno a braccetto. E dico pazienza letteraria, per sottolineare una costruzione narrativa in effetti non scontata. Un narratore il più possibile defilato, anche se capace di commentare, a volte persino con degli affondi bruschi («Sembrano tutti così inermi nel sonno?»: così sbotta davanti a un personaggio che si è appena addormentato), lascia quasi sempre spazio alla percezione-focalizzazione interna dei singoli personaggi, se del caso minori. Le transizioni da una figura all’altra, da un centro d’interesse a un altro, sono a volte brusche; e costringono i dialoghi a restare sospesi in una tensione di valori prima che di esperienze: essendo la voce, la vista, l’etica di ognuno dei personaggi una specie di blocco compatto non facilmente scalfibile da chi gli sta di fronte. In altri termini, ogni “sguardo” è anche una visione del mondo; e l’intreccio delle differenti prospettive produce la complessità tematica di cui dicevamo. Ma, appunto, tutto avviene in progress, attraverso la successiva conquista, da parte di ogni soggettività, di sempre nuovi pezzi di mondo; e di sempre più articolate posizioni morali. E l’articolazione può anche rovesciarsi nel suo opposto: se è vero che, in qualche modo, Giorgio (GDL) è un personaggio che si decostruisce sotto i nostri occhi. Figlio “immaginario” dell’onnipotenza di Rete, si crede trionfante nel momento stesso della propria sconfìtta.
E dico coinvolgimento empatico, poi, perché la macchina lenta di questo modo di narrare discreto, ma al tempo stesso impegnativo e problematico, non può non ipnotizzare il lettore implicito di cui sopra. Non può che interessarlo a una storia che a poco a poco rivela tutta la propria ricchezza. C’è anche del romanzesco, qui, che finisce per coinvolgerci: attendiamo impazienti il finale, come in ogni novel che si rispetti. Solo che ci arriviamo per una strada più tortuosa e sfaccettata del solito.
Un’ultima osservazione. Cosa ha a che fare tutto ciò con la “natura” o “qualifica” di poeta che si associa – e giustamente – a Francesco Targhetta? In che senso questo può essere detto un romanzo poetico? Che rapporto c’è fra un simile libro in prosa e il romanzo viceversa in versi, Perciò veniamo bene nelle fotografie (2012), che aveva garantito all’autore una piccola notorietà?
Se ciò che abbiamo detto ha un minimo di senso, la risposta è relativamente facile. Targhetta capitalizza con grande intelligenza l’eredità di un cinquantennio di poesia solitamente detta lirica, che in Italia ha giocato le proprie carte sulla revisione delle soggettività, sulla loro problematizzazione. Dopo Sereni, Giudici, Caproni, ma anche Cucchi, De Angelis, Viviani ecc., la nostra poesia ha imparato a praticare un’intelligente e spesso instabile mescolanza di soggettività e oggettività: di voce del poeta ma insieme di fattualità, di spostamento percettivo “dentro” le persone, i personaggi. A partire da un certo momento della nostra storia letteraria, c’è tutta una poesia che si è narrativizzata, senza però produrre (com’era inevitabile che fosse) alcuna forma stabile. Ma al tempo stesso propiziando qualcosa come uno stile, una vera e propria tradizione.
Ora, a me sembra che, genialmente, Targhetta abbia trasferito questo sapere poetico dentro il genere del romanzo: sia stato in grado di contemperare le ragioni di un io decentrato (un narratore debole, dicevamo) con le ragioni delle cose e delle persone, degli spazi e di chi negli spazi si aggira. E la cosa funziona tanto meglio perché l’autore, a ben vedere, è coetaneo dei propri personaggi; e il suo narratore assomiglia davvero a un io lirico che (come spesso giustamente si afferma) è facilmente sovrapponibile all’io biografico reale. Insomma, proprio l’autobiografismo poetico ci consente di meglio apprezzare i mascheramenti romanzeschi che quel narratore lirico mette in movimento.
Lo so che è un bel paradosso. Nell’età dell’autofiction c’è un personaggio-autore che per manifestarsi sente il bisogno di dislocarsi nell’altro – secondo una procedura apparentemente modernista, in senso lato oggettiva. Solo i residui di un io esposto potevano garantire un adeguato embodiment, un’adeguata incarnazione narrativa, qual è quella che qui vediamo in azione. Non so se questo dica qualcosa di utile intorno alle sorti incerte di un certo tipo di romanzo: quello in prima persona – dico. So che l’esperimento di Francesco Targhetta è riuscito, e ci auguriamo che Le vite potenziali sia un inizio.