Il miracolo di Ammaniti

Eppur si muove. Questo forse direbbe oggi Galileo della serialità televisiva italiana. Dopo anni di medici, sacerdoti, suore e professoresse, da qualche tempo si tentano strade nuove, basti pensare a Gomorra e Suburra. Ma è del 2018 la serie tv che forse alza ulteriormente l’asticella: con Il miracolo, il cui progetto è stato partorito (e in parte realizzato) dalla fantasia di Niccolò Ammaniti, l’Italia strizza l’occhio in maniera credibile alla serialità americana, con esiti fruttuosi, anche se non privi di qualche residua incertezza.
 
La notizia è confermata: all’interno della serialità televisiva italiana, qualcosa si sta muovendo. Da alcuni anni si tentano nuove vie che si discostano da quelle ormai logorate, lastricate di suore, sacerdoti, commissari e medici in famiglia. Spesso sono serie che provengono dal cinema come spin-off di film di successo come Gomorra o Suburra – La serie, oppure tentativi originali che strizzano l’occhio alla serialità americana, come il recente caso de Il miracolo, partorito dalla fantasia di Niccolò Ammaniti, coinvolto nel progetto anche con un ruolo importante sia nella regia che nella produzione. Come spesso avviene per chi tenta nuove strade, il risultato del Miracolo è ondivago tra esiti fruttuosi e alcune incertezze.
L’interrogativo che lancia Ammaniti non è proprio originale e si ispira direttamente a serie statunitensi recenti e non, incarnandosi nel quesito: cosa accadrebbe nella nostra società se si palesasse un evento strabiliante in grado di modificare in profondità coscienze individuali e apparati statuali consolidati? Se negli Stati Uniti questa irruzione dello straordinario da oltre mezzo secolo occhieggia preferibilmente a creature aliene o a umani (o macchine) che provengono dal futuro, qui in Italia siamo più legati a tematiche a chilometro zero e di cui abbiamo una certa esperienza privilegiata, ovvero i miracoli. L’Italia, paese cattolico per eccellenza, da sempre si confronta con eventi straordinari che chiamano in causa il divino attraverso il meccanismo ben oliato del miracolo. Ciò che fa Ammaniti è di appropriarsene per vedere l’effetto che fa – come direbbe Jannacci – su persone e istituzioni. I suoi personaggi sono infatti persone normali alle prese con i problemi quotidiani della vita, ma anche personaggi che incarnano ruoli istituzionali, più o meno importanti. Tutto prende il via dalla scoperta di un ricercato della ’ndrangheta in Calabria, che custodisce la statuetta di una Madonna. Nel covo, un locale sudicio oltre ogni limite, il boss nudo, imbrattato di lerciume e sangue rappreso, viene arrestato da un gruppo di Carabinieri del Ros, i quali rinvengono la statuetta di una Madonna che lacrima incessantemente sangue. In tutta segretezza, la statuetta viene trasferita a Roma in una piscina confiscata alla malavita e custodita lontano da occhi indiscreti. Un generale dei carabinieri è al comando di un ristretto gruppo di agenti che se ne prende cura e informa della scoperta soltanto il primo ministro. Con poche scene Ammaniti mette già insieme la religione, lo Stato e un antistato quale la ’ndrangheta. Come il telespettatore scoprirà poco a poco, la notizia importante è che nel Miracolo, il miracolo non si paleserà. Chiunque a vario titolo resterà impigliato nelle maglie affascinanti del sacro sangue prodotto dagli occhi della Vergine Maria, e a essa si rivolgerà implorante, non verrà esaudito ma – al contrario – dovrà esperire un percorso di profondo dolore. Il sospetto è che Ammaniti si sia avvalso di questa statuetta nello stesso modo in cui Alfred Hitchcock fa con altri oggetti in alcuni suoi film, ovvero come puro espediente narrativo, cioè un MacGuffin. Nella memorabile intervista che il grande regista concesse al suo collega Francois Truffaut, Hitchcock definì MacGuffin quel qualcosa che ha una grande importanza per i personaggi della storia ma non per la storia stessa e per lo spettatore. Per esempio la busta con 40mila dollari rubata dalla protagonista di Psycho, spesso inquadrata come fosse qualcosa di importante ma che poi nel corso del suo svolgersi la storia ignorerà. Così mi sembra accada per la statuetta miracolosa, che in realtà è lo strumento che conduce la storia al suo vero centro, ovvero la descrizione fantastica, eppure assai verosimile, di ciò che è il nostro presente e di ciò che potrà accadere in un futuro prossimo venturo. Uno dei protagonisti di questa storia è il premier Fabrizio Pietromarchi, che si trova a dover gestire “Italexit”, un incombente referendum popolare sulla permanenza dell’Italia nella Ue, sulla falsariga della Brexit. Un evento non ancora in agenda della realtà politica ma neppure così impossibile da ipotizzare. Un premier apparentemente non credente alle prese con un rapporto coniugale compromesso, ancora in piedi solo per convenienza e che si trova a dover gestire il folgorante mistero di questa statua piangente. Il dubbio amletico che lo corrode è se rendere partecipe il mondo di questa scoperta, con il pericolo di imprevedibili conseguenze sociali e politiche, oppure conservarla gelosamente al riparo da sguardi indiscreti. Nel dubbio decide per la seconda ipotesi e l’unica eccezione la concede a padre Marcello, un sacerdote missionario che aveva conosciuto anni prima e del quale ha una grande opinione. Conduce infatti il sacerdote dinanzi al prodigio non sapendo che padre Marcello in realtà è coinvolto suo malgrado in questa storia in modo immanente e potente e nel frattempo, a causa degli effetti collaterali di un farmaco che assume, è caduto preda del gioco d’azzardo e di comportamenti sessuali poco ortodossi. Nel suo svolgersi, Il miracolo ci racconta di una classe politica fluida, dove non ci si può fidare di nessuno perché ognuno è sempre pronto a tradire e a confluire in altre realtà politiche, una sorta di cartina di tornasole dell’attuale situazione. Si avvertono i morsi della crisi e, in questo senso, è illuminante una scena in cui la moglie del premier in un grande magazzino tipo Bricofer entra in un profondo stato ansioso perché ha perso di vista i suoi due figli. Viene avvicinata da una donna che si offre di aiutarla ma poi le chiede in cambio di farle ottenere l’indennità di accompagnamento per il padre malato. Davanti al diniego della moglie del premier, la donna reagisce con estrema violenza verbale e, in seguito, la filma col telefonino mentre sgrida i figli per essersi allontanati, postando in Rete il video che in pochissimo tempo diventa virale e mette il premier in grave difficoltà.
Lungo il suo sviluppo, la serie diventa una rappresentazione da manuale della concezione del fantastico elaborata da Tzvetan Todorov, semiologo e intellettuale di straordinario livello, nel suo celebre libro La letteratura fantastica (Garzanti, 1970). Il “fantastico” per Todorov dura il tempo di un’esitazione, poi la storia e il lettore debbono optare se far confluire questo fantastico nel campo della realtà e tramutarsi nel genere dello “strano”, oppure defluire senza inibizioni nel campo del “meraviglioso”. Ammaniti ha scelto la prima opzione, accettando di muoversi all’interno delle leggi di realtà e circoscrivendo la folgorazione fantastica della madonnina lacrimante all’interno del personale e non del politico o del sociale, tanto che la sua esistenza non viene mai rivelata ad altri settori dello Stato né tantomeno all’opinione pubblica. Questo elemento soprannaturale quindi interferisce con la storia rimanendo però circoscritto all’interno delle singole vicende personali, provocando reazioni simili sui vari personaggi con un meccanismo che, a partire da un’iniziale diffidenza, li porta a mettere in crisi la loro razionalità sino ad affidarsi completamente a esso nella speranza che possa risolvere i loro problemi esistenziali. Ammaniti comunque sembra partecipe della lezione todoroviana e costruisce una storia e delle immagini che, anche nei loro aspetti inverosimili, siano credibili dal punto di vista mimetico. Quel fondamentale lato iperbolico presente nella sua scrittura, infatti, egli lo trasfigura in immagini oniriche e inconsce che permeano alcuni dei suoi personaggi, primo tra tutti il generale dei carabinieri Votta, colui che dovrebbe incarnare l’autocontrollo assoluto e gestire con distacco emotivo quella situazione così eccezionale. Durante le otto puntate l’autore regala allo spettatore degli intermezzi onirici degni del miglior Twin Peaks di David Lynch. Tra questi inserti almeno due si lasciano ricordare: quello del generale che sogna di trasformarsi in un corpo di pane e come in un’eucarestia realmente antropofaga viene trangugiato da un capannello di persone in un supermercato, e l’altro in cui una Madonna sottomarina provvista di tentacoli con le fattezze di Monica Beliucci appare tra gli incubi di padre Marcello. Immagini che estrapolate dal contesto potrebbero risultare incongrue, se non addirittura risibili.
Muovendosi all’interno del verosimile, Ammaniti crea situazioni di narrazione tipicamente naturalistica usando espedienti di pura invenzione assolutamente straordinari, come nel caso della bolla trasparente in cui una setta avventista tiene alimentato un coro che va dritto verso il divino. Un’invenzione concettuale e di immagine davvero potente che Ammaniti immagina concepita da un monaco avventista montenegrino che nel 1917 avrebbe iniziato un canto rivolto direttamente a Dio. Da allora esso è tenuto costantemente vivo da generazioni di adepti che si avvicendano a intonarlo senza soluzione di continuità, un po’ come avveniva al fuoco sacro tenuto vivo dalle vestali per arrivare, più laicamente, al lievito madre curato e tenuto in vita da generazioni di fornai. Questo stato di sospensione tra reale e soprannaturale, realtà e sogno, conferma che siamo sempre nell’alveo del fantastico todoroviano. L’irruzione del soprannaturale o dell’elemento fantastico è sempre verosimile e potentemente fa leva sui timori escatologici legati a strutture complesse come quella religiosa che si riverbera immanente sull’educazione dello spettatore che appartiene alla stessa cultura di riferimento.
All’interno di un esperimento sostanzialmente riuscito, vi sono però alcuni dettagli, più che altro narrativi, che si dimostrano poco coerenti. A partire dalla fragilità nella gestione del segreto, dove non è plausibile che il generale informi solo il premier e ne siano all’oscuro i suoi superiori, il ministero degli Interni e i servizi segreti, e il tutto sia gestito in spazi facilmente violabili ed estranei all’Arma dei carabinieri. Poi, pur comprendendo che i meccanismi coproduttivi talvolta obbligano la scrittura a seguire dei piani non perfettamente logici, la parte della storia che si svolge in Francia è davvero debole. Il personaggio meno riuscito della serie, ovvero la biologa Sandra Roversi (interpretata da Alba Rohrwacher), coinvolta nella ristretta squadra che si occupa di analizzare i reperti ematici prodotti dalla statuetta, si reca in Francia per tentare di verificare la corrispondenza genetica di una persona con precedenti penali presente nel database dell’interpol il cui identikit somiglia a quello del “proprietario” del dna ricostruito. Una traccia ottenuta in modo quasi goffo in barba a qualsiasi logica narrativa, con un volto ricostruito non attraverso i laboratori sofisticati dei Ris ma quelli di un sito Internet, pagando con la carta di credito del generale, come fosse un acquisto qualsiasi su Amazon. E il volto non è neppure tanto somigliante a quello del delinquente schedato in Francia… Poi c’è il sospetto che Il miracolo sia anche uno straordinario spot per Skytg24, visto che ogni schermo che compare nella serie è sintonizzato su questo canale di news e ogni intervista del premier e dei suoi familiari è sempre veicolata dallo stesso canale. Forse c’entra il fatto che Sky sia coinvolta nella produzione? Il vero miracolo sarebbe che in Italia ci fosse una reale pluralità dell’informazione, ma questa è davvero un’altra storia.