Best seller party 1999

Metti una sera d’estate, una festa danzante, esclusiva, riservata agli autori dei più fortunati best seller del Novecento italiano. Il nostro inviato ci racconta le confidenze di Guido da Verona e Liala, gli scambi di battute tra Chiara e Guareschi, i commenti di Brunella Gasperini, l’incontro tra Villaggio e Scerbanenco, le danze di Fruttero e Lucentini, il silenzio tra Fallaci e Tamaro, il monologo di Baricco che espone a Eco le sue perplessità sulla semiotica, il sorriso soddisfatto di Camilleri, mentre la scena si chiude sull’ingresso di Benni.
 
Il parco della villa si presenta vasto e arredato con un certo gusto: tavolini in vimini, scalinata guarnita di piante e fiori, piano dell’orchestra di appena qualche centimetro sollevato sul prato. Sotto una luminescenza lunare, a pochi passi dal lago, una coppia elegante danza con sussiego. Lui è Guido da Verona, che ottenne il suo successo più duraturo con Mimi Bluette (1916); lei è Liala, esordiente nel 1931 con Signorsì, e ora entusiasta, forse anche sorpresa di trovarsi coinvolta nella festa. Capace del cosmopolitismo più spregiudicato il primo, tanto da concepire un romanzo bilingue, con i dialogati in francese e il tessuto narrativo in italiano; paladina dell’italianità più tradizionale la sua partner, pronta a rimproverare le femmine autoctone per l’uso del trucco e il vizio del fumo, i balli moderni, i flirt disinvolti. Impegnato l’uno a coniugare l’ariosità irriverente del vaudeville parigino con il diorama dei tramonti africani e delle solitudini desertiche; concentrata l’altra nel tratteggio di un ménage familiare di tono claustrofobico e morbosamente ossessivo, dove la passione d’amore soccombe alle colpe degli avi, in un determinismo genealogico senza scampo.
In comune, Mimi Bluette e Signorsì hanno due donne votate al suicidio. E a suscitare tanto sacrificio, poco importa che da una parte stia Furio, l’aristocratico eroe lialesco, tutto preso da sogni d’arme e d’amore; e dall’altra parte aleggi lo spirito dell’esotico Castillo, «cuore errante», fascinoso e sfuggente «nomade senza patria». n gesto supremo delle protagoniste romanzesche sembra compiersi in entrambi i casi come omaggio a una virilità ormai intaccata da una crisi che si preannuncia non solo di lunga durata, ma anche destinata a innescare una somma di reazioni in chiave unicamente masochistica e autodistruttiva.
Da un tavolo cosparso di calici e champagne, le movenze della coppia vengono registrate senza parere da Giovannino Guareschi e Piero Chiara. Non è facile capire come si siano trovati insieme, tanto diverso è il talento che gli va riconosciuto. Di certo chiacchierano, e con tutta l’aria di divertirsi un mondo. Il più anziano dei due, Guareschi, potrebbe condividere, chissà, il determinismo positivistico volgarizzato da Liala. Gli umori strapaesani di Mondo piccolo (1948) si manifestano senz’altro in un particolare «momento» politico, l’Anno Domini che va dal dicembre 1946 al dicembre 1947: con le lotte contadine, l’amnistia voluta da Togliatti, le dispute costituzionali. Ma soprattutto documentano un «ambiente», quello rurale della Bassa padana, dove «gli uomini subiscono la storia come subiscono la geografia».
La trasposizione della guerra fredda in un piccolo universo come il paesello di don Camillo e Peppone fu certo una trovata ragguardevole. Ma più ancora quella di mettere a confronto due nemici acerrimi, sanguigni, disposti a tutto tranne che a sterminarsi a vicenda. Al di là di uno scontro ideologico all’ultimo respiro, a unire i contendenti era in realtà la celebrazione delle virtù contadine più tradizionali: il coraggio, la lealtà, la vigoria fisica, l’astuzia, l’ antintellettualismo e il gusto saporito per il motteggio, gradito in più di un’occasione anche da un povero Cristo in croce. Ne risultava un effetto di rasserenamento; rinforzato oltretutto da un’ideologia an­tiprogressista che doveva avere larga udienza nel pieno degli sconvolgimenti sociali dell’Italia post-bellica. Un dileggio spietato dell’urbanesimo industriale tradotto in nuova utopia religiosa, e non senza appeal per i nostri tempi, se è vero che «un giorno, quando le macchine correranno a cento miglia al minuto, il mondo sembrerà agli uomini microscopico, e allora l’uomo si troverà come un passero sul pomolo di un altissimo pennone e si affaccerà sull’infinito, e nell’infinito ritroverà Dio e la fede nella vita vera».
Al confronto, la provincia luinese descritta da Chiara nel Piatto piange (1962) è insieme più datata e più moderna: disposta all’intenerimento elegiaco per il tempo andato, ma edonistica e secolarizzata negli atteggiamenti. Rinvia a una dolce vita smemorata, quella del Ventennio e dell’autarchia, popolata di flaneurs piccolo­borghesi e spostati sociali. L’aria che vi si respira è quella goliardica di ritrovi esclusivamente maschili – soprannomi, turpiloquio, ostilità sorde -, dove non l’agire ma «il parlare era tutto». E il gioco d’azzardo, con i suoi miti e le sue piccole-grandi infamie, sembra un correlato capace di dare evidenza oggettiva agli astratti furori vittoriniani: una sorta di grande metafora esistenziale, in cui le carte fungono da rimedio «a un’inquietudine che premeva sempre più d’intorno e un giorno ci avrebbe presi nel suo giro».
Pur nei debiti rapporti, è la grande tradizione novellistica nostrana a fare da matrice per Mondo piccolo e Il piatto piange. Perciò Piero e Giovannino sembrano trovarsi a proprio agio: sanno raccontarsela, sanno ridere di gusto. Si versano da bere, si danno sui gomiti, e non risparmiano commenti anche pesanti sulle fanciulle che passano in décolleté. Li adocchia Brunella Gasperini, con a fianco il suo inseparabile compagno-di-vita, e scuote l’indice in tono scherzoso. Correva il 1956 quando pubblicò L’estate dei bisbigli; e per quanto sommariamente abbozzata, la provincia vista da lei era piuttosto un universo malevolo e concentrazionario da cui un gruppetto di studenti non vedeva l’ora di evadere. Giovanotti anomali, per le rigide consuetudini del romanzo rosa di allora: rampolli della piccola borghesia paesana, farmacisti, maestre, colonnelli, ma soprattutto eredi di un padre ergastolano e di una ballerina parigina (e più probabilmente pensava a prostituta, senza poterlo scrivere).
Erano forse gli anni più interessanti per il «rosa» all’italiana. E la Gasperini vi contribuiva originalmente. Non si trattava solo di democratizzare gli ambienti, confinando in soffitta l’aristocrazia di rango e gli sfavillanti eroi in divisa; o di sfuggire alla claustrofilia domestica e al décor dannunzianeggiante. Con garbata ironia, l’obiettivo era di mettere alla berlina i pregiudizi e la grettezza del benpensante comune. E di farlo con storie vivaci, vissute en plein air, che avessero al centro una nozione di amore eticamente governabile dalle giovani fanciulle che ne vivevano l’incanto. Tutto all’opposto del passionalismo fatalista e morbosamente sovreccitato che Liala aveva impresso nella narrativa sentimentale per un quarto di secolo. Sul vialetto di ghiaia fine, Brunella avanza con disinvoltura: sorride a tutti, fa cenni di riconoscimento. Poi si ferma a un tavolo isolato, giusto sotto una magnolia imponente, dai rami nodosi e le radici serpentine a fior di terreno. Si stacca dal braccio del marito e porge la mano al signore seduto, scuro in volto davanti a un Pernod:
«Come va, Giorgio».
Per molti anni si sono incrociati nelle redazioni dei giornali femminili. Lui stesso, del resto, è stato un prolifico scrittore di romanzi rosa. Ma ora l’umore sembra buio, e la voglia di parlare scarsa.
«Bah» è la risposta.
Dal fondo del viale arriva trotterellando Paolo Villaggio, non si capisce se vestito da santone o addirittura in pigiama.
«Scusi ma … Scusi … Giorgio Scerbanenco ?» e si siede. «Ho perso le notti con il suo Duca Lamberti, sa». Ma non c’è risposta apprezzabile da parte dello scrittore, sembra in trance. « … e Milano l’ho conosciuta prima di tutto nei suoi gialli … sa … ».
Villaggio ha ragione. Con Venere privata, del 1966, la dimensione urbana viene finalmente ad animare il poliziesco all’italiana. A prevalere è senz’altro una connotazione violenta, ma anche una forte dose di realismo rappresentativo. Nel pieno del boom consumistico e della modernizzazione dei costumi, ciò che si percepisce è una petizione d’ordine, proveniente non tanto dall’opinione pubblica, quanto dall’interno, o dai dintorni, delle stesse istituzioni preposte a salvaguardarlo («La legge qualche volta favorisce i delinquenti e lega le mani agli onesti»). Sono i prodromi di quella maggioranza silenziosa che si manifesterà nel capoluogo lombardo nel corso degli anni settanta, sostenuta da una profluvie di B-movie e di campagne giornalistiche.
Non che la ricetta narrativa offerta da Scerbanenco si esaurisca in un mero gioco di effetti. Abile nel rifondere il tradizionale poliziesco a enigma con il nuovo giallo d’azione di provenienza americana, lo scrittore punta su un personaggio detective tutto sommato inedito nel panorama nostrano. Duca Lamberti: metà misantropo e metà filantropo. E poi medico, colto, laicissimo. Già condannato per eutanasia, maneggia con disinvoltura i termini di un freudismo ormai letterariamente maturo («isteria», «rete di complessi», «sub-conscio», «Super-io», «Eros e Thanatos»). Assoluta è però l’inconsapevolezza per le pulsioni sadiche che lo agitano, e che si manifestano aggressivamente a fronte di qualsiasi devianza sociale: delinquenza e pornografia, omosessualità, droga. Dietro il giustiziere fa così capolino il vendicatore, sotto i panni della vittima ecco il carnefice, secondo uno schema che ha molto a che vedere con il super-uomo di massa di origine appendicista. E di cui Umberto Eco potrebbe dire qualcosa, se non fosse seduto al bancone del bar, satollo di olive e di martini.
Duca Lamberti non nutre certo rimpianti per una socialità di tipo preurbano. Con la sua periferia – bacino sotterraneo di prevaricazioni e di nequizie – la città è l’unico universo dato. Al tempo stesso, si propone come novum inquietante: è un organismo complesso, caotico, che alimenta diversità odiose e inassimilabili; uno spazio della demarcazione anziché della mescolanza tollerante dei costumi.
Con timidezza ostinata, Villaggio qualche parola è pur riuscito a intavolarla. Per esempio quell’Alfa 2000, che talvolta aveva visto circolare per i romanzi dello scorbutico interlocutore.
«Pensi che era il mio sogno. E invece avevo una Cinquecento di seconda mano, con le portiere antivento.»
Della città del benessere appena conquistato anche Paolo Villaggio è stato umile cantore: su una nota grottesca, serialmente ribadita, ma non meno significativa da un punto di vista sociologico. Il primo volume titolato Fan tozzi è del 1971, e lì, in una prospettiva certo molto ridotta, il ceto medio celebrava la sua affluenza di massa, la sua epopea eroicomica, il post-elitarismo più rituale. Equitazione, body-building, concorsi di bellezza, viaggi all’estero, visite ai grandi magazzini, rappresentavano per il povero ragioniere altrettante occasioni di catastrofe.
Il personaggio avrà poi una riuscita più cinematografica e televisiva che letteraria. Sul piano della lingua, tuttavia, denunciava una originalità non occasionale. Con il tormentone degli «allucinante», «tremendo», «pazzesco», «mostruoso», «terrificante», dava luogo a un iperbolismo-surreale, un apocalittico-quotidiano, che per più anni rimarrà nell’uso elocutivo dei giovani italiani. Indice di un urbanesimo ormai affermato, volto all’ autoderisione, e alla demistificazione collettiva dell’inevitabile fatica connessa al vivere moderno.
«lo non ho mai nemmeno avuto una patente» sta dicendo Scerbanenco, in una specie di sorriso sarcastico. Quindi alza la testa, e subito l’espressione si converte in una smorfia di fastidio. Allacciati nel ballo, due uomini dal tight inappuntabile si stanno avvicinando pieni di souplesse.
Sono Carlo Frutteto e Franco Lucentini, sommamente incuranti ma insieme avidi di chiacchiere. La festa langue, per il loro gusto, e con larghi giri di danza sfiorano i tavoli, cercando di carpire schegge di conversazione: una pronuncia sbagliata, voilà, il nome di un pittore male accostato a quello di un drammaturgo.
Sul pettegolezzo più o meno da salotto, nel 1972, con La donna della domenica, hanno costruito un romanzo giallo di straordinaria maestria. Come Scerbanenco, anche loro hanno attinto al feuilleton e agli sfondi urbani contemporanei: ma in direzione tutt’affatto diversa. Del romanzo popolare ottocentesco non interessa qui l’eroe-vendicatore, ma la vasta campitura della vicenda, la proliferazione dei personaggi. E non tanto per ottenere una narrazione fluente, quanto un ricco e ben ritmato mosaico, intessuto di dialogismi divaganti e varietà psicologiche.
E così, nei modi del romanzo sociale e di costume, che prende forma Torino: un’amabile e un po’ ingiallita metropoli di provincia, in cui tutto è noto, familiare. Nessun aspetto perturbante la caratterizza. Anche qui si uccide, si traffica sottobanco, e ci sono omosessuali, ricattatori, voyeur. Ma sono le storie di sempre, a cui si può guardare con distacco e raffinata ironia. Sullo sfondo, ben si intuiscono gli sconvolgimenti indotti dalle grandi immigrazioni dal Sud della penisola, e l’autunno caldo, con i riverberi polemici suscitati nelle classi alte. Tuttavia la città sembra in grado di amalgamare tutto: è costretta a farlo, mentre tra le pagine, abbondantemente satireggiato, aleggia il rimpianto per la vecchia capitale ottocentesca e sabauda. li tavolo di Scerbanenco è ormai lontano. E proseguendo nel loro tourbillon perlustrativo, Lu­centini e Frutteto colgono giusto il momento in cui Oriana Fallaci si affaccia alla balconata della villa. Si accostano, fanno un inchino elegante e pilotano la scrittrice dalle parti di Susanna Tamaro.
Non succede nulla. Contornata da due giovanissime ammiratrici in abito orientaleggiante, l’autrice di Va’ dove ti porta il cuore mostra di non avvedersene.
Vent’anni intercorrono tra la pubblicazione di Lettera a un bambino mai nato (1975) e il clamoroso best seller della Tamaro (1994), eppure i due testi dialogano più di quanto sembri. Entrambi rimettono in auge il genere epistolare: o meglio, la scrittura intimistica indirizzata a un interlocutore muto. Entrambi disegnano un universo maschile in crisi profonda. Non per questo ne nasce da parte femminile un senso di inadeguatezza autodistruttiva, come un tempo era stato per Liala e da Verona. La brillante professionista tratteggiata dalla Fallaci, la donna «che ha scelto di vivere da sola», senza i conforti della religione, e la vecchia ottantenne ideata dalla Tamaro, anelano piuttosto a una condizione di indipendenza autosufficiente. La prima attaccando frontalmente l’istituto familiare, «portavoce di un sistema che non può !asciarti disubbidire»; la seconda cercando medicamenti a un’esistenza tra vagliata in una «casa-guscio» apportatrice di separatezza e protezione.
Ma meno inconciliabili di quanto ci si potrebbe attendere sono anche i valori su cui poggia una tanto orgogliosa autarchia femminile. Certamente la protagonista descrittaci dalla Fallaci nutre ideali eroici che travalicano le «leggi del formicaio». Al feto che porta in grembo trasmette i sensi di un attivismo radicale: «Incontrerai uomini che si fanno fare a pezzi per la libertà, subendo torture, magari accettando la morte». Un pessimismo angosciato sovrasta tuttavia tali prescrizioni della volontà etica. Ed ecco aperti vagheggiamenti di un limbo prenatale, giacché la libertà «è un’idea nata dal ricordo della tua vita prima di nascere, quando eri libero perché eri solo». Idem per la parità sociale, dato che «nell’uovo e basta siamo tutti uguali». Al confronto, la nonnina della Tamaro è per l’accettazione stoica di una assoluta, per quanto «crudele», normalità. A questo mirano i suoi insegnamenti, dettati da una lunga esperienza di vita. Un ideale quietistico, sembrerebbe, ma nient’affatto coerente con un’immagine di compiuta e responsabile maturità femminile, se è vero che a ogni pagina si rimpiange la fuoriuscita della nipote dall’età magica dell’infanzia. Ossia – secondo un grande mito decadente – lo smarrimento di una fanciullezza fantastica e precosciente, disponibile senza remare alla simbiosi affettiva con la veneranda tutrice della casa.
Erano i mesi in cui si preparava lo scontro politico sull’aborto, quando uscì la Lettera della Fallaci. E con le ripetute notazioni scientifiche, con lo spirito angosciosamente polemico che ne animava le pagine, il testo assumeva i toni di un pamphlet ideologico-divulgativo. A distanza di un ventennio, la T amaro sostituisce al corpo femminile, oggetto di battaglia e rivendicazione, una nuova retorica dei sentimenti. Non che emerga in Va’ dove ti porta il cuore alcun rimpianto per i tempi andati: guai, per una donna, tornare al familismo primo-borghese, fonte di minorità sessistica e di costrizioni intollerabili. Tuttavia il richiamo è a una saggezza senza tempo, giacché «la mente è moderna quando il cuore è antico».
Ora le due autrici fingono di non vedersi, e ciascuna conversando con i propri lettori si dispone ai lati opposti del parco. Tra le istanze ideologiche dell’una e il metaforismo sapienziale del­l’ altra, non di meno, il nesso è stretto; e a dispetto di un clima culturale tanto mutato, l’impressione che si ricava dai due testi è quella di una filogenesi diretta.
«E Benni ?» zufola Eco in un momento di quiete, con le spalle alla calca dei curiosi e fra le dita un sigaro ancora da smoccolare.
«Non si è visto» constata Alessandro Baricco, rastrellando il parco con un’occhiata rapida «Avrà mandato il certificato medico.»
Peccato. Se c’è un argomento su cui sarebbe stato bello vedere conversare il comico bolognese con la Tamaro, è proprio il ruolo del cuore. Nel 1983, Terra.’ adunava le risorse del sentimento e cercava di coniugarle con un nuovo razionalismo scientifico, di indirizzo ecologico e pacifista. Di fronte all’avvento pervasivo di una nuova civiltà tecnologica – si era ai primi bagliori della rivoluzione digitale – sembrano trascorse le grandi speranze di palingenesi collettiva. La resistenza si deve ormai concepire in una dimensione inter-individuale, o al massimo di piccolo gruppo. Lo spiega Mei, l’affascinante telepate, idolo positivo del romanzo: «Una piccola forza può fare grandi cose / se il cuore è colmo e decidi di procedere».
Il cuore, nella sua immediatezza intuitiva; e la volontà, in quanto difesa oltranzistica della propria dignità individuale. Con i suoi pimenti mistici e orientaleggianti, l’appello restituiva forti connotati etici. Ma la forma attraverso cui un tale messaggio veniva posto, dava luogo a una comicità dedita al più onnivoro post­modernismo. Se gli artifici linguistici, di tipo iperbolico, parodico, surreale, risultano le qualità più certe del Benni narratore, il bacino a cui mostrano di attingere, come a un grande contenitore di stereotipi e di miti culturali, è quello rappresentato dalla globaliz­zazione multimediale~ Film come Blade Runner, The Day after, Star Trek si mescolano alle arie d’opera e alle canzoni di Dalla, ai romanzi di Philip Dick, ai fumetti di Tamburini e Liberatore. In modo che la critica godibilissima della civiltà planetaria dello spettacolo risulti dall’utilizzo spregiudicato di quelle risorse comunicative che proprio i media di massa hanno sviluppato nel corso dell’ultimo secolo.
Se Eco chiede notizie di Benni, è perché tutto questo lo sa. Nel 1980, con Il nome della rosa, proprio lui gli ha preparato il terreno. Sino a tale data, un post-moderno dispiegato, consapevole di se stesso, da noi ancora non c’era. Sotto il profilo della struttura, certo il romanzo dedicato a Guglielmo da Baskerville è più progettato ed efficace. Là dove Benni imbastisce una serie mirabolante di racconti a cornice, Eco punta dritto sul giallo d’investigazione. Qui vince la sua scommessa, poi impreziosita dalle contaminazioni plurime con il romanzo storico, il conte philosophique, l’allegoria del brigatismo rosso, l’apologia – nel nome di Occam e di Ruggero Bacone – del nominalismo semiologico. Si può discutere sulla se­riosità degli intenti. Giacché, diversamente dal parodismo esplicito di Benni, in questo caso la manipolazione dei preesistenti materiali verbali dà luogo a un umorismo più ambiguamente interte­stuale. Tuttavia, mentre Benni cercava un correttivo all’utilitarismo economico e scientifico nelle suggestioni promananti dalla sapienzialità orientale, senza le quali la civiltà nostrana rischia l’ apo­calisse, qui è indubbio lo sforzo neo-illuminista. Se il rogo finale dell’abbazia medievale getta lampi oscuri sulla modernità incipiente, Il nome della rosa intona pur sempre il canto – precoce, non si sa se speranzoso o eternamente destinato alla sconfitta – della ragione empirica tra gli orrori del fanatismo fideista.
Baricco sembra emergere da un lungo malumore. Che ci fa a questa festa, perché è stato invitato? Guarda Eco che assapora il suo sigaro con voluttà da sibarita, e ne carpisce l’attenzione:
«Ma trent’anni di semiotica, a cosa sono serviti? Se lo è mai domandato?»
Certo a lui non è mai importato gran che. Eppure un’istintiva, disinibita sintonia con il largo pubblico l’ha pure dimostrata. E dopo l’esordio cospicuo di Castelli di rabbia, con Seta, nel 1996, sembra approdato ai lidi turistici di un neo-romanticismo esotico. Non si tratta qui di un romanzo, quanto di una novella; e lo stile scorciatissimo, ellittico ai limiti di un raffinato umorismo, porta con sé un alone d’altri tempi: di prosa d’arte essenzializzata, di tavolozze impressioniste. Così come per i filati in cui commercia Hervé Joncour, sfogliare queste pagine è «come tenere tra le dita il nulla». Ma un nulla che sa affascinare con il suo sapore di vecchia leggenda coloniale, di «altrove» coltivati nella mente a difesa di una quotidianità immeritata. Una partitura da melodramma pucciniano sorregge il volumetto, massimamente evidente quando il cantabile del viaggio torna e si inverte, dal confine di Metz fin oltre gli Urali, infine in Cina e Giappone. Poi ritorno. E di nuovo in viaggio, secondo una ciclicità languorosa, nei modi di una fantasticheria adorabile per la sua artificiosità centellinata.
La domanda è rimasta sospesa nell’aria. Eco sta trattenendo una boccata di fumo, e Baricco insiste:
«A cosa sono serviti, a distinguere meglio l’arte dalla fuffa? I romanzetti commerciali dalla letteratura vera?»
Dalla nuvola aromatica esce un «Mah !», non si sa se più scorato o evasivo.
Con il volto soddisfatto, reduce da un successo tanto vasto e repentino dopo anni di lavoro, Andrea Camilleri li sorprende così, contemplativi. Nella Concessione del telefono, del 1998, anche lui sembra muoversi all’indirizzo di una originalità tradizionale. Dietro l’immagine di una Sicilia dove tutto trascorre senza che nulla realmente cambi, si intuiscono senz’altro i grandi nomi del romanzo anti-storico, ma posti su una china discendente che porta piuttosto alla satira di costume, già intuibile nel disinvolto pastiche burocratico-dialettale. Per ribadire il cruccio di una modernità comunque destinata a soccombere, non sembra più necessario rappresentare il fallimento risorgimentale, le speranze suscitate da Giolitti, la sanguinosa sconfitta del movimento dei Fasci: tutti elementi che pure fanno capolino da dietro le quinte romanzesche. Basta Pippo Genuardi, commerciante in legname «pigliato a mezzo tra lo stato e la mafia».
Nella tragicomica vicenda di questo piccolo dandy di fine Ottocento, proprietario di un «quadriciclo a motore» e desideroso di una linea telefonica a scopi adulterini, è già emblematizzata tutta l’inanità criminale delle classi politiche postunitarie.
«Importuno?»
«Figurati, Camilluzzo» fa Eco, contento dell’intrusione. Tutti e tre s’incamminano verso il bar, bevono, concedono gli ultimi autografi.
«Hai firmato il mio» protesta Baricco. La risposta, in un’inglese oxfordiano, si perde nel vento. Ormai le luci si vanno spegnendo, la musica è cessata già da tempo, poca gente si avvita sui tavoli mostrando una tenacia mondana che rasenta il patetico. È allora che Stefano Benni varca il portone della villa accompagnato da una gran dama in prémaman. Ma la festa sembra proprio finita. Per la prossima occorrono altri cent’anni, e noi non ci saremo.