I successi del giornalista-scrittore

I confini del continente non narrativo corrono lungo i margini dell’universo dei libri nati sui giornali e di quelli scritti dai giornalisti. Una mappa complessiva potrebbe identificare sei grandi aree: la divulgazione, per lo più umanistica; le raccolte di articoli; la letteratura di viaggio; le biografie; i pamphlet, meno diffusi in Italia; e infine le interviste, una delle principali tecniche giornalistiche degli ultimi decenni.
 
I confini del continente dell’intrattenimento non narrativo corrono probabilmente lungo i margini dell’universo dei libri nati sui giornali e di quelli scritti da giornalisti. Naturalmente, nel corso del Novecento riviste e quotidiani hanno ospitato testi di scrittori «puri» confluiti in volumi del tutto estranei a un’ideale di intrattenimento leggero: esattamente come ai piani nobili del sistema letterario, esistono zone «alte» e «basse» di intrattenimento non-fiction, e del resto non sempre i giornalisti raccolgono in volume i propri pezzi. Basti pensare a tre grandi reporter sportivi scrittori più di articoli che di libri: Orio Vergani, Gianni Brera, Gianni Clerici.
In modo del tutto approssimativo, una mappa che tenga conto della produzione libraria di matrice giornalistica si potrebbe dividere in sei regioni: l. divulgazione; 2. raccolte di articoli; 3. letteratura di viaggio; 4. biografie; 5. pamphlet; 6. interviste in volume. Il gioco consiste nell’individuare alcuni titoli per ognuna di queste regioni, senza alcuna pretesa di esemplarità paradigmatica. Titoli interessanti – questo sì – ma niente di più.
Che in Italia la divulgazione sia non scientifica ma umanistica è un fatto genetico: bistrattati dagli esponenti istituzionali del sapere di cui consolidano il primato, ecco il filosofo Luciano De
Crescenza (tredici milioni di copie vendute in tutto il mondo), il «teologo giornalista» Vittorio Messori, lo storico Indro Montanelli, ed Enzo Biagi: solo in Italia i suoi libri hanno superato quota sei milioni. Fatto notevole, anche la storia letteraria sembra disposta a uscire dalla riserva degli specialisti: La letteratura italiana raccontata da Giuseppe Petronio (Oscar Mondadori) è solo una delle «letterature italiane per tutti» oggi disponibili. Nonostante le promettenti premesse ottocentesche (Antonio Stoppani, Michele Les­sona, Paolo Mantegazza), la divulgazione è un genere consolidatosi solo di recente. Eppure, facendo interagire pubblici diversi e nuove professionalità della scrittura, l’industria giornalistica introduce inedite dinamiche nella società letteraria nostrana sin dalla fine del XIX secolo.
[. . .] nessun grande scrittore poté negli ultimi cinquant’anni sottrarsi al giornale»; sono parole di Alfredo Oriani, datate: «Casola Valsenio, 11 ottobre 190 l» (Fuochi di bivacco, Cappelli, 1914). Sin dall’inizio del Novecento l’editoria libraria attinge a piene mani dal circuito giornalistico, anzitutto nel modo più semplice e diretto, raccogliendo cioè gli articoli delle firme in voga. Nascono così sia Fuochi di bivacco di Oriani sia Cose viste (Treves) di Ugo Ojetti, modello ineguagliato del genere, un successo del 1923 rilanciato in 6 tomi da Mondadori negli anni quaranta.
Cose viste è un vero e proprio compendio di generi giornalistici: raccoglie articoli di viaggio, ritratti di personaggi (scrittori, uomini politici, figure storiche come La Regina Margherita), cronache, aneddoti, testimonianze, persino un «coccodrillo»: « È morto Giovanni Marradi, anima semplice e buona, poeta sereno». Il segreto del successo sta nell’atteggiamento familiare del «cronista» (così si definisce) e nella sua prosa: al servizio del lettore, Ojetti scrive in modo chiaro, moderno, procede argomentando con ordine, esibisce padronanza di mestiere e fa l’elegante, ma con misura. Interpreta insomma perfettamente il ruolo del trait-d’union fra il mondo istituzionale e mondano che gli apre le porte, e il pubblico che ne rimane escluso ma – grazie a lui – non ignaro. La formula ebbe successo: quando Achille Campanile sostiene che «li meglio della nostra letteratura di oggi è nato sui giornali» (Battista al giro d’Italia, Treves, 1932), cita proprio le Cose di Ojetti, insieme alle Stampe dell’Ottocento (Treves, 1932) di Aldo Palazzeschi, a cui si possono aggiungere Confessioni e ricordi di Ferdinando Martini (Bemporad, 1922; Treves, 1928). A qualificare le Stampe e la raccolta di articoli di Martini è infatti la vena memorialistica, peraltro non estranea a Cose viste. Martini – il colto e raffinato testimone ormai ottantenne dei primi decenni di storia unitaria – attinge alla cronaca, descrive ambienti, coglie atmosfere, ritrae personaggi celebri e sconosciuti con piglio sornione e pacato umorismo, in una prosa arguta che procede aneddoticamente. Non è pubblico ma privato, invece, l’orizzonte delle Stampe di Palazzeschi, pagine che «vogliono solo accennare con onestà lo spirito inafferrabile di un fanciullo, dai due ai sei anni, nel quadro pittoresco dei suo tempo». Chi racconta si rivolge al lettore con atteggiamento bonario e indulgente, con garbata ironia, dandogli del «tu» in una lingua scorrevole appena patinata di fiorentino parlato.
Se le raccolte miscellanee tendono a perdere terreno con il procedere del secolo, il giornale si configura sempre più come sede ideale per articoli di viaggio destinati alla pubblicazione in volume. Nascono così la maggior parte dei reportage dedicati all’Italia fra gli anni venti e quaranta. Ha ragione Alvaro: «È un fatto che mai, come dalla guerra a questa parte, gl’italiani hanno scritto tanto dell’Italia» (Itinerario italiano, Quaderni di Novissima, 1933 ). Pur con le debite differenze, i vagabondaggi di Alfredo Panzini (La lanterna di Diogene, Treves, 1907), di Antonio Baldini (Italia di Bonincontro, Sansoni, 1940) e di Bruno Barilli (lo stivale, Casini, 1952) ritraggono un’Italia provinciale, scrigno di tesori d’arte nascosti, di luoghi romiti, di panorami idealizzati. Un paese spopolato descritto con maestria, colta eleganza, in pagine in cui il viaggio è spesso pretesto per esercizi di stile, pagine però – e questo colpisce – ancora oggi di notevole (e gradevole) leggibilità. Con i celebri «viaggi» di Carlo Levi l’atteggiamento cambia: il documentarismo testimoniale (fortemente stilizzato) di Cristo si è fermato a Eboli (Einaudi, 1945) e di Le parole sono pietre (Einaudi, 1955) è infatti sintomatico dell’epoca che si suole definire «neorealista». In cui hanno notevole importanza anche inchieste vere e proprie, come quelle di Danilo Dolci in Sicilia, Banditi a Partinico (Laterza, 1955) e Inchiesta a Palermo (Einaudi, 1956).
Concepito non a caso come serie di trasmissioni radiofoniche, il Viaggio in Italia (Mondadori, 1957) di Guido Piovene è uno dei primi ritratti novecenteschi «a tutto tondo» della nazione e delle sue innumerevoli identità e risorse locali. Con un atteggiamento improntato alla disponibilità, Piovene assembla materiali documentari, interviste, testimonianze, letture ad hoc, riflessioni personali, e costruisce così un memorabile ritratto d’Italia. Un paese raccontato poi da molti altri, fra cui (quanto mai diversi) Guido Ceronetti – prima in Un viaggio in Italia (Einaudi, 1983 ) , poi in Albergo Italia (Einaudi, 1985) – e Michele Serra (Tutti al mare, Milano Libri, 1986). L’uno in un sulfureo e aristocratico viaggio nell’Italia perduta (della tecnologia, del consumismo, del degrado ambientale), l’altro in una vacanza nazio­nal-popolare a tappe forzate lungo le coste da Ventimiglia a Trieste, in agosto. Ceronetti procede a strappi, quasi aforisticamente, Serra fra divertenti trovate umoristiche e osservazioni sarcasticamente corrosive. A rappresentare invece i tanti inviati oltre i confini patri nel corso del secolo ecco uno straordinario professionista. In Un indovino mi disse (Longanesi, 1995) Tiziano Ter­zani si dimostra grande scrittore, a dispetto di un’antiletterarietà talmente esibita da sembrare inconsapevole.
Per quanto riguarda il genere biografico, l’indagine potrebbe partire da due tappe emblematiche: I:Uomo nuovo di Achille Beltramelli del 1923 e Dux di Margherita Sarfatti (almeno 15 le edizioni), stampato tre anni dopo. Biografie emblematiche per il soggetto (massima sfida per il biografo) ma soprattutto per le strategie rappresentative, che faranno scuola. Beltramelli concepisce Mussolini come il più degno rappresentante della Romagna, delle sue tradizioni e della sua cultura, autentica espressione dell’ «anima molteplice, oscura e luminosa di questa terra forte» (I: Uomo nuovo, Mondadori, 1923). Una forza della natura, certo, ma con un cammino difficile davanti a sé: «Era povero e solo; era l’ultimo e sentiva di dover essere il primo. Doveva superare una strada lunghissima». La biografia traccia questa strada, con una scelta rappresentativa molto diversa da quella della Sarfatti. «Romano nell’anima e nel volto, Benito Mussolini è una resurrezione del puro tipo italico, che torna ad affiorare oltre i secoli» (Dux, Mondadori, 1926): incarnazione transtorica dell’italianità, il duce è un’icona, non un personaggio, è un monumento, non un uomo. Dux celebra la rivelazione di un essere superiore, e infatti la vita di Mussolini è frantumata in episodi emblematici del carattere dell’eroe, snocciolati senza alcun rispetto per l’effettiva successione temporale degli avvenimenti. Quanto la prosa di Beltramelli è fascinosa ed evocativa, a suo modo accattivante, tanto le parole della Sarfatti sono assiomatiche e perentorie, il suo procedere apodittico. Pur vicini nel tempo, L’Uomo nuovo e Dux sono dunque due biografie quanto mai diverse. Anche perché a separarle è una data capitale: il 1925 della dittatura.
Nel corso del secolo il genere biografico va articolandosi: se collane come le Scie di Mondadori (inaugurata nel 1926) e Le vite di Rusconi (oggi la collezione di riferimento per gli appassionati) si rivolgono a un ampio pubblico, La vita sociale della nuova Italia di UTET (nata negli anni sessanta) ha un target decisamente più elevato e uno standard scientifico. Ma le biografie «fuori collana» non si contano: valgano a rappresentarle la fortunata Vita di Antonio Gramsci (Laterza, 1966) di Giuseppe Fiori e Vita agra di un anarchico (Baldini & Castaldi, 1993) di Pino Corrias, bella storia di Luciano Bianciardi.
Degni rappresentanti del pamphlet, un genere poco diffuso in Italia, sono due volumi distanti nel tempo e molto diversi fra loro. Nel 1917 escono prima e seconda edizione riveduta di Stroncature di Giovanni Papini. Il libro colpisce sin dal primo capitolo (datato 1905), in cui una serrata critica alla Logica di Croce è condotta con una chiarezza espositiva e una modernità linguistica davvero sorprendenti: sono pagine che corrono via, leggere. Il tono confidenziale induce il lettore ad allearsi alle spalle della vittima di turno con il critico, condividendone sorrisi, ironia, sarcasmo, polemiche e invettive. Il fatto è che Papini non si erge a giudice depositario di autorità e sapere, ma impugna argomenti di buon senso e fa valere condivisibili reazioni di lettura: «Dopo essermi ciucciato le quasi cinquecento pagine che Guido Mazzoni intitola, con semplicistica superbia, Poesie, ho diritto, perdio, a una qualche ricompensa» (Stroncature, Libreria della Voce, 1917). Anche se in qualche caso la sua prosa è un po’ troppo ostentatamente popolaresca (e toscaneggiante), nel complesso gli ingredienti sono ben dosati: fra arditi stranierismi («giornalisti flirteggianti colla filosofia») e modi di dire («tornare alla carica», «non sapere un accidenti») emergono personaggi bistrattati in modo memorabile, come Emilio Cecchi travestito da «donnaccola isterica e cattivella».
In Giovanni Leone la carriera di un presidente (Feltrinelli, 1978) Camilla Cederna costruisce un’inchiesta-puzzle disponendo i pezzi del gioco intorno alla figura dell’antieroe protagonista. Si parte dal centro del bersaglio e si procede per amplificazione, dalla causa agli effetti. Dopo il ritratto perfidamente indulgente del Presidente, come tanti cerchi concentrici ecco la sua storia personale, la famiglia, l’entourage (per nome e cognome, tutta la corte), fino agli episodi eclatanti degli scandali storici. La Cederna non molla mai la presa, inesorabile e documentatissima, e costruisce una macchina che procede a ritmo serrato inchiodando l’ «ometto» alle sue tremende responsabilità.
Se l’elzeviro è il genere letterario-giornalistico tipico degli anni trenta, a imporsi fra le principali tecniche giornalistiche negli ultimi decenni è senz’altro l’intervista. Non che manchino esempi significativi anche prima, basti pensare alla formula del viaggio-intervista inaugurata dai Ritratti letterari (Treves, 1881) di De Ami­cis e portata al successo da Alla scoperta dei letterati (Dumolard, 1895) del solito Ojetti. In Italia gli archetipi dell’intervista scritta sono questi, che concedono un ampio spazio alla formulazione di domande e risposte argomentate distesamente. E tu chi eri? (Bom­piani, 1973) di Dacia Maraini si inserisce in questo filone: anche se le domande sono stringate, il discorso procede con il respiro e l’andamento tipici del testo scritto. Una variante recentemente molto in voga di questa linea è quella dei libri-intervista (Montale­Nascimbeni, Pasolini-Duflot, Falcone-Padovani ecc.), di cui è ottimo esempio il Colloquio con Edoardo Sanguineti di Fabio Gam­bara (Anabasi, 1993).
Il dito nell’occhio (Rusconi, 1977, alla sesta edizione nel febbraio ‘78) di Roberto Gervaso – il famoso Grillo parlante – è invece il primo esempio italiano di trasposizione sulla pagina dell’intervista televisiva: «Nel maggio del ‘76 Gustavo Selva, balzato in sella al GR2, mi chiese d’intervistare i neo-candidati alle elezioni politiche del 20 giugno, ammonendomi: “In due minuti devi chiedere e farti dire tutto. Niente chiacchiere, niente fronzoli e nessuna riverenza per nessuno, nemmeno per il Presidente del consiglio”». Le domande e le risposte sono brevissime, ritmate, e il discorso procede a salti, senza sviluppo di argomentazioni da parte dell’in­tervistato né considerazioni del giornalista. Per farsene un’idea, ecco un passo tratto dal dialogo con Silvio Berlusconi: «D. Un imprenditore, secondo lei, deve far politica? R. No, se i politici gli permettono di fare l’imprenditore. D. Andrebbe volentieri a Montecitorio? R. No, e non perché sottovaluti la funzione del Parlamento. D. Perché. allora? R. Credo che un deputato o un senatore, se vuole davvero incidere debba impegnarsi totalmente, e questo sarebbe incompatibile con la mia attività imprenditoriale. D. E al Parlamento europeo? R. A chi non piacerebbe partecipare alla fase costituente della nuova Europa [ ]? Ma anche qui dovrei prima cambiare mestiere». Parole sacrosante.