I poeti della comunicatività

Un rapporto non immediatamente conflittuale con la tradizione; una modalità di scrittura che prevede un destinatario amante della poesia, ma non necessariamente letterato di professione; una scrittura che non indugia in figure di pensiero, ma privilegia figure di parola; un andamento prosastico e narrativo, immerso soprattutto in una dimensione di vita quotidiana. Dal Canzoniere di Saba a La vita in versi di Giudici, la poesia istituzionale comprende personalità molto diverse come Penna, Caproni, Bertolucci.
 
Scrive Umberto Saba, facendosi critico della sua stessa opera, che: «Il Canzoniere è il libro di poesia più facile e più difficile» tra quelli usciti nella prima metà del Novecento; e lo definisce «la storia (non avremmo nulla in contrario a dire “il romanzo”, e aggiungere, se si vuole, “psicologico”) di una vita, povera (relativamente) di avvenimenti esterni; ricca, a volte, fino allo spasimo, di moti e di risonanze interne» (Storia e cronistoria del Canzoniere, 1948).
Si può prendere il via da queste affermazioni, per dar conto di alcune importanti esperienze poetiche novecentesche riconducibili alla letteratura «istituzionale»: l’aggettivo non comporta alcun giudizio di valore, ma indica sia l’esistenza di un rapporto non immediatamente conflittuale con la tradizione, sia una modalità di scrittura che ha inscritto in sé un destinatario amante della poesia ma non necessariamente specialistico, e dunque una possibilità di lettura che favorisce quella prima iniziale comprensione (non importa quanto criticamente consapevole) per lo più programmaticamente esclusa dagli scrittori d’avanguardia o comunque elusa da altre linee poetiche.
La comunicatività del dettato non significa, per altro, abbassamento della ricerca stilistica. Da qui la contemporanea «difficoltà» dei versi «facili», e la necessaria consapevolezza, almeno in sede critica, del fatto che la lettura della poesia istituzionale può (e deve) essere condotta a livelli diversi. Si potrebbe dire, a questo proposito, che, più di ogni altra, la poesia istituzionale porta con sé una dimensione allegorica: dice sempre qualcosa pur rimandando anche ad altro, che va colto nella specificità del singolo componimento o in un gruppo di poesie. Il lettore può quindi leggere «alla lettera», senza sentirsi respinto; il poeta, spesso, gli rivolge un’attenzione particolare, chiedendo comprensione, avanzando giustificazioni, cercando un dialogo (in tarda età Saba conclude Quasi un racconto, 1951, con i versi di Al lettore: «Questo libro che a te dava conforto, buon lettore, è vergogna a chi lo crebbe … »).
La scrittura della poesia istituzionale non indugia in figure di pensiero ma piuttosto privilegia figure di parola, se è possibile introdurre una distinzione molto schematica, che non tiene conto di situazioni composite e di fasi intermedie, ma che dà immediatamente l’idea di una possibile distinzione sul piano formale. Nella stessa direzione va la scelta dell’andamento prosastico e narrativo: anche questo registro, del resto, contribuisce a rendere il lettore partecipe dei versi, soprattutto quando la poesia esibisce una dimensione quotidiana che potrebbe essere la sua.
Non c’è dubbio che, fissando in questo modo le prime coordinate della poesia istituzionale, nello stesso momento interne ed esterne alla scrittura, si viene a ritagliare un territorio dentro il quale alcuni nomi vengono accolti e altri restano inevitabilmente fuori. Tra questi, meglio dirlo subito, poeti di alta qualità, che, pur non accogliendo le sollecitazioni dell’avanguardia o di uno spregiudicato sperimentalismo, seguono tuttavia strade diverse, nel loro complesso, da quelle della letteratura istituzionale: basti citare, come esempio di esperienze molto differenziate, i nomi di Cesare Pavese (il cui racconto si volge al mito, anche quando narra la realtà delle Langhe), di Mario Luzi e degli ermetici, di Vittorio Sereni, della voce isolata (prima e dopo la conversione) di Clemente Rebora; forse anche di Pasolini, i cui versi migliori sono sperimentali. Restano esclusi, ma solo per ragioni di lingua, anche i dialettali, che invece hanno spesso tutti gli altri caratteri della poesia istituzionale (ne sono una testimonianza rilevante le poesie-racconto di Raffaello Baldini, che scrive nel dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna).
Prima di procedere oltre c’è da aggiungere ancora un’osservazione: si possono, o addirittura si devono, inserire nel territorio sopra delineato alcune poesie che, nate con altri intenti, sono diventate «istituzionali» nel corso degli anni, seguendo i cambiamenti delle modalità con cui i lettori si sono via via accostati a esse.
È questa la condizione di molti componimenti di Il porto sepolto di Giuseppe Ungaretti (prima edizione 1916) e di Ossi di seppia di Montale ( 1925 ), letti e riletti anche ai più diversi livelli scolastici.
Le poesie del Porto sepolto, nate sul fronte, sono ormai lette come la meditazione del soldato che guarda con un misto di inquietudine, di malinconia, di stupore, di sbigottimento sia la natura che lo circonda, devastata dalla guerra ma non destituita di una sua imperturbabile estraneità, sia i poveri compagni, quelli vivi e quelli morti, entrambi emblema dell’ «uomo presente alla sua / fragilità». Ungaretti non è ovviamente riconducibile alla sua prima breve raccolta, ma per i versi di questa è diventato «poeta istituzionale». Lo sviluppo della sua attività poetica non va certo nella direzione del «romanzo» di un’esistenza, benché il titolo dell’opera complessiva sia Vita d’un uomo (1969), ma non si può non ricordare come proprio in apertura del Porto sepolto si legga una sequenza eminentemente narrativa: «In memoria / di / Moammed Sceab / discendente di emiri di nomadi / suicida / perché non aveva più / patria / l Amò la Francia / e mutò nome in / Marcel / ma non era francese / e non sapeva più / vivere / nella tenda dei suoi / dove si ascolta la cantilena / del Corano / gustando un caffè».
Anche Montale, che programmaticamente si pone il superamento di una lingua poetica fondata sui «nomi poco usati», è ormai annesso ai territori della letteratura istituzionale per il suo primo libro: i versi sulla «vita e il suo travaglio» si sono, nel tempo, resi disponibili per molti lettori. Se l’esistenzialismo tra le due guerre può essere riconosciuto anche nella poesia italiana istituzionale, il merito sembra essere appunto delle poesie di Ossi di seppia, non importa se scritte prima dei saggi dei filosofi o delle pagine dei romanzieri. Alcuni componimenti, in particolare, sono entrati nell’immaginario poetico collettivo, che li riassume ricorrendo emblematicamente a due versi: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Le scelte dei poeti originariamente istituzionali sono, comunque, diverse, e la loro omogeneità permette di individuare una linea specifica dentro la poesia italiana del Novecento.
È davvero quasi un paradosso che Saba intitoli il suo «romanzo in versi» Canzoniere, con un richiamo a un’alta tradizione lirica da lui ricondotta a una più dimessa atmosfera quotidiana. Saba non nega affatto le forme poetiche della tradizione, ma le rinnova nel doppio movimento di piegare a esse gli oggetti e gli argomenti della vita di ogni giorno, e di portare quelle forme fuori del contesto letterario cui erano destinate.
Il poeta può dunque ricordare di essersi incantato per «la rima / fiore / amore, / la più antica difficile del mondo», ma anche di avere amato «trite parole che non uno / osava» (Amai). Con esse ha via via presentato il racconto di un’infanzia difficile (soprattutto per l’assenza del padre, non conosciuto e comunque lontano: «Mio padre è stato per me l’” assassino”»), riletta attraverso un filtro tipico del Novecento, la psicoanalisi, oltre che nella chiave di un altro tema altrettanto novecentesco: il conflitto delle origini, o, più in particolare, l’appartenenza (magari dimidiata) all’ebraismo. Nel romanzo di Saba sono però entrati, con uguale importanza, le strade di Trieste e l’amore per la moglie (significativo il titolo Trieste e una donna), l’affetto per la figlia, il dibattito politico del dopoguerra, il gioco del calcio, i canarini e altri temi analoghi.
Si può forse dire che l’eredità di Saba è raccolta, negli anni cinquanta, da Giovanni Giudici, quando intitola la sua prima raccolta La vita in versi (1965): già nel titolo si intravede l’estensione dello sguardo dalla «vita d’un uomo» alla dimensione collettiva, riconoscibile anche nella poesia che dà il titolo al libro: «Metti in versi la vita, trascrivi / fedelmente, senza tacere / particolare alcuno, l’evidenza dei vivi». A partire da questa dichiarazione di poetica Giudici intreccia lo svolgersi di un’esistenza individuale e quarant’anni (e più) di società italiana, con una scrittura caratterizzata da un continuo colloquio (e dunque da un registro accentuatamente spinto verso la prosa) tra sé e sé, o tra sé e un interlocutore al quale il lettore può sostituirsi. È questo è il tratto stilistico più riconoscibile dell’intera sua poesia (raccolta, fino al 1990, in Poesie 1953-1990), nonostante la contemporanea presenza, che cresce di raccolta in raccolta, di un registro lirico più ricercato, nel quale si inscrive lo sperimentalismo di Salutz (anche quest’opera, del 1986, può essere letta come un romanzo, ma è un romanzo più vicino alla narrazione amorosa dei Middesanger medioevali o dei trovatori provenzali che alla forma narrativa moderna) .
I ricordi di Giudici sono sotto il segno dei debiti, ma anche dell’estrosità, del padre («li figlio del debitore – io / sono stato. / l Per il mio padre pregavo al mio Dio / una preghiera dal senso strano: / rimetti a noi i nostri debiti / come noi li rimettiamo», Piazza Saint-Bon), e lacerati dalla morte, in giovane età, della madre; le vicende dell’età adulta divise tra i problemi del lavoro e la vita in città («Se sia opportuno trasferirsi in campagna / spesso pensiamo: qui ci tiene il lavoro … »); il richiamo ad amori più o meno duraturi divisi tra il sesso e l’affetto; la domestica vita familiare («Una sera come tante, e nuovamente / noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro / settimo piano, dopo i soliti urli / i bambini si sono addormentati … »); gli scontri politici e ideologici; l’inquietudine religiosa, che muove dallo sfondo dell’educazione cattolica ma per aprire interrogativi più generali sull’esistenza, fino all’ultima invocazione di Empie stelle (1996): «Vivo per esser vivo / Quando che sia raggiunto / Dal fine del mio nascere / Dove remoto scrivo – Il Vero il Nulla il Punto» (L’ultima volta).
A partire dalle annotazioni tematiche introdotte per Giudici è possibile schematizzare e generalizzare alcuni dei motivi ricorrenti nella poesia istituzionale, suggerendo, sebbene di sfuggita, altri nomi di poeti la cui lettura andrebbe approfondita. Ecco allora il ripensamento della propria infanzia nel confronto con la figura del padre (esemplare a questo proposito La guerra di Giovanni Raboni, da A tanto caro sangue, 1988: «Ho gli anni di mio padre – ho le sue mani, / quasi: le dita specialmente, le unghie, / curve e un po’ spesse, lunate … ») e nella nostalgia per la madre («Mia madre cuciva tomaie [ … ] Io nel mio letto / voltavo pagina e intanto / ascoltavo lo scatto della Singer … », ricorda Fernando Bandini in Memoria del futuro); la conflittualità e la felicità dell’amore sensuale, ma anche la dimensione familiare (quel «tempo familiare da cui non ha senso scampare», come scrive Giorgio Orelli in I.: ora del tempo, 1962); il rapporto privilegiato con i luoghi della propria origine o momenti particolarmente intensi; la dimensione della storia collettiva sotto l’angolatura della cronaca; l’incalzare del tempo («Sono qui nell’ombra declinante degli anni … » è l’avvio di Il ritorno della cometa di Ban­dini, da Santi di dicembre, 1994); l’interrogazione religiosa che introduce domande sul significato della vita e sulla presenza/assenza di Dio (Bandini, ancora in Il ritorno della cometa, compie una personale rilettura del Padre nostro e sullo sfondo c’è il ricordo del padre: «Sento solo la voce di mio padre nel vuoto [. .. ] / [ … ] Ma tu, / Padre nostro, se sei nei cieli, / se vuoi che sia santificato il tuo nome, / manda una stella ad annunciare il Regno, / [ … ] / E non c’indurre nella tentazione / di rinunciare a vivere / per paura dell’eternità») .
Tutti (o quasi) i temi fin qui presentati sono al centro del­l’ ampia opera di Giorgio Caproni. Se la quotidianità di Giudici detta una poesia affabulatoria, quella di Caproni si dispiega piuttosto nella musicalità del canto, spesso raggiunta con il ricorso alla rima baciata o alternata: «Anima mia, fa’ in fretta. / Ti presto la bicicletta, / ma corri. E con la gente / (ti prego, sii prudente) / non ti fermare a parlare / smettendo di pedalare» (in Il seme del piangere, 1959). Caproni ricorre alla «canzonetta» soprattutto per ricordare la figura della madre sullo sfondo della sua Livorno: da lei deve andare l’anima-poesia, spiandola, a ritroso del tempo, nella sua giovinezza («Porterà uno scialletto / nero, e una gonna verde»), nella quale si proietta lo stesso figlio («Dille chi ti ha mandato: / suo figlio, il suo fidanzato … »). C’è poi «Genova mia di mare tutta scale», e altri luoghi dove può andare il ricordo, che tradisce sempre la sofferenza, nonostante la nostalgia, come in Scalo dei fiorentini: «Li ho visti tutti. Sedevano/ (le gambe penzoloni) / sulla spalletta. C’era / Otello, il Decio, il Rosso, / l’Olandese. n Vigevano. / C’erano altri … I nomi / li ha con sé il vento … » (in Congedo del viaggiatore cerimonioso, 1965).
Quando si interroga su Dio, Caproni apre un vero e proprio contenzioso con l’Alterità, e la scrittura diventa lucida e tagliente, per affermare la «stoica accettazione» della «solitudine senza Dio» (in Il /ranco cacciatore, 1982) pur in una continua tensione esistenziale: «Andavo a caccia. n bosco / grondava ancora di pioggia. / M’accecò un lampo. Sparai. / (A Dio, che non conosco?)» (Preda).
Sulla linea narrativa della poesia istituzionale si può collocare anche l’intera opera di Attilio Bertolucci. Non è forse senza significato che lo scrittore persegua un vero e proprio romanzo in versi con La camera da letto (1984-1988), per dar conto della propria famiglia d’origine e dei luoghi in cui si è radicata. Già nei componimenti di La capanna indiana (1951, poi 1955 e 1973), tuttavia, sono presenti i caratteri dei quali qui si sta dicendo: proprio in questa raccolta c’è una breve poesia intitolata Romanzo, che suggerisce lo spunto di una possibile narrazione (il mistero di una carrozza che «partì / una sera d’autunno / e più non ritornò»), e il confronto tra due momenti di una cittadina di provincia, quasi immodificabili se non fosse che «il grigio e il lilla / si mutano in verde e rosso per la moda … » (Gli anni).
La famiglia d’origine, i propri luoghi, il proprio posto nel mondo, la presenza o l’assenza di Dio: questi motivi sono rintracciabili, con la scrittura dall’andamento più prosaico che lirico, nei poeti «istituzionali» più rappresentativi che esordiscono negli ultimi decenni del secolo. Maurizio Cucchi, per esempio, dopo aver messo il confronto con il padre al centro di un poemetto in prosa, Glenn (1982, poi inserito nella raccolta Donna del gioco, 1987), ancora in Poesia della /onte ( 1993 ) fa rivivere, nella scrittura colloquiale e prosastica di ‘53, l’uomo che «ancora giovane» indossava «un soprabito grigio molto fine» e «Teneva la mano di un bambino / silenzioso e felice. [. .. ] Era la primavera del ‘53, / l’inizio della mia memoria. Luigi Cucchi / era l’immenso orgoglio del mio cuore, / ma forse lui non lo sapeva».
Il racconto della vita quotidiana spinge tuttavia anche in altre direzioni, nelle quali vengono privilegiati singoli aspetti, da riconoscersi in momenti particolare della produzione di autori per altro molto diversi tra loro.
È il caso di Elio Pagliarani con il poemetto La ragazza Carla (1960, poi in La ragazza Carla e altre poesie, 1962), che conserva a differenza di tanti versi del secondo Novecento dedicati all’ at­tualità politica e ideologica – una sua efficacia nell’affrontare il tema dell’alienazione del lavoro (e più in generale della società capitalistica) attraverso il personaggio di «Carla Dondi fu Ambrogio di anni / diciassette primo impiego stenodattilo all’ombra del Duomo». Lo sperimentalismo del poemetto, dettato da una forte carica polemica nei confronti della poesia lirica, è ora un felice esempio di contaminazione di registri linguistici diversi dentro la lingua quotidiana: «Sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro / sia svelta, sorrida e impari le lingue / le lingue qui dentro le lingue oggigiorno / capisce dove si trova? Transocean Limited / qui tutto il mondo … / è certo che sarà orgogliosa». Per la riflessione qui condotta è per altro significativo che, nel 1997, La ragazza Carla sia stata riproposta in un volume intitolato Romanzi in versi, che raccoglieva anche La ballata di Rudi, un testo sperimentale del 1995, la cui narratività non partecipa dei caratteri indicati per la poesia istituzionale ma piuttosto di quelli dell’avanguardia.
Di tutt’altro genere è la poesia d’amore omosessuale di Sandro Penna, coltivata tra gli anni trenta e i settanta e ora quasi tutta raccolta in Poesie (1989). I ragazzi che in essa ricorrono, pur essendo tutti dentro la realtà (in «anonime stazioni», sui treni, sulla spiaggia, tra i campi, con la bicicletta al fianco), sono fuori della storia, così come fuori della storia è la «strana / gioia di vivere anche nel dolore» del poeta. Penna innalza su ogni altro il piacere della bellezza e della sensualità che ne deriva, cui non si affianca mai il senso di colpa ma piuttosto la malinconia della perdita e della solitudine («Malinconia d’amore, dove resta / bianco il sorriso del fanciullo come / un ultimo gabbiano alla tempesta»); nelle sue poesie, a volte brevissime – semplici «appunti» (cÒ.me vuole uno dei titoli delle sue raccolte) di una lunga narrazione in versi – rivela sempre la disposizione al canto puro, favorito da una scrittura che, pur ricorrendo al lessico quotidiano, sottrae ogni parola al suo possibile contesto, innalzandola in una limpidezza non cancellata dai decenni, a una musicalità che partecipa (come in Saba e in Caproni) della tradizione della rima baciata e della canzonetta leggera: «un sogno di bellezza un dì mi prese. / Ero fra calda gente in un caldo paese».
L’icasticità di certe poesie di Penna – «Non è la timidezza che tu celi forse un sogno / confuso degli dèi?» – suscita la suggestione dei frammenti dei lirici greci, entrati a far parte pienamente della poesia italiana quando, nel 1940, Salvatore Quasimodo ne ha dato una nuovissima traduzione assecondando i modelli lirici del suo tempo. La raccolta dei Lirici greci può essere considerata la più bella opera in poesia di Quasimodo, quella che più di tutte le sue resiste al tempo, ma è soprattutto uno dei libri che hanno contribuito a diffondere, anche nell’ambito della poesia istituzionale, un modello di poesia diviso fra tradizione classica e sensibilità moderna, e l’idea della parola poetica come res che trasmette incanto e bellezza: «Tramontata è la luna / e le Pleiadi a mezzo della notte; / anche giovinezza già dilegua, / e ora nel mio letto resto sola» (i versi sono di Saffo, il tono poetico di Quasimodo).
Anche i Lirici greci, tuttavia, contengono spunti narrativi: «Cenai con un piccolo pezzo di focaccia, / ma bevvi avidamente un’anfora di vino; / ora l’amata cetra tocco con dolcezza / e canto amore alla mia tenera fanciulla». Nella traduzione di Quasimodo il frammento di Anacreonte porta con sé qualcosa di eterno, secondo un’idea di lirica novecentesca, e tuttavia la focaccia e il vino conservano la loro materialità, come l’amore per la «tenera fanciulla», che ispira il canto sulla cetra.