Le antitesi della poesia di ricerca

Cinque temi contraddittori; per illustrare l’area più conflittuale della lirica novecentesca. Agli estremi del secolo, due raccolte di Sbarbaro e Loi esemplificano la dicotomia poesia in prosa/romanzo in versi; laddove Allegria di naufragi e Lavorare stanca mostrano l’incertezza dei giudizi intorno alla coppia varietà/uniformità, e dietro i libri di Rosselli e Sereni si intravedono i frequenti scacchi delle poetiche. Infine, la necessità dello strumento-antologia trova in Sanguineti e Brevini interpreti divisi tra la polemica e l’intervento di servizio, mentre le opere canoniche di Zanzotto e Montale inducono una riflessione sui modi in cui può realizzarsi la novecentesca complementarità di lettore critico e opera.
 
I confini, innanzi tutto. Il Novecento «breve» della poesia sperimentale necessita, con ogni evidenza, d’una delimitazione altrettanto sperimentale, blandamente provocatoria, e comunque in grado di suggerire valori in progress, funzionali ad altri esperimenti, a ricerche artistiche non paghe dei propri esiti. E allora perché non puntare subito su due raccolte in molti sensi «di frontiera», come Trucioli di Camillo Sbarbaro (uscita nel 1920, ma frutto del lavorio di più d’un lustro) e L’angel di Franco Loi (1994, culmine d’un trentennio e più di riflessioni e scritture)? Da un lato dunque, nel secolo del verso libero, la provocazione d’una poesia che ogni metrica cancella, polemicamente abolisce, e in questo modo corre il rischio di non esser nemmeno riconosciuta come «lirica», venendo relegata ai margini del dominio poetico strettamente inteso, confinata in una terra di nessuno davvero imbarazzante. Fate una prova: e verificate quanti dei pur bellissimi Trucioli, baudelairiani come lo sono state poche altre opere in lingua italiana, figurino nelle antologie della poesia novecentesca. Dall’altro, alle soglie del Duemila, in Loi agisce l’utopia all’apparenza regressiva, affatto ottocentesca, del romanzo in versi, per di più «storico»: se è vero che L’angel sa fare i conti con un trentennio almeno di storia italiana e, in particolare, affronta con la massima lucidità (verrebbe da dire: con la massima naturalezza) la crescita della violenza politica, dai primi anni cinquanta alla vigilia del bri­gatismo rosso. E tutto questo Loi ottiene attraverso gli strumenti espressivi di ben quattro idiomi a un tempo – il milanese, il genovese, il colornese e l’italiano (che non è solo lingua della glossa e del commento, ma eccezionalmente può farsi parola di poesia): andando però incontro, un po’ come Sbarbaro, ai rischi dell’oscuramento, della rimozione critica, del silenzio imbarazzato. Di nuovo: c’è in giro qualcuno che abbia il coraggio di inserire L’angel (anche strutturalmente figlio delle narrazioni in versi di Scott, Byron e Puskin) nel panorama del romanzo italiano novecentesco? E, insomma, se il non-verso di Sbarbaro produce poesia, il verso, il lirismo pieno di Loi si transvaluta in romanzo. Sono due dei tanti paradossi d’un Novecento in senso lato avanguardistico, sfuggente, polimorfo, capace di spiazzare non solo il pubblico ma anche i lettori di professione.
Il concetto è da subito verificabile se ci spostiamo sul versante logico diametralmente opposto, ed esaminiamo quello che nessuno, senza alcun dubbio, avrebbe il coraggio di considerare un capolavoro misconosciuto del nostro secolo: vale a dire l’unga­rettiano Allegria di naufragi (siamo nel 1919, e un travaglio com­positivo di un quinquennio circa gli sta alle spalle). Un’opera che consiglierei di leggere per una volta sino in fondo, in tutte le sue sezioni, dimenticando – o mettendo fra parentesi – le molte, pur giuste definizioni intorno alla «purezza», all’ «assolutezza» della «parola» di Ungaretti, al suo «sillabato» metrico, alle «pause» e ai «silenzi» che isolano «attoniti nuclei di suono e di senso»: e che infatti, attraverso un’esemplare trafila di varianti, nel corso degli anni (peraltro non pochi: quasi un quarto di secolo, se prendiamo come riferimento l’Allegria mondadoriana del 1942) si approfondiranno e preciseranno con sempre maggior nettezza. Ora, nel 1919 l’Un­garetti allegresco ci si presenta invece con una fisionomia assai più contraddittoria, mescolata e incerta: poeta assoluto in versicoli, sì, ma anche autore di prose, calligrammi, liriche in francese (dove l’ autotraduzione talvolta cancella il metro innovativo degli originali); artefice di scorie poetiche cioè, che, se non contrastano frontalmente con l’Ungaretti «maggiore», certo ne denunciano una personalità assai più mossa di quanto di solito non si dica. Eppure, proprio la varietà, l’eterogeneità non sempre felice della ricerca allegresca è la migliore garanzia d’una quête autentica, d’un confronto con la poesia di cui è protagonista un proverbiale «nomade» sempre pronto a ripartire, a bruciare – per impazienza e insoddisfazione, ma anche per smemorata leggerezza – i residui meno convincenti della propria esperienza.
Altrettanto non si può dire del libro che mi piace correlare per opposizione a quello del primo Ungaretti: vale a dire Lavorare stanca (1936) di Cesare Pavese. E il rapporto contrastivo non verte tanto, in questo caso, sui dati esteriori, evidentissimi, che da sempre hanno fatto della raccolta di Pavese l’opera antiermetica per eccellenza, il libro in cui gli imperativi di poetica dominanti negli anni trenta italiani vengono sottoposti a un radicale (e, forse, tanto più artificioso) rovesciamento. Verte, il rapporto, sulla natura omogenea, unidimensionale, addirittura piatta, di Lavorare stanca: mentre Ungaretti attraversa fiduciosamente forme e modi, lingue e generi, Pavese appare legato a un solo, monotono registro, deliba una sola e costante cadenza (in senso, anche, propriamente tecnico, vista la ricercata uniformità ritmica della sua metrica, che l’autore dichiara d’aver creato «mugolando»). In Lavorare stanca è sfaccettata in molti modi una vicenda invariante; certo, spesso trasposta nel décor della vita sulle Langhe, ma materiata di privatissimi desideri e frustrazioni, di tensioni «liriche» verso una pienezza vitale che sempre va incontro a un necessario, individuale scacco. Al «nomade», in altri termini, si sostituisce il contadino inurbato, portatore d’un trauma che l’affabulazione paziente non riesce in alcun modo a sciogliere. Eppure, poche altre opere del nostro secolo sono state investite dai lettori critici di responsabilità etiche ed esistenziali altrettanto impegnative (e l’equivoco si è ripresentato anche in tempi recentissimi): quasi che il giovane Pavese avesse davvero contrapposto ai solipsismi ermetici la sanità d’una pronuncia capace di nominare la varietà delle relazioni sociali. Laddove, forse, un destinatario di fine millennio dovrebbe appunto ricercare l’ostinata fedeltà a un registro minimale, seriale, privo d’affondi e impennate, preoccupato di portare alle estreme conseguenze la logica costruttiva inizialmente impostata. Un Pavese «formalista», allora, è quello che oggi potremmo scoprire: a dispetto del suo mito, e certo a dispetto delle intenzioni di poetica da lui stesso espresse.
Ma questa – il fatto è tutto sommato ben noto – è una sorta di costante novecentesca: al punto che, certo esagerando, talvolta si sospetta l’esistenza d’un rapporto di proporzionalità inversa tra poetiche e realizzazioni effettuali, tra «manifesti» programmatici e poesia. Nell’ambito delle avanguardie convenzionalmente, italianamente intese (quelle, cioè, dominate da una logica di gruppo, e non da una tensione sperimentale vissuta in modo solitario), il fenomeno è particolarmente diffuso, e ha prodotto conseguenze assai interessanti. Prendiamo a esempio il livre lirico forse più sconcertante dell’intero secolo, vale a dire Variazioni belliche (1964) di Amelia Rosselli. La sua tangenza rispetto alle pratiche del Gruppo ‘63 rischia di essere, insieme, rivelatrice e ingannatrice. Rivelatrice, perché un’opera tanto stravagante (capace di sbarazzarsi della grammatica italiana con un’ «autenticità» che nulla ha a che fare con i cerebralismi futuristi, e capace di lasciarsi attraversare dai più devastanti automatismi dell’inconscio, e insieme di sfigurare, quasi «campionandoli», forme e testi della tradizione letteraria) non può esser pensata al di fuori d’una stagione di estrema tensione espressiva, e di ricerche procurate, quale quella propiziata dalla neoavanguardia. Fuorviante, poi, perché l’intentio che agisce nella versificazione di Rosselli è davvero irriducibile ai tecnicismi, spesso estrinseci, che contraddistinguono buona parte della produzione poetica del Gruppo ‘63 (e che, anzi, appunto nella loro gratuità trovano il proprio più autentico valore: si pensi alla tecnica collagistica di Balestrini, ma anche alla punteggiatura ipertrofica di Sanguineti, ai suoi a capo stranianti). Nelle Variazioni belliche domina una vera e propria visceralità linguistica, un’affabulazione quasi incontrollata, automatique, che si impossessa del locutore, lo trascina con sé: e in modo tanto più percepibile in quanto l’occhio di chi legge (in parte pure l’orecchio) è ingannato da segnali metrici che mimano un ordine isocrono, un ritmo anche discorsivo, sintattico, di mera facciata. Più ancora che nel letteratissimo Zanzotto, qui si ha l’impressione che nessuna «ragione» sia capace di arginare gli scarti del linguaggio: fedele interprete dei sommovimenti dell’inconscio, la sua forza scatenata è in grado di far regredire, di addormentare ogni traccia culturale, i residui del pensiero «diurno» che qua e là, ostinatamente, tentano di venire a galla. E la norma logica, il senso che per un attimo cogliamo sono destinati a sprofondare nei gorghi del lapsus: «Dopo il dono di Dio vi fu la rinascita. Dopo la pazienza / dei sensi caddero tutte le giornate. Dopo l’inchiostro / di Cina rinacque un elefante: la gioia. Dopo della gioia / scese l’inferno dopo il paradiso il lupo nella tana».
Non solo. Lo scacco delle poetiche, diciamo, «forti» è sensibile anche in un altro ambito: quello della poesia che si vuole riflesso della società, che persegue il rispecchiamento di realtà, di eventi pubblici salienti. Che in Italia sia esistita una «poesia neorealista», oggi, ahimè, se lo ricordano solo gli storici della letteratura; eppure della necessità d’una lirica «impegnata» non solo a lungo s’è dibattuto, ma non pochi poeti hanno cercato di trasformare in prassi attiva quelle discussioni. Tuttavia, se si dovesse indicare il nome dell’autore, e insieme della raccolta, che ha meglio saputo far levitare alcuni degli imperativi engagés della lirica sociale, si dovrebbe fare il nome d’un poeta che di fatto non li ha condivisi, quale Vittorio Sereni, e insieme si dovrebbe ricordare il titolo dei suoi Strumenti umani ( 1965, per l’esattezza). In questa opera, in sé non facile e probabilmente divenuta per i lettori d’oggi ancor più ardua, si esprimono in modo ritroso, rattenuto, irresoluto, ideali e chimere del ventennio precedente. li borghese Sereni si muove fra le speranze nate con la Resistenza e l’attenzione per la «nuova» condizione operaia nell’età che fu detta neocapitalista, ma lo fa pudicamente, con un ritegno e una capacità di sofferto understatement che, mentre gli inibisce la parola definitiva, l’enfasi passionale, la polemica diretta, lo induce nondimeno ad avvicinare quasi coattivamente le contraddizioni del reale, magari solo a sfiorarle, come per svolgere un compito forse incomprensibile e tuttavia necessario: «Si fanno versi per scrollare un peso / e passare al seguente. Ma c’è sempre / qualche peso di troppo, non c’è mai / alcun verso che basti […]». La storia è percepita negli Strumenti umani come un grumo di contraddizioni e di risentimenti i quali non possono esser sciolti dalla poesia, e nondimeno richiedono, reclamano un paradossale impegno.
Questa sorta di decentramento della lirica sperimentale rispetto a ideologie e a imperativi esterni spiega anche bene perché la forma testuale attraverso cui i lettori (e i critici) hanno tentato più spesso di avvicinarla, quasi di addomesticarla, sia stata quella dell’antologia. Strumento di ricapitolazione, di valorizzazione e polemica, il genere «antologia della poesia italiana del Novecento» ha spesso segnato le grandi svolte, letterarie e non, del nostro secolo: si pensi solo al 1920 dei Poeti d’oggi di Papini e Pancrazi (che, all’indomani dalla guerra mondiale, denunciava la crisi delle avanguardie d’inizio secolo) e al 1942-1943 dei Lirici nuovi di Anceschi (un bilancio dell’ermetismo, venuto alla luce mentre il fascismo stava per crollare). Ma non v’è dubbio che il vertice appunto avanguardistico del libro-silloge poetica è stato fornito da Poeti italiani del Novecento di Sanguineti (1969). Opera in molti sensi «sessantottina», che parecchio rischia e qualcosa (molto?) certo sbaglia: si pensi che il poeta più generosamente antologizzato è un Gian Pietro Lucini, e che i padri del nostro Novecento quali Saba, Ungaretti e Montale (per non parlare poi d’un Quasimodo appena scomparso, e ancora fresco di gloria pubblica) vengono drasticamente ridimensionati, mentre sono con generosità accolte molte personalità – minori e minime – della pattuglia futurista. Ma l’opera di Sanguineti, a modo suo, funziona benissimo: e chi voglia capire, in maniera spesso anche divertente, che cosa abbia significato un certo tipo d’avanguardia, in che cosa consista una battaglia culturale coerentemente faziosa, non può non passare da lì.
E, insieme, chi voglia veder chiaro nella più ardua radica­lità linguistica attiva nel nostro secolo, nella più irriducibile delle sperimentazioni, quella dialettale, dovrà prendere in mano la bella antologia curata da Franco Brevini (1987), Poeti dialettali del Novecento. Il dominio del dialetto letterario, oggi, ha assunto una vitalità estetica di grande interesse e varietà, che forse richiederebbe spiegazioni sociali un po’ più complesse e articolate di quelle che ci vengono di solito proposte (basti pensare che negli ultimi dieci anni il dialetto è riuscito a conquistare, talvolta a riconquistare, anche i generi musicali di consumo, canzone in testa): ma non risulta per questo meno ostico, in ogni senso incomprensibile agli occhi del destinatario solo italofono, ovvero superficialmente coinvolto dalla realtà del dialetto. Tanto più preziosa sarà allora la silloge di Brevini, che ordinatamente esemplifica, sintetizza, e contribuisce a rendere accessibile questa straordinaria alterità.
A volere essere ancor più provocatori, si potrebbe inoltre affermare che, a parte lectoris, la museificazione della lirica novecentesca ha ben funzionato, e anzi è apparsa quasi indispensabile, pure quando si è applicata a singoli poeti. Un caso esemplare è rappresentato dall’antologia delle poesie di Andrea Zanzotto, curata da Stefano Agosti in due riprese ( 1973 e 1993). Che Zanzotto abbia le carte in regola per esser considerato il poeta sperimentale per eccellenza, è indiscutibile; e da un sessantennio a questa parte la sua opera (seguendo una direzione sostanzialmente opposta a quella di Rosselli, anche se forse ad essa complementare) si configura come una specie di lotta contro la lingua, un tentativo di padroneggiarne le residue capacità espressive, i pochi barlumi di senso che un universo attraversato dall’alienazione permette di recuperare. I luoghi marginali privilegiati dal poeta, una natura (una geografia) «provinciale» capace di assorbire contraddittoriamente la storia, la simpatia per tutto ciò che residua, trascolora, si volatilizza (come l’agghiacciante immagine di Maria Fresu, disintegratasi nella strage di Bologna, il cui «nome» «continua a scoppiare / all’ora dei pranzi […] / in milioni di / dimenticanze, di comi, bburp») eccitano un’instancabile produttività poetica, chiamata a definire una sorta d’area protetta, in cui il soggetto possa trovare uno spazio pacificato, una precaria salvezza. Di qui, dunque – almeno a me sembra -, la difficoltà di indicare un libro zanzottiano esemplare, di qui la necessità dell’antologia; e di qui l’ indispensabilità di un viatico critico eccellente come è quello di Agosti, capace di integrare, chiarificandola, l’ardua parola del poeta, ma anche di rilanciarne alcune suggestioni, evitando ogni schematismo ermeneutico.
Perché, infine, se le poetiche novecentesche hanno mostrato la propria fallibilità, altrettanto non può dirsi per la grande critica, strumento di conoscenza talvolta irrinunciabile. Ciò, come abbiamo visto, può avvenire per analogia, per simpatia, per solidarietà ideale: il testo di Zanzotto in qualche modo reclama quello di Agosti, e non v’è dubbio che per molti lettori degli Strumenti umani (quorum ego) le pagine di Mengaldo presenti nell’edizione Einaudi (1975) costituiscono una specie di necessario complemento ai valori della raccolta. Ma tale rapporto può darsi anche per contrasto, attraverso una proficua opposizione. La lettura di quella che vorrei proporre come la raccolta massima d’un Novecento non istituzionale, vale a dire Le occasioni di Eugenio Montale (1939), andrebbe condotta in parallelo all’esame delle pagine che alla sua opera tutta (ma con particolare riguardo alla «cifra» più esclusiva e aristocratizzante delle Occasioni e di Finisterre) ha dedicato Franco Fortini, sia nei Saggi italiani (vecchi e nuovi) sia nei Poeti del Novecento. Ed è davvero istruttivo il contrasto tra il capolavoro, il classico che sembra bastare a se stesso, perfetto nei propri miti privati e nei propri ritmi, e l’impegno ermeneutico del lettore marxista che entro quella compagine forza il dubbio e la contraddizione. Un mondo chiuso, popolato di attanti lirici il cui senso ultimo è delegato all’autoesegesi del suo artefice, è contestato e inverato insieme dal critico che, pur temendole, ne rispetta e ama molte delle ragioni costitutive («Questa poesia, mi dico, ti ha tentato fin dal­l’ adolescenza. Ogni volta che volevi «salvarti» pensavi (anche) alle Occasioni; poi a Finisterre»), e per questo ne ridiscute i fondamenti ideologici, l’ostentata separatezza, l’implicito classismo.
Certo. Eppure, in questo 1998-99 in cui si celebrano in successione i sessantennali delle infami leggi razziali promulgate dal fascismo e d’uno dei capolavori della letteratura italiana di ogni tempo, è il caso forse di rileggere Le occasioni per scoprirvi i molti riferimenti – cifrati ma non troppo – all’ebraismo e alle sue sofferenze, che un Montale a un tempo innamorato e (certo a modo suo) indignato vi aveva profusi a piene mani. La «rissa cristiana», vista nella prospettiva di Clizia-Irma Brandeis, giudea espulsa, cacciata dall’Italia, non è proprio un bello spettacolo. Ma siamo noi, di qua dall’Atlantico (nel Nord del mondo?), che la stiamo mettendo in scena. E la pietà, la speranza non sono molto più d’un filo.