La narrativa facile

di Bruno Falcetto Dai gialli alla fantascienza, dai fumetti ai fotoromanzi, fino al relativamente recente fenomeno Harmony si moltiplicano nel Novecento i prodotti destinati a un pubblico essenzialmente debole.
Comunque si voglia leggersi si tratta di fenomeni che hanno portato a un allargamento della lettura, e varrebbe la pena di pensare se questo «linguaggio della facilità» vada lasciato alle sole logiche commerciali; o se sia invece possibile coniugarlo con qualche elemento di criticità.
 
A una parte nient’affatto trascurabile della produzione narrativa, si sa, i «detentori del gusto», secondo la formula di Helmut Kreuzer, o «l’opinione letteraria» per dirla con Giacomo Debenedetti, negano un pieno riconoscimento di lette­rarietà, rifiutano in tutto o in parte i quarti di nobiltà artistica. Sono, da questo punto di vista, le opere lette da un pubblico di lettori deboli, da un non-pubblico, formato dai destinatari che dispongono dell’attrezzatura culturale più povera (o, se hanno più mezzi culturali, sono inclini per queste letture a svestirsene). Sono (e/o sono stati) i lettori del romanzo giallo e rosa o del fumetto nero, della fantascienza o delle dispense Nerbini, di «Grand Hotel» o dei derivati televisivi. I testi che prediligono sono colpiti da un interdetto estetico, cui non di rado si associa una riserva etica: privi di valore letterario, sono spesso considerati anche cattive compagnie, frequentazioni vuote o riprovevoli. Siamo nel territorio della paraletteratura, nel Novecento via via più ampio e articolato, per generi e livelli. L’esclusione dalla letteratura ufficiale è più forte e persistente verso alcuni prodotti rispetto ad altri: se certi generi mostrano una capacità di muoversi verso i piani alti del sistema letterario, altri restano invece confinati nelle penombre dei bassifondi. Gli anni novanta si prestano bene a illustrare, per esempio, il punto di arrivo delle diverse traiettorie del giallo e della fantascienza italiana. n primo, dopo una legittimazione ottenuta fra anni sessanta e settanta grazie soprattutto all’opera di Giorgio Scerbanenco e di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, pare stia acquisendo una piccola centralità nel panorama letterario nazionale: i successi di pubblico e i consensi critici riscossi da Andrea Camilleri (padrone delle classifiche estive di narrativa italiana nell’estate 1998) e anche da Carlo Lucarelli ne sono l’esempio emblematico. La fantascienza autoctona invece, tradizionalmente fragile, pare aver trovato l’autore di successo che le era sempre mancato, Valeria Evangelisti, ed essersi insediata nelle abitudini di lettura del pubblico del genere (i titoli italiani pubblicati da Urania sono ormai fra i più graditi). L’antologia di fantascienza italiana Tutti i denti del mostro sono per/etti, curata da Giuseppe Lippi e dallo stesso Evangelisti nel dicembre 1997, ha visto la partecipazione, a fianco di scrittori nati all’interno del genere (Nicoletta Vallorani, Franco Forte, Luca Masali), di un gruppo di giovani autori mainstream (Voltolini, Ammaniti, Scarpa, Giorgi, Mari) che vedono nella narrativa di genere uno dei materiali possibili del proprio lavoro e nei suoi prodotti una componente del proprio immaginario, senza prevenzioni. Sono segni di una crescita possibile e di una diversa attenzione verso il genere.
Ma non è nel mondo della paraletteratura «emersa» o emergente all’attenzione di un pubblico non solo settoriale e della critica (giornalistica, se non accademica) che vorrei muovermi, bensì nelle periferie del letterario novecentesco, nell’ambito di una narrativa marginale in senso stretto. Per indicare testi e formule che hanno saputo catturare l’attenzione di un pubblico di lettori fragili, intermittenti, ed estendere, seppure precariamente e ambiguamente, il dominio della parola scritta, offrendo di volta in volta uno spaccato di certi aspetti del costume, della mentalità collettiva, in particolare dei ceti meno acculturati.
All’inizio degli anni dieci arrivano in Italia i libretti della Casa editrice americana, una delle sigle editoriali europee con cui il tedesco Alwin Eichler compie l’importazione dei dime-novel americani. In questi fascicoli di 32 pagine al prezzo di 25 centesimi muove i primi passi nel nostro paese la letteratura «di genere», la forma «aspecializzata» di letteratura marginale tipica del Novecento. All’idea di un pubblico ampio e unificato propria del feuilleton ottocentesco la narrativa di genere sostituisce quella di un’ offerta plurale, segmentata, che proprio in virtù della sua varietà specialistica è in grado di raggiungere un pubblico più esteso e di renderne più stabile il consenso. Sono le storie western e poliziesche di Tom Mix, Alaska Jim, Petrosino, Nick Carter e Ethel King («La Nick Carter femmina»). Nella tipologia degli eroi e negli schemi narrativi queste storie hanno ancora molto del romanzo d’ appen­dice, ma in forma semplificata e più diretta. La Casa Editrice Americana ha però un’esistenza effimera. Il formato dime-novel in Italia verrà poi ripreso da Nerbini, che acquista nel 1919 i diritti per la pubblicazione di Nick Carter, edito con notevole successo fino al 1923. Ed è Nerbini a presentare la prima significativa serie poliziesca italiana a dispense, «Nick Porter», che riprende in forma parodica il modello del detective americano, affiancando al protagonista una spalla comica con il volto di Charlot: a testimonianza, ha notato di recente Fausto Colombo, dell’inclinazione della cultura di massa italiana a usare la parodia come «genere-grimaldello» (si veda più in là il caso del fumetto pornografico).
Il dime-novel all’italiana è un punto d’arrivo del modello appendicistico ottocentesco e una sorta di preistoria della narrativa marginale di questo secolo. Gli anni trenta segneranno il momento di piena affermazione della letteratura seriale e di genere in Italia. Il rosa e il giallo ne sono i settori portanti. Il primo deve le proprie fortune alla produzione nazionale. Le opere di Liala e di Luciana Peverelli ne rappresentano le due versioni principali (sublime-dannunziana e media-realistica) e gli esiti qualitativamente più convincenti. Il giallo è invece essenzialmente un genere d’importazione. Non che manchino in questo primo periodo le firme italiane (anche, in un primo tempo, per sollecitazione del regime), ma si dimostrano – tranne rare eccezioni, la più significativa delle quali è quella di Augusto De Angelis – incapaci di una rielaborazione personale dei modelli anglosassoni. I giallisti italiani ancora per tutti gli anni cinquanta non riusciranno a guadagnarsi il consenso del pubblico e saranno spesso costretti a lavorare sotto pseudonimo. Una condizione che non permette acquisti riconoscibilità il lavoro convincente di qualche solido artigiano, come Franco Enna.
Ma il punto di svolta, verrebbe voglia di dire il vero (o almeno un nuovo) inizio della storia della narrativa marginale di questo secolo è nel dopoguerra. Se in passato questo tipo di produzione nelle sue forme più povere era sovente vissuto ai confini fra lo scritto e l’orale, nel Novecento ribadisce questa sua natura li­minare, sviluppandosi innanzi tutto sul connubio di scrittura e immagine: sono il fumetto e il fotoromanzo a mostrarsi gli strumenti più adatti per dialogare con un pubblico di alfabetizzazione fragile e recente. Ma il nesso parola-immagini è solo un aspetto di una più generale propensione a svilupparsi a cavallo dei diversi media. Si tratta allora di libri nati sulla spinta di un programma radiofonico o televisivo, gli esiti commerciali sono alterni – successi, flop, risultati dignitosi -, ma la mole complessiva del fenomeno non è affatto trascurabile. E i «derivati», i libri transmediali, sembrano essere in grado meglio di altri di guadagnarsi l’attenzione di un pubblico di lettori deboli o saltuari. La loro storia è ancora tutta da delineare. Inizio possibile: alla metà degli anni trenta con I quattro moschettieri di Nizza e Morbelli. Età dell’oro: gli anni ottanta e novanta, l’epoca della nascita dell’emittenza privata e della moltiplicazione esponenziale dell’offerta televisiva. Genere principe: il comico (da Villaggio e la famiglia Arbore, a Giobbe Covatta e Antonio Albanese).
La produzione marginale ha un rapporto difficile con la forma libro. Le sue diverse formule si collocano o nell’ambito del libro seriale, legato a un’immagine rigida e rilevata di collana, o nell’ambito di un’editoria giornalistica o paragiornalistica (dispensa, albo, rivista). Più si scende nei livelli letterari e meno la figura del­l’ autore sembra rilevante. Ma non perché questo sia il regno di una ripetitività che non ammette eccezioni; piuttosto perché qui l’originalità del prodotto consiste nell’individuazione-invenzione di un «formato», di un’associazione specifica di confezione editoriale, contenuti e forme. Lo spazio di manovra dell’autore non è cancellato, ma si trova – molto di più di quanto accada ai piani nobili del­l’ edificio letterario – a fare i conti con i meccanismi editoriali.
Alla fine della guerra sulle pagine di «Grand Hotel» (1946) e «Bolero film» (1947) si affacciano in Italia, con un successo clamoroso, il fumetto e il fotoromanzo per adulti. È una nascita tardiva e limitata solo al genere passionale, senza aperture all’ avven­tura o alla comicità. L’unico spazio concesso all’evasione dei ceti subalterni è il privato, l’attenzione al rapporto fra individuo e società (ha notato Vittorio Spinazzola) non deve essere in nessun modo risvegliata. A livello d’intreccio e di caratterizzazione dei personaggi nulla di nuovo, se non un ulteriore impoverimento, rispetto alla tradizione del romanzo rosa. L’originalita è di linguaggio. Non il linguaggio verbale (piatto nel dialogato, poeticistico nelle didascalie), ma quello visivo: i disegni di Walter Molino o Giulio Ber­toletti sono abili ed efficaci, uniscono dinamismo e corposità, le figure femminili che escono dalla loro penna sono sovente cariche di sensualità e propongono un’ideale di bellezza da cover-girl che rompe con i canoni mediterranei. Le storie sono moralmente ineccepibili; solo in forma implicita, nel messaggio muto di certi disegni, nel mezzo delle peripezie dei protagonisti, è possibile per i lettori sperimentare qualche inquietudine, qualche fantasticheria non del tutto innocua.
«Diabolik», creato nel 1962 dalle sorelle Giussani, inaugura una nuova fase del fumetto italiano per adulti. La svolta è radicale, si imbocca la strada del genere avventuroso, con un’inclinazione trasgressiva destinata nel tempo a farsi sempre più marcata. Le preoccupazioni pedagogiche e le cautele edificanti che governavano il fumetto passionale vengono spazzate via. I protagonisti, perno del meccanismo seriale, sono eroi negativi, malvagi senz’ ombra di dubbio sin dal nome. Il capostipite, Diabolik, riprende il modello del Fantomas di Allain e Souvestre: spinto da un insaziabile desiderio di nuove ricchezze porta a termine i suoi colpi grazie alla sua audacia, ingegnosità e a un uso sistematico – ma non compiaciuto, né spettacolarizzato, piuttosto pragmatico della violenza, per la prima volta tanto massicciamente presente nel fumetto nostrano.
L’inseguimento del benessere verso il quale era protesa l’Italia del boom assume qui un carattere iperbolico, assoluto e amorale. Lo schema delle vicende è standard, l’interesse del lettore è catturato dalle trovate d’intreccio in cui sono decisive le maschere per mezzo delle quali Diabolik ed Eva Kant riescono ad assumere identità diverse dalle loro. Il gioco del travestimento perfetto intriga e inquieta, sembra suggerire l’impossibilità di riconoscere un male che sa annidarsi in ogni piega del mondo quotidiano. Ma le ragioni del successo di «Diabolik» risiedono nella capacità di sposare ai temi «forti» un’efficace strategia comunicativa all’insegna dell’evidenza. È vero sul piano verbale, dove predominano dialoghi veloci, ma soprattutto sul piano visivo, per il formato e il disegno. «Diabolik» introduce in Italia il formato tascabile, adatto alle letture veloci di pendolari sempre più numerosi: due vignette disposte verticalmente, che possono sdoppiarsi e solo molto di rado fondersi, abbastanza grandi per dare risalto sia alla figura, sia ai dettagli dei volti. La costruzione dell’immagine punta alla inter­pretabilità immediata, il tratto è semplice, all’insegna di una solidità artigianale, senza fronzoli.
Dopo «Diabolik», per il fumetto per adulti inizia una stagione fortunata, le proposte si moltiplicano, gli effetti si intensificano, i contenuti si radicalizzano. Personaggi simbolo di questa fase sono «Kriminal» e «Satanik», creazioni della coppia Magnus­Bunker (Roberto Raviola e Luciano Secchi). I delitti diventano sempre più efferati e compiaciuti, la vena di passionalità e sensualità – nelle pagine di «Diabolik» ben percepibile ma in secondo piano – si dispiega dando vita a situazioni di erotismo esplicito e perverso. Il disegno è più originale, con forti contrasti d’impronta espressionistica e una predilezione per le inquadrature ardite. Rispetto a «Diabolik» i personaggi di Magnus e Bunker sono più mossi e inquieti: se «Diabolik» sembra vivere in una sorta di atem­poralità intangibile, identico a se stesso una storia dopo l’altra, «Kriminal» e «Satanik» portano sulle spalle il peso del proprio passato. Nelle storie e nei disegni di Magnus e Bunker affiora anche un ghigno grottesco, sorta di piccolo commento amaro e di segno di distanziamento, che negli epigoni sarà pressoché assente.
Sulla soglia della società del benessere l’immaginario popolare mostra dunque un forte incupimento. Dal fumetto nero emerge l’immagine di una società atomizzata, dove agiscono soggetti mossi da una spinta senza freni all’affermazione di sé: sono gli eroi di un nichilismo popolare, sintomo di un profondo disagio.
«Satanik» fa da ponte fra il fumetto nero e quello erotico tout court, che occuperà rapidamente le edicole alla metà degli anni sessanta. «Isabella duchessa dei diavoli» (1966) è la prima di una lunga serie di eroine generosamente svestite che accompagnano a modo loro lo svecchiamento dei costumi sessuali italiani e il processo di emancipazione femminile. Della serie fanno parte anche Jacula, Jungla, Sukia, protagoniste di albi di largo successo che riprendono il formato popolare di «Diabolik». Sono recordwomen dell’amplesso appartenenti a due diverse famiglie: quella delle dark ladies (come Bonnie o Jezabel), le cui storie sono dominate dal binomio sesso-sadismo, o quella delle libertine goduriose (come Isabella o Messalina), animate da una ninfomania allegra, le cui vicende sono percorse da uno spirito comico-ironico, poco meditato e spesso sgangherato, ma più positivo. I personaggi sono creati per clonazione e parodia: riprendono volti di attrici note, recenti suggestioni cinematografiche e fumettistiche o vecchi modelli letterari. Non a caso i generi trainanti sono la fantascienza (sulla scia della Barbarella di Jean Claude Forrest) o l’avventura in costume (rivitalizzata dalla fortuna della serie romanzesca dedicata dai coniugi Gol o n ad Angelica marchesa degli angeli). La concorrenza fra le testate e quella con le riviste fotografiche e il cinema innescherà dopo qualche anno una crisi che si farà irreversibile con l’ av­vento della videocassetta.
1981: a portare al successo il marchio Harmony, i romanzi rosa della Harlequin-Mondadori, è un’imponente campagna pubblicitaria che ruota attorno a uno slogan particolarmente felice: «sognare a libri aperti». La massiccia pubblicità punta a declandestinizzare il rosa, presentandolo certo come letteratura d’evasione (il suo specifico appeal è far sognare), ma di cui non vergognarsi. È il colpo decisivo al destino del rosa autoctono, già da tempo in crisi. La novità di Harmony è nella formula: come in tutte le tappe davvero significative della marginalità letteraria novecentesca, la fisionomia dei testi è intimamente legata al contesto editoriale nel quale sono inseriti. Harmony-Mondadori (come Curcio-Bluemoon) propone un rosa alleggerito e specializzato, eminentemente «funzionale». Rispetto al rosa tradizionale l’intreccio è semplificato (spesso sono evanescenti le figure degli antagonisti), il linguaggio è governato da un principio di leggibilità programmatica, è povero, ma corretto e chiaro. Qui l’indebolimento dell’individualità d’autore è controbilanciato dall’altrettanto decisa articolazione e specializzazione dell’offerta. Harmony non è una collana ma un sistema, una rete di collane: alla convenzionalità dell’intreccio si unisce la sua «permeabilità» (ha notato Maria Sofia Petruzzi), la sua disponibilità ad aprirsi a una grande varietà di generi e sottogeneri. La ricchezza diversificata delle proposte consente di rispondere meglio alle richieste del pubblico, verso le quali il sistema mostra una certa reattività. Ecco allora, negli anni novanta, il rosa varcare la soglia un tempo proibita delle camere da letto, l’affacciarsi nei testi o nelle collane di una vena «hard», di un erotismo piuttosto esplicito.
Gli episodi presi in esame sono tutti casi di ampliamento significativo dell’area della lettura, in nessuno di questi le élite colte hanno avuto un ruolo non dico decisivo, ma di una qualche rilevanza. Credo ci sia da riflettere. Che il «linguaggio della facilità» debba essere abbandonato soltanto alle logiche essenzialmente commerciali di un’editoria artigianale o industriale, che non sia possibile coniugarlo con qualche elemento di criticità, forse non è una legge di natura.