Gli effetti della trasgressione narrativa

La linea maestra dello sperimentalismo novecentesco è quella in cui l’innovazione formale, più o meno trasgressiva, non nega ma potenzia l’effetto di realtà della lettura: referenti primari Verga e Gadda. Ma c’è anche la linea avanguardistica che esibisce il carattere d’artificio del testo come macchina fatte di parole: per esempio Palazzeschi; Savinio, Manganelli. E poi ci sono gli autori difficili da classificare, come i grandissimi Pirandello, Tozzi, Vittorini.
 
Anche senza pretendere di formulare definizioni molto rigorose, e tanto meno esaustive, il campo della narrativa sperimentale novecentesca sembrerebbe avere connotati abbastanza facilmente identificabili. Esso dovrebbe comprendere testi caratterizzati da una marcata trasgressività formale (sul piano linguistico e/o strutturale), alla quale di solito si accompagnano una forte tensione intellettuale (intellettualistica?) e un atteggiamento emotivo anti-empatico. Questi testi apparirebbero in buona parte programmaticamente inospitali nei confronti del lettore, al quale impongono un lavoro di decodifica arduo, faticoso: le gratificazioni, se ci saranno, arriveranno, per così dire, solo a lungo termine. Destinati all’élite di coloro che cercano nella lettura sfide culturali, e magari anche politiche, i testi sperimentali dovrebbero allora possedere un’altra curiosa caratteristica accessoria: quella di essere concepiti quasi esclusivamente per lettori che hanno già deciso di leggere il libro fino in fondo, e che quindi relegano in secondo piano il proprio naturale diritto a divertirsi, e a smettere la lettura se il divertimento manca. Se le cose stessero veramente così, be’, tanto per essere chiari ma brutali, c’è rischio che il canone della narrativa sperimentale italiana di questo secolo risulti, più che povero, quasi deserto: a esagerare un poco (ma solo un poco), forse l’unico scrittore degno di essere trasmesso ai posteri resterebbe l’inarrivabile ingegner Carlo Emilio Gadda. Al di là della provocazione (peraltro neanche tanto provocatoria: c’è anzi rischio che si tratti di un’autentica ovvietà), dietro questo discorsetto c’è un problema di fondo, straordinariamente complesso, che qui possiamo solo enunciare e poi, senza averlo risolto, torcere a nostro vantaggio con sfacciata tendenziosità.
Il problema è il seguente: che cosa vuol dire «sperimentale»? Si può infatti ragionevolmente affermare che la desertificazione del canone è conseguenza inevitabile della riduzione, inaccettabile, del concetto di «sperimentale» al concetto di «avan­guardistico». Se intendiamo per scrittori sperimentali solo quelli ascrivibili direttamente o mediatamente a poetiche d’avanguardia, non abbiamo praticamente scampo, e scopriremo con terrore che una larga parte della storia letteraria italiana del Novecento è pressoché priva di scrittori di questo tipo. Di nuovo forzando i termini del discorso (ma non più di tanto), dopo l’inizio degli anni venti, e il passaggio di Bontempelli e Palazzeschi a poetiche non-trasgressive, se non addirittura tradizionalistiche, rischiamo di trovarci quasi privi di scrittori d’avanguardia (a parte Gadda, Savinio e pochissimi altri) più o meno fino ai primi anni sessanta. O ancora, per venire a tempi più vicini, corriamo il pericolo di dover archiviare in silenzio più o meno tutti gli anni ottanta e novanta: quando, nonostante si scrivano ancora testi avanguardisti ci, l’avanguardia, mi si passi il bisticcio, non esiste più, per il semplice motivo che i meccanismi della trasgressione sono ormai diventati inesorabilmente parte delle istituzioni letterarie.
Non è però affatto inevitabile che «sperimentale» coincida con «avanguardistico». E fin qui tutto bene. Soltanto che, se non tracciamo un confine netto, correremo il rischio, opposto e complementare, di riconoscere come sperimentale qualsiasi testo innovativo, o addirittura qualsiasi testo in grado di contribuire all’evoluzione del sistema letterario. Non ci si può infatti nascondere che, al polo opposto del corto-circuito fra «sperimentale» e «avan­guardistico», ci potrebbe essere la sovrapposizione, quasi senza residui, di «sperimentale» e «artigianale». Ma se si definisce «sperimentalismo» ogni manipolazione di materiale verbale-letterario, i confini dello sperimentale finirebbero senz’ altro per coincidere, nientedimeno, con quelli della letteratura tout court: vi dovremmo infatti comprendere, senza ombra di dubbio, sia le Odi barbare, sia, che so, la finta autobiografia popolano-romanesca delle Memorie di una ladra di Dacia Maraini.
Senza ricorrere a quest’ipotesi estrema, si può ragionevolmente e un po’ empiricamente prendere in considerazione da un lato la tradizione della trasgressione avanguardistica, che tende a coincidere con una scrittura tutta tesa a sottolineare il proprio carattere di artificio, di macchina fatta di «parole», cioè, per così dire, di «non-cose». Questa tradizione, come si è visto, è però largamente minoritaria. A me pare invece che la linea maestra della sperimentazione letteraria novecentesca sia un’altra, e abbia radici più complesse e lontane. È la linea, in sintesi, dei testi in cui l’innovazione formale, più o meno trasgressiva e «difficile», ha lo scopo non di negare intellettualisticamente il carattere di esperienza pseudo-reale dell’esperienza di lettura, ma, tutt’al contrario, di potenziarla. Il congegno testuale, in altre parole, risulta concepito come una macchina per simulare esperienze reali: chi legge deve provare non il distacco del ragionamento, ma il coinvolgimento dell’esperienza, deve avere la sensazione di avere a che fare con «cose», e non soltanto con «parole». Ma attenzione: ciò di cui sto parlando non ha pressoché niente a che vedere con i meccanismi di una immedesimazione «facile». Questi infatti derivano da una tradizione ormai diventata stereotipo, da forme logorate, che possono produrre ancora sentimenti, emozioni, ma non simulazioni di realtà e /o eventi percettivi: questi ultimi invece richiedono un lavoro mentale non riducibile al mero riconoscimento del già noto. Chi invece vuole provocare l’impressione dell’esperienza reale è costretto a mettere in atto complessi artifici formali e intellettuali (spesso non facilmente distinguibili dalla programmatica difficoltà dei testi d’avanguardia veri e propri), perché deve evitare l’automatismo del riconoscimento (l’effetto stereotipo), per imporre al lettore un coinvolgimento insieme intenso e non immediato, una partecipazione in cui il pathos può e deve scattare, ma solo in quanto frutto di una operazione complessa di decodifica. Da questa prospettiva credo sia possibile fare delle scoperte interessanti. Ci si potrebbe, per esempio, finalmente accorgere del filo rosso che, a grande profondità, collega il nostro primo geniale sperimentatore moderno, Giovanni Verga, impegnato a costruire testi che abbiano un’impronta dell’avvenimento reale», con (chi l’avrebbe detto?) proprio il Gadda, disperatamente proteso a dispiegare un artificio linguistico così multiforme e deforme da pretendere addirittura di competere con la «barocca» diversità del mondo.
Se quanto sto dicendo ha almeno un fondo di verità, anche la nostra letteratura, come altre dell’Occidente, si rivelerebbe segnata da una fondamentale corrente di sperimentazioni relative a quel procedimento assolutamente strategico che è il punto di vista: o, più esattamente e più limitatamente, all’uso sistematico, o semi-sistematico, della prospettiva ristretta o focalizzazione interna. L’adozione del punto di vista di chi capisce poco o comunque non capisce molto o comunque capisce meno di noi è un procedimento fondamentale che deve attivare proprio l’intensificazione dell’effetto di realtà: solo la visione offuscata può infatti assomigliare a una percezione reale. È anche vero però che proprio in quest’area il confine fra «sperimentale» e «istituzionale» diventa particolarmente labile. E non soltanto perché, episodicamente, sembrerebbe davvero un po’ strano collocare fra gli sperimentali Bilenchi, o addirittura certo Moravia.
Il punto è che qui la sperimentazione naturalistica e veristica travalica quasi senza soluzione di continuità nelle realizzazioni del miglior «decadentismo» e poi del miglior «modernismo». Ed è qui per esempio che agisce, e frutta sul lunghissimo periodo, l’esempio di Svevo, e non tanto della Coscienza, quanto proprio di Senilità e di Una vita. Ed è ancora da qui che bisogna partire per comprendere la straordinaria ambiguità (id est tradizionalità-modernità) di Federigo Tozzi. Il quale riesce ad afferrare quelle che Debenedetti chiamava «le amebe della vita interiore», pur restando al riparo, per dirla con Baldacci, della «chiocciola del naturalismo». Come mai? Per caso?
Per rabdomantica intuizione? Niente affatto. A parte la reale complessità delle sue coordinate culturali, Tozzi non faceva altro che perseguire coerentemente una strategia narrativa imperniata appunto sulla messa in scena dello sguardo di qualcuno che non vede, di qualcuno che vive Con gli occhi chiusi: cioè di un punto di vista «regredito», drammaticamente inadeguato a comprendere gli eventi rappresentati.
Ciò significa anche che, con ogni probabilità, l’alternativa critica fra il Tozzi più «naturalista» (Tre croci) e il Tozzi più «novecentesco» non esiste: perché, tanto per essere brutali, Verga camminava già, anzi correva, sulla strada che porta dritti a Virginia Woolf.
Mi domando se, a partire da presupposti simili, non finirebbe per ritrovare un ruolo storiograficamente e valutativamente equilibrato uno scrittore come Pavese, certo non «sperimentale» nel senso, absit iniuria verbis, «classico». Ma, per venire più vicini a noi e alle avanguardie, ho il sospetto che non riceva sempre adeguati riconoscimenti l’intenso Testori del Ponte della Ghisolda e della Gilda del Mac Mahon, che a me pare un autentico maestro nella messa in scena di quelli che Henry James chiamava «centri di coscienza» offuscati.
Ora però è necessario fare un passo indietro, o piuttosto di lato, e tornare a considerare la linea dello sperimentalismo avanguardistico, della narrativa cioè ostentatamente artificiale, negatrice della lettura come «esperienza». La prima ondata della avanguardie ci offre, ai suoi estremi, due autori e tre opere che nei manuali hanno di rado il posto che meritano: Il codice di Perelà di Palazzeschi, e la simmetrica coppia di La vita intensa e La vita operosa di Bontempelli. Sono opere nelle quali la contestazione dei tradizionali meccanismi d’intreccio va di pari passo con la loro esibizione scanzonata, e l’intelligenza critica si fonde senza residui in una comicità a tratti travolgente. A partire da tanta mirabile leggerezza, se camminiamo facendoci luce col lanternino dell’avanguardismo, che cosa possiamo trovare ancora? Mica tanto. Su Ar­basino tornerò fra poco, e quanto al Sanguineti narratore, non credo proprio che sia all’altezza del poeta. Invece darei un posto di tutto rispetto all’Hilarotragoedia di Manganelli, prototipo esemplare (e non a caso instancabilmente reiterato dall’autore nelle opere successive) di una letteratura che sia programmaticamente «menzogna»: il che, sul piano strettamente gnoseologico, è o una clamorosa ovvietà (la letteratura non può mai essere «vera»), oppure, ironica nemesi, semplicemente una «menzogna» (la letteratura esiste solo perché è, a suo modo, «vera»: e per di più incontestabile). Ma, sul piano della poetica, l’idea della «letteratura come menzogna» la dice lunga sulla sospetta velleità dello sperimentalismo avanguardistico di sganciarsi da qualsiasi motivazione lato sensu «realistica». Eppure, a mostrare clamorosamente quanto il gioco della letteratura sia fatalmente condizionato dalle esigenze dell’effetto di realtà, sta proprio, l’abbiamo già detto, il leader indiscusso del modernismo trasgressivo, sì, proprio Gadda, la cui opera geniale e monumentale (non tutta ugualmente bella) sta proprio lì a mostrare, con carnevalesco clamore, che il vertice dello sperimentalismo novecentesco è, almeno sul piano della poetica, il vertice dell’agonismo mimetico e demiurgico, della volontà cioè di rifare la realtà, di costruirne un analogon testuale. Vale la pena di riflettere sul fatto che il proverbiale «barocchismo» di Gadda, la sua prestabilita disarmonia faccia tutt’uno con l’intenzione di costruire opere sistematicamente caratterizzate dall’irruzione, per così dire, dell’informe nella forma. Un’operazione che è in perfetto parallelismo con altre simili delle arti cosiddette (ex-) figurative e della musica, nonché, non dimentichiamolo, del teatro. E qui bisognerebbe aprire una larga parentesi sulla straordinaria potenza inventiva con cui Pirandello, cioè uno dei pochi grandissimi del nostro Novecento (Sciascia pensava che fosse addirittura il più grande: un parere tendenzioso, ma anche assai autorevole), ha in alcuni suoi drammi messo in scena, è il caso di dirlo, proprio questo stesso paradosso del non-formato (del reale) che sfonda nella forma (nel testo). n che equivale a dire che Pirandello ha tematiz­zato e teatralizzato genialmente proprio l’ «effetto-reale» di cui andiamo discutendo. Sta fra gli effetti devastanti della scuola italiana, con la vistosa complicità di regie e recitazioni logore ormai da decenni, nonché di un masochismo provincialista straordinariamente ottuso e testardo, l’avere ormai cancellato ai nostri occhi una verità tanto evidente quanto spesso dimenticata: e cioè che il teatro occidentale del ventesimo secolo sarebbe inconcepibile senza l’influsso internazionale di Pirandello.
Per tornare però alla narrativa, proprio Pirandello esemplifica di nuovo, e ad abundantiam, l’ambiguità del termine «sperimentalismo»: se è vero, come è vero, che la sua opera narrativa più riuscita, Il fu Mattia Pasca!, è allo stesso tempo molto ottocentesca e molto innovativa, come del resto confermano sia l’immediato e poi ininterrotto successo di pubblico, sia l’ostinata e un po’ contraddittoria permanenza manualistica nei capitoli sulle avanguardie. n gigante Pirandello ci potrebbe guidare con mano sicura anche verso la percezione di un’altra frontiera fondamentale dello sperimentalismo novecentesco: la mescolanza del comico e del tragico. Più in generale, si può avere il forte, giustificatissimo sospetto che una larga percentuale della migliore letteratura del Novecento nasca proprio dalla ridiscussione del paradigma tragico. È qui che si giocano infatti alcune delle più importanti partite della modernizzazione del nostro sistema letterario, dal «crepuscolarismo» aulico di Montale ai «falsetti», per dirla con Fortini, di Saba e della Morante, per non parlare della lingua pseudo-ottocentesca di Lan­dolfi: uno scrittore che, se ci si costringe alla forbice sperimen­tale/non sperimentale, non si saprebbe proprio dove mettere. Se ci incamminiamo sulla strada del tragi-comico sarà giocoforza imbatterci in tutte le varianti nobili e plebee di grottesco, dal Pastic­ciaccio a Fantozzi. Con la netta sensazione che, a forza di accoppiamenti poco giudiziosi, se il grottesco deve andare a braccetto con lo sperimentale saremo fatalmente portati a privilegiare certo espressionismo lombardo, di varia natura, dal citato Testori al Maestro di Vigevano di Mastronardi, da La lunga notte di Tadini al primo Busi, quello di Seminario sulla gioventù e in parte della Vita standard di un venditore provvisorio di collant. Qualche sospetto di non innocente manierismo grava invece sullo sperimentalismo meridionale, specie siculo, che pure ha a che vedere, più o meno direttamente, col main stream del plurilinguismo e soprattutto del pluri-stilismo gaddiano: dall’Horcynus Orca di D’Arrigo al Sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo.
Tra i paradossi dello sperimentalismo novecentesco dovremmo collocare anche il multidirezionale deflagrare della forma­romanzo, vistosamente portata ad assimilare al proprio interno tutte le infinite potenzialità dell’ anti-romanzesco. Provocazione per provocazione, mi pare però opportuno smettere di assolutiz­zare il carattere «romanzesco» (= diegetico) del romanzo. Se infatti il romanzo è una forma onnivora, enciclopedica, è del tutto naturale che includa al proprio interno un po’ di tutto, cioè anche il non-narrativo e persino il saggistico. Se non ricordo male, qualcosa di simile accadeva persino a quello che dovrebbe essere per noi l’archetipo assoluto della narratività romanzesca, a quella specie di Ur-roman delle italiche lettere moderne che sono I promessi sposi: nientemeno! In fondo è difficile essere più sperimentali di don Lisander, il quale, forse ce lo siamo dimenticati, scriveva in una lingua inventata a tavolino … Tornando al rapporto profondo che lega sperimentale e antiromanzesco (non-diegetico), già molti anni fa Barthes aveva ampiamente dimostrato come l’ipertrofia della descrizione naturalistica contribuisca all’effetto di realtà nello stesso momento in cui fa saltare la linearità della storia. Io ho il vivo sospetto che questo possa accadere persino in molti casi di quella che, in senso molto largo, chiamerei narrativa digressiva, dove la storia si disperde in mille rivoli: come per esempio in quel­l’ autentico kolossal dell’ antiromanzesco che è Fratelli d’Italia di Arbasino. Suvvia, non vi sembra almeno un po’ carina la possibilità di mettere sotto la stessa etichetta Arbasino e Zola? Brrr… altro che accoppiamenti giudiziosi! Vero è però che, a questo punto, mi trovo in seria difficoltà nel dare una posizione plausibile a un altro piccolo grande, Alberto Savinio, il quale, se davvero esiste un paradigma digressivo, dovrebbe rientrarvi a pieno diritto, come negatore professionista (e proprio in quanto dichiarato «dilettante» di letteratura) di storie tradizionalmente continue, dallo pseudo­Bildungsroman dell’Infanzia di Nivasio Dolcemare ai racconti di Casa «La Vita».
Se Savinio si ricollega indubbiamente anche alla letteratura «artificiale», non bisogna dimenticare però come un’altra linea fondamentale dell’effetto-reale, o meglio dell’effetto simulazione-di­percezione, si sviluppi nelle opere che definirei epifaniche, quelle cioè che perseguono (in modo più o meno simbolico o realistico) l’obbiettivo di intensificare la densità semantica del testo, allo scopo di accrescerne la tensione, direbbe Lotman, mitizzante, la capacità cioè di proporsi al lettore come una specie di equivalente simbolico del reale. Qui diventa inevitabile incontrare l’ «intenso» di Vittorini: il quale come scrittore ne ha azzeccate tutto sommato po­chine, ma ha il merito di aver perseguito con eccezionale coerenza l’ipotesi suggestiva e paradossale di un romanzo integralmente lirico, dotato della stessa ricchezza di senso, della stessa carica di polisemia del testo poetico. Facendo il gioco della torre, alla fine salverei ancora Conversazione in Sicilia, e poco o nulla d’altro. Se però nel canone sperimentale comprendiamo il romanzo-lirico alla Vittorini, saremo quasi obbligati ad ammettervi anche coloro che, con modalità diverse, perseguono una linea epifanica. Eccovi una coppia inedita, ma solo all’apparenza balzana: Il ricordo della Basca di Delfini, che è un libro molto meno avanguardistico di quanto non si dica di solito; e il mai abbastanza lodato primissimo Cas­sola, quello dei racconti di La visita, che sono invece, nel loro esibito spessore meta-letterario, molto più avanguardistici di quanto di solito non si supponga: insieme questi due libri potrebbero rappresentare quasi i nostri piccoli Dubliners. Aggiungerò poi un altro autentico fuoriclasse dell’epifanico: Il partigiano Johnny di Fe­noglio, che è uno dei pochi capolavori del Novecento italiano.
Con il che, al termine del nostro percorso, bisogna aprire un’altra parentesi, per ricordare come l’intensificazione epifanica del significato possa alle volte intrecciarsi con una semantica in linea di principio completamente diversa, quella determinata dall’ «effetto autobiografia». Sto pensando cioè a quei testi in cui, indipendentemente dal fatto che le storie narrate rientrino nella fiction o nella non-fiction, il lettore ha la netta sensazione di leggere una vera autobiografia, dotata di tutta l’intensità dell’esperienza veramente vissuta. L’autobiografia, genere (in prima approssimazione) quanto mai anti-sperimentale, potrà così mescolarsi non solo, com’è naturale, con un grande genere narrativo ottocentesco, il romanzo di formazione, ma anche con una sistematica sperimentazione linguistica e strutturale: come accade in un altro capolavoro del nostro Novecento: Libera nos a Malo di Meneghello, che è un libro sperimentale come pochi altri, ma certo non è un’opera d’avanguardia. Come volevasi dimostrare.