Il modello dell’Open Access per la pubblicazione scientifica

Il piccolo mondo avanzato delle pubblicazioni scientifiche diventa avanguardia per modelli di business innovativi, complementari a quelli tradizionali, resi possibili dalla diffusione delle tecnologie digitali. In principio fu la comunità dei fisici; ora, le strategie di pubblicazione «open» si stanno perfezionando, tra archivi digitali e riviste che garantiscono accesso gratuito a fronte di costi sostenuti dalle istituzioni di appartenenza degli autori. Perché è più efficace pagare per la disseminazione che per l’accesso.
 
All’interno del settore dell’editoria libraria, le pubblicazioni scientifiche rappresentano un segmento decisamente piccolo in termini numerici (nell’epoca dei bestseller, chi si cura di riviste sottoscritte, quando va bene, da poche migliaia di persone nel mondo?) ma fondamentale in termini scientifici e culturali. Ai nostri fini è interessante perché tale settore ha vissuto negli ultimi tempi cambiamenti strutturali non facilmente prevedibili: l’affermazione di modelli di business innovativi accanto a quello delle tradizionali riviste scientifiche è infatti stata resa possibile non solo dalla diffusione delle tecnologie digitali, ma anche dalla volontà politica di attori diversi che con il loro comportamento hanno permesso in circa quindici anni l’affermazione di un modello di pubblicazione complementare a quello tradizionale. Un progressivo processo di concentrazione nell’editoria scientifica e il correlato aumento esponenziale del prezzo degli abbonamenti e dei singoli articoli, nonché la possibilità offerta dalle tecnologie digitali di moltiplicare le fonti di reddito per gli editori derivanti dal riuso dei materiali a fini didattici hanno infatti determinato una riduzione e una discriminazione nell’accesso ai risultati della ricerca scientifica, spesso resa possibile solo da finanziamenti pubblici, a causa degli elevati costi di accesso ai risultati. Questo ha spinto bibliotecari, istituzioni di ricerca, finanziatori e alcuni ricercatori autorevoli a promuovere e realizzare modelli di business alternativi a quello delle riviste tradizionali, costruiti attorno all’obiettivo di massimizzare la diffusione e l’accesso.
Dal 1991 la comunità dei fisici aveva preso a scambiarsi in tempo reale i risultati delle ricerche sotto forma di preprint degli articoli che avrebbero visto la luce mesi dopo sulle riviste tradizionali, inviandole a un archivio digitale. Oggi arXiv, passato alla Cornell University, è il più famoso archivio Open Access, conta quasi 500.000 contributi ed è divenuto lo strumento principe della comunicazione scientifica per i fisici. Nell’ottobre 2003 la Max Planck Gesellschaft promosse a Berlino un convegno su «Accesso aperto alla conoscenza nelle scienze e nelle discipline umanistiche». Dal convegno scaturì la Dichiarazione di Berlino, firmata nel giugno 2008 da 250 enti di ricerca in tutto il mondo, fra cui la quasi totalità delle università italiane. La Dichiarazione di Berlino così definisce i contributi ad accesso aperto:
«Ciascun contributo ad accesso aperto deve soddisfare due requisiti:
– l’autore(i) ed il detentore(i) dei diritti relativi a tale contributo garantiscono a tutti gli utilizzatori il diritto di accesso gratuito, irrevocabile e universale e l’autorizzazione a riprodurlo, utilizzarlo, distribuirlo, trasmetterlo e mostrarlo pubblicamente e a produrre e distribuire lavori da esso derivati in ogni formato digitale per ogni scopo responsabile, soggetto all’attribuzione autentica della paternità intellettuale […] nonché il diritto a riprodurne una quantità limitata di copie stampate per il proprio uso personale;
– una versione completa del contributo e di tutti i materiali che lo corredano, inclusa una copia dell’autorizzazione come sopra indicato, in un formato elettronico secondo uno standard appropriato, è depositata (e dunque pubblicata) in almeno un archivio in linea che impieghi standard tecnici adeguati […] e che sia supportato e mantenuto da un’istituzione accademica, una società scientifica, un’agenzia governativa o ogni altra organizzazione riconosciuta che persegua gli obiettivi dell’accesso aperto, della distribuzione illimitata, dell’interoperabilità e dell’archiviazione a lungo termine».
Due sono le strategie di pubblicazione dell’accesso aperto:
– l’autoarchiviazione in archivi aperti: archivi digitali a carattere istituzionale (le maggiori università o enti di ricerca nel mondo stanno aprendo il loro Institutional Repository, che raccoglie la produzione intellettuale dei propri ricercatori) o disciplinare (come arXiv per i fisici, o E-Lis per la biblioteconomia e le scienze dell’informazione). Gli archivi raccolgono il preprint o il postprint dell’articolo in accordo con le politiche di copyright dell’editore {green road)\ numerose istituzioni universitarie e di ricerca stanno rendendo obbligatorio per i propri ricercatori il deposito dei risultati delle ricerche nel deposito istituzionale (un elenco si trova nel sito del progetto e-prints – Roarmap);
– la pubblicazione su riviste ad accesso aperto, che garantiscono la peer-review ma adottano un diverso modello economico (goldroad). A oggi sono presenti sul mercato oltre 3.400 testate, listate nella Directory of Open Access Journals (Doaj). Sono riviste che, al pari delle riviste tradizionali, garantiscono il processo di peer-review, spesso in maniera molto trasparente (per esempio la storia della prepubblicazione è spesso disponibile in rete, con i giudizi dei pari e i commenti degli autori) o innovativa (per esempio la rivista «PLoS ONE», che adotta gli strumenti del web 2.0 per una sorta di peer-review condivisa, o di forum accademico: ognuno può inserire un commento, dare un giudizio o fare aggiunte al testo originale, previa registrazione gratuita). Al pari delle riviste tradizionali – o forse più, dato il principio appunto della libera accessibilità, che si traduce in aumenti esponenziali delle citazioni – le riviste Open Access tracciate nel «Journal of Citation Reports» (Isi-Thomson Reuters) generano ottimi indici di impact factor, l’indicatore comunemente utilizzato per misurare la visibilità e notorietà della testata e quindi – indirettamente – la qualità dei suoi contenuti e la reputazione dei suoi autori.
La differenza fondamentale fra queste ultime testate e le riviste tradizionali sta nel diverso modello di business sottostante: nessuna richiede un prezzo per l’accesso ai contenuti. Ne deriva che i costi di pubblicazione sono sostenuti dagli autori, ovvero dalle loro istituzioni di appartenenza o dagli enti di finanziamento della ricerca, secondo il principio per cui per il finanziatore risulta più efficace pagare per la disseminazione – una volta per sempre – che per l’accesso – che rappresenta invece un modello di business più favorevole per l’editore. Altra differenza da notare è che molte delle riviste Open Access adottano licenze creative commons – nate per tutelare la proprietà intellettuale in rete – secondo il principio «alcuni diritti riservati». In ogni caso tendono a permettere che gli autori mantengano il copyright sui propri lavori: questo è importante ai fini del riuso del materiale pubblicato.
Dato il crescente successo del movimento Open Access, e sulla spinta del numero sempre maggiore di enti di finanziamento della ricerca che richiedono obbligatoriamente la messa a disposizione Open Access dei risultati di ricerche finanziate con fondi pubblici, anche molti editori tradizionali hanno iniziato da un paio di anni a offrire un’opzione Open sulle loro riviste, portando alla nascita di modelli ibridi. Come è successo nel caso della free press, i principali gruppi editoriali (come è il caso di Springer) hanno acquistato testate Open Access, incorporandole nel loro modello di business.
L’introduzione delle riviste Open Access ha indubbiamente portato alcuni vantaggi a diversi attori coinvolti nella produzione scientifica; grazie all’utilizzo delle tecnologie digitali, gli autori vedono ridursi i tempi di pubblicazione, o quantomeno possono più velocemente condividere risultati e commenti; inoltre, la disponibilità di articoli full text in rete consente una maggiore profondità di ricerca e un possibile maggiore impatto degli articoli. Il più immediato accesso ai contenuti permette alle università una maggiore visibilità per i propri ricercatori e un possibile snellimento delle procedure di creazione dell’anagrafe della ricerca. Per gli editori che riescono ad attirare masse adeguate di contributi di livello sulle testate Open Access, il modello consente elevati indici di citazione. Infine gli enti di finanziamento ottengono un maggiore ritorno sugli investimenti derivante dalla massima disseminazione dei risultati della ricerca, anche se di fatto si trovano a dover sostenere i costi di pubblicazione.
Più in generale, la presenza di nuovi modelli di offerta ha stimolato l’innovazione nei formati editoriali, nella gestione del processo di pubblicazione e di diffusione dei risultati scientifici e nell’identificazione di parametri alternativi all’impact factor per la valutazione della qualità delle pubblicazioni, controbilanciando al contempo l’elevato potere contrattuale degli editori tradizionali. Resta il problema che il processo di selezione, pubblicazione e diffusione di contributi scientifici è intrinsecamente costoso e che la sostenibilità economica di piattaforme online di contributi scientifici (siano esse riviste a pagamento o archivi Open Access) può essere raggiunta solo in presenza di massa critica molto elevata. Questo fa pensare che – come è già avvenuto per le riviste tradizionali – anche per gli archivi Open si verificheranno processi di concentrazione o di alleanza. La compresenza di istituzioni profit e non profit in concorrenza fra loro rappresenta la soluzione che meglio garantisce al contempo prezzi equi di accesso e di pubblicazione, innovazione nei formati e nelle soluzioni di disseminazione della ricerca, competizione per la qualità e la visibilità delle testate. Tale massa critica va raggiunta nelle fasi più direttamente collegate alla gestione dei contenuti e ai processi di archiviazione, ma non può evidentemente prescindere dalle differenti modalità di comunicazione proprie delle comunità di ricercatori afferenti alle singole discipline. Diverse declinazioni sono e saranno possibili, tenuto conto dei flussi di finanziamento, degli attori coinvolti, delle pratiche di ricerca e di disseminazione dei risultati, dei criteri utilizzati per misurare la qualità scientifica dei risultati, che variano in modo significativo fra le discipline.