Quel mago di Oz. La pubblicità del libro a una svolta. Conversazione con Giuseppe Mazza

Le forme di promozione pubblicitaria più recenti hanno determinato una percezione del libro diversa, più amichevole, desacralizzata ed emotiva. Nel paradosso di creatività che promuove creatività, il libro si è adattato al linguaggio nuovo creato dalla pubblicità per questo particolarissimo «prodotto con codice a barre».
 
Se serve, se non serve, se fa male, se non ne fa, se è necessaria per «stare nel» mercato, se invece finisce semplicemente con il glorificarlo a scapito di un prodotto particolare come il libro. Tutte le forme del «se». Le conosciamo.
Vogliamo prendere le mosse dal fatto che comunque c’è, la si fa, gli autori la vogliono, gli agenti letterari la pretendono, i librai ci contano, gli editori vi investono? La pubblicità. Se partiamo da qui, tutte le noiose interrogazioni che ai gazzettieri piace spesso sollevare diradano subito.
Gli editori hanno palesemente cercato – grazie all’apporto delle agenzie pubblicitarie più sensibili – una progressiva sdrammatizzazione della percezione del libro, di chi lo scrive e di chi lo produce. E accaduto per alcuni titoli forti (quindi tali da giustificare investimenti superiori alla media) e, più spesso, in occasione di promozioni più articolate (le campagne a sostegno delle collane tascabili) o di eventi istituzionali (cinquantenari, centenari).
È interessante notare come, contemporaneamente, la stampa e i media più in generale abbiano imparato a «far rumore» intorno a figure legate al libro dribblando l’obsoleta strada della recensione, o più in generale della valorizzazione critica. I magazine hanno inaugurato la celebrazione anticipata dell’esordiente in quanto portatore di «novità», «eccellenza», «scandalo», con formule non lontane dallo slogan e facilmente utilizzabili dall’editoria come citazioni valoriali. La tv (ma qui l’area è circoscritta oggi al fenomeno Fabio Fazio, anche se non si dimenticano le performance di Alessandro Baricco e l’eleganza di Corrado Augias) invita personaggi portatori di valori condivisi o immediatamente condivisibili ai quali viene chiesto di essere «semplicemente» e televisivamente il valore che portano: il conduttore ha buon gioco nel «promuovere» il libro di cui spesso quei personaggi sono autori. Perché il valore produce valore e dalla persuasione a leggere si presume la creazione di nuovo valore.
Ho fatto cenno a questi aspetti apparentemente slegati dalla promozione pubblicitaria perché partecipano tutti assieme a un processo che ha determinato e continua a definire una percezione del libro diversa, decisamente più «amichevole», desacralizzata ed emotiva.
Va da sé che il vero «servizio» che la pubblicità è in grado di fornire non può essere generalizzato – il rischio è infatti in tal caso la genericità, la dispersione, la non efficacia. Se qualcosa è accaduto nel mondo della comunicazione del prodotto libro, è proprio perché l’editore ha saputo di volta in volta riconoscere la potenzialità intrinseca dell’opera e dell’autore (e non sempre l’opera e l’autore hanno per definizione la garanzia di uno spazio di mercato assicurato). Gli in vestimenti certamente discriminano, ma al contempo aprono spazi di ricezione che finiscono con il portare beneficio a opere e ad autori più difficili da promuovere. Se usciamo da una concezione meccanica e indifferenziata della promozione e consideriamo che il libro ha forme di autocomunicazione estremamente forti, e che spesso il «miracolo» avviene in libreria (in forza di esposizione, qualità dei paratesti, mediazione del personale, tutte molle che precedono l’auspicabile e sempre misterioso passaparola), se usciamo dunque dalla pubblicità come mera protesi comunicativa, allora possiamo vedere esiti interessanti. La pubblicità del libro è venuta invero maturando uno stile proprio, sia nella gestione dei tradizionali «finestre», «piedoni», «pagine» (in cui appaiono nome dell’autore, titolo e copertina del libro, ma attraverso accorgimenti grafici nuovi e un gusto molto pop dello slogan), sia nella costruzione di vere e proprie campagne, che vanno oltre la stampa e abitano volentieri altri spazi, compresi fra il «sonoro» della radio (medium che ha conosciuto una decisa rivitalizzazione), il volantinaggio e la rete.
Dove gli investimenti sono possibili si sono realizzate pubblicità urbane su mezzi di trasporto, affissioni, film sui circuiti chiusi delle metropolitane.
Uno slogan a cui sono particolarmente affezionato, «Quel mago di Oz», forse vent’anni fa sarebbe stato impensabile. Amos Oz è uno dei più grandi scrittori del pianeta, un autore ad alto tasso valoriale: porta con sé non solo l’aura della grande narrativa contemporanea, ma anche l’eco di battaglie combattute in Israele e fuori Israele contro il fanatismo religioso, ideologico, politico. Nello slogan, tutto concentrato sulla sua personalità d’autore, il messaggio voleva parlare di magia (la magia dell’intelligenza, della scrittura che incide sul cuore dei lettori), ma con un doppio salto ammiccava all’atmosfera infantile-giocosa-sognante della favola/musical. L’Oz mago scivolava con humour dentro il volto severo ma confidente dell’Oz scrittore e insieme riuscivano a comunicare passione e incanto, persuasione e accessibilità. Era come uno schiocco di dita. Uno slogan magico.
Diciamo che il libro ha provato il brivido di uscire allo scoperto. Quello che tuttavia mi interessa qui è proprio il linguaggio che la pubblicità ha cercato per il libro e non la potenza di fuoco inevitabilmente sottesa alla forma promozionale. Il Codice da Vinci di Dan Brown – autore sconosciuto in Italia ai tempi della pubblicazione del libro – fu presentato con una campagna costruita sull’imminenza dell’uscita mimando un’attesa che di fatto non era fondata su elementi di certezza (che sono di volta in volta la fama dello scrittore – il «nuovo» Stephen King, la «nuova» Allende – o il successo di un’opera – «dall’autore di Il cacciatore di aquiloni», «dall’autore di Tre metri sopra il cielo»). La promozione di L’ombra del vento di Zafón è stata realizzata svelando in fasi successive l’incipit del romanzo. La campagna che accompagnò l’uscita di La Mennulara di Simonetta Agnello Hornby fu costruita sulla fecalizzazione del personaggio della protagonista attraverso la molteplicità delle opinioni che all’interno del romanzo esprimono su di lei altri personaggi (una sorta di pettegolezzo organizzato). È interessante poi citare la stratificata operazione di lancio multimediale di Amore 14 di Federico Moccia: un sito web ha cominciato ad annunciare l’uscita del nuovo libro creando un contagio partecipativo che ha sorretto una seguente e concomitante operazione di Street marketing con volantinaggio di materiali dedicati in aree e luoghi a forte densità adolescenziale. Capita sempre più spesso di trovarci davanti a processi inventivi che sottendono una più matura confidenza con il libro, una più libera e laica visione del lettore/consumatore, una meno drastica cesura fra libro concepito – quasi fosse un genere – come bestseller e libro che fra le sue qualità contempli anche la larga circolazione. Ci troviamo sovente di fronte alla produzione di materiali sempre più ricchi – come si usa dire – di «creatività». E si tratta, a ben guardare, di creatività su creatività – un bel paradosso -, di forme espressive che promuovono forme, e di processi di persuasione che precedono il processo di persuasione alla lettura che è di fatto la scrittura.
Mi sembra che ascoltare le riflessioni di un uomo che lavora nella pubblicità con successo e rigore sia la strada più pertinente per tracciare le coordinate di una riflessione. Era da tempo – lavoro con lui da una mezza dozzina d’anni – che avvertivo la necessità di sentire il «teorico» che c’è in Giuseppe Mazza (vicedirettore creativo in Saatchi & Saatchi e ora founding partner dell’agenzia Tita), al di là dei contributi professionali e dei commenti ai contributi professionali, così sempre meditati e fondanti. Da qui la conversazione che segue.
Una prima domanda inevitabile.
 
C’è ancora resistenza a parlare del libro come di un prodotto?
C’è molta resistenza a parlare del libro come di un prodotto di consumo, neanche fosse un pannolino. Giusto, perché un libro è un’altra cosa. Sbagliato, perché è un prodotto industriale con tanto di codice a barre.
 
La pubblicità fa bene al libro?
In Italia la pubblicità serve al libro più che a ogni altro prodotto. Prima ancora che a promuoverne il consumo, potrebbe assolvere a un compito storico: far evolvere l’idea stessa di libro. Fargli perdere la sua aura di esperienza superiore riservata a spiriti elevati.
Penso sia questo l’errore di tutte le campagne che negli anni hanno promosso la lettura: definirla come uno strumento per diventare migliori e acquisire prestigio sociale. Non è forse il modo per ribadire l’inferiorità di chi non legge ancora? E dunque – di nuovo – libro come strumento di esclusione. Mai come puro divertimento, mai come passione. In fin dei conti, mai come oggetto vitale, sempre come separazione dai piaceri.
Penso che un libro sia un’esperienza. Bella tra altre belle. Penso che possa valere quanto un derby allo stadio, quanto rivedere un amico. Cose che puoi vivere in modo più o meno profondo. Penso che si possa anche non leggere niente ed essere persone meravigliose. Credo che dovremmo dirlo.
Finché il libro sarà destinato a nobilitarci, e non avrà la serena laicità di mischiarsi al resto, i lettori italiani resteranno sempre quelli. Per numero e per qualità. E mancheranno vere strategie di allargamento del pubblico. Non a caso gran parte dell’editoria italiana pianifica la pubblicità dei libri solo sui maggiori quotidiani: è una predica ai convertiti, suona come una rinuncia.
 
Che tipo di prodotto è, il libro, per la pubblicità?
Ogni prodotto ha la propria identità. Il fatto che il libro possa essere pubblicizzato proprio come un pannolino, non significa che lo sia! Generosi tentativi di renderlo «pop» sortiscono spesso effetti perversi. Nel tentativo di recuperare terreno, si scimmiottano altri generi di consumo e si perde ciò che distingue e caratterizza il libro, facendo una pappetta di luoghi comuni del marketing, un nulla senza pubblico.
Forse ci si vergogna della sua complessità, ma così lo si tradisce. Errore. È come dimenticarsi di dire che «il pannolino assorbe, mamma». Il problema è che per comunicare bisogna avere qualcosa da dire.
 
Che rapporto si stabilisce fra copywriter e libro?
Scintille in vista. E l’incontro (dispari, s’intende) tra due forme di ingegno linguistico. Può trasformarsi in scontro. Il bel romanzo non ha gran voglia di farsi da parte e cederti il palcoscenico. Solo se lo convinci di stare lavorando per lui. Per la sua gloria e non per la tua.
Da parte mia, ho sempre pensato che il libro è già stato scritto. Quel libro arrivato sulla nostra scrivania è un dato. Va solo ascoltato. Dunque è logico che debba essere io a adattarmi. Il resto è desiderio di non tradire.
Può valere anche al contrario: Majakovskij scrisse bellissime headline dedicate a ciucciotti e matite. Mi è sempre piaciuta l’idea del poeta che indossa il vestito del copy, impegnato a non tradire il prodotto. Un’inversione di ruoli, dalla letteratura alla pubblicità.
 
Chi c’è appena oltre il messaggio? I lettori? I consumatori? Chi?
Gli ignari. Nel libro bisogna cercare il gancio in grado di coinvolgere gli ignari. I lettori potenziali, o magari i nuovissimi. Ciò che chiamo gancio è qualcosa da poter mettere in comune con i passanti (comunicare il singolo titolo o la collana non cambia granché, sotto questo aspetto). Si tratta di estrarre una piccola verità, il più possibile rilevante e distintiva. Non c’è un metodo, è solo utile domandarsi: ha senso chiedere l’attenzione dei passanti per dire questa cosa?
Non chiamiamoli consumatori. E una definizione che presuppone una decisione già presa, quella appunto di consumare. Per me sono passanti. Persone impegnate nelle cose di ogni giorno. Facendo pubblicità mi sembra di fermarli per strada, mentre vanno chissà dove, per parlargli di una cosa che conosco. Per essere ascoltato, mi conviene non fargli perdere tempo, essere chiaro e piacevole. E magari anche non parlare con supponenza, evitando se possibile le gaffe.
Parlare con un cliente serve a capire innanzitutto le cose che non ha senso fare. Il cliente conosce il suo prodotto. Mentre lo ascolto, essenzialmente depenno soluzioni. Via via, dal suo discorso emergono divieti di accesso. Nella mia mente li accumulo senza alcuna forma di affezione per ciò che non si potrà fare. Dopo un po’ mi accorgo che restano un paio di strade possibili. Tra quelle interessanti, intendo. Le sottopongo, ne parliamo. Può darsi che non piacciano. A qualcosa si arriverà. Voglio solo sapere dove andare, penso. Arrivarci sarà compito mio.
L’importante sarà poi esprimersi in modo insieme semplice e sorprendente. È la mia coppia dorata. Altri possono essere solo semplici (come l’informazione, il cui compito è divulgare) o solo sorprendenti (come un quadro di Miro, che emoziona senza spiegarsi). Io invece devo fare insieme le due cose: comunicare un concetto preciso in modo inatteso. Anche i latini sostenevano che oltre a convincere bisogna commuovere.
Ci tengo a dirti: in realtà qualunque pubblicitario sa bene cosa serve per accontentare il cliente medio. Quali siano gli ingredienti più graditi e come far colpo. Cosa promettere e cosa dare. Il cinismo professionale nel mio campo può raggiungere forme sublimi. E naturalmente non coincidere affatto con i reali interessi del prodotto: quelli restano avvolti negli infiniti abracadabra del marketing. A saperli diradare, tutto diventerebbe miracolosamente sensato, tangibile, persino bello. Ma siamo malati di inconsistenza e residualità, in altre parole «fuffa». Per quanto non abbia mai affrontato con i miei colleghi il tema «la nostra deontologia», credo che risieda fondamentalmente in questa opera di pulizia.
 
La pubblicità del libro è sensibile al medium che la veicola?
I media sono il regno della fuffa. Attualmente si predica il superamento dei mezzi tradizionali (stampa, radio, affissione, tv), roba ormai vecchia che deve far posto ad altri mezzi, magari integrati in modo «olistico»: web 2.0, guerrilla, viral, product placement e via dicendo… basta non lasciarsi impressionare. Alla fine serve solo un’idea, e qualcuno che se la faccia venire.
I media sono come utensili. A volte ti serve il cacciavite, a volte un martello. Usali per quello che devi costruire. Facendo attenzione ai luoghi comuni. La radio che aiuta con i giovani, la stampa quotidiana che collega alle élite, il web che lo fa con entrambi, mentre la stampa periodica «targettizza», e l’affissione parla a molti, la tv con tutti… tutto vero, ma anche abitudinario. Mescolare le carte può essere molto produttivo.
Se vuoi che i media funzionino, devi parlare la loro lingua. La stampa è still life, oggetti statici: può rappresentare azioni solo se si riesce a fermarle al loro acme. L’affissione è la prova del nove di un annuncio stampa. La tv è per le idee in movimento, è retorica sequenziale. La radio è un suono, il suono di quello che si vuol dire. Altrimenti sono due attori che parlano («Cara? Hai visto le nuove offerte?»).
E ancora. Se dopo aver visto il visual e letto la headline ancora non hai capito di cosa si parla, l’annuncio è fatto male. Se dopo aver visto uno spot si apre il dibattito su cosa esattamente significhi, non vuol dire – come a volte sento – che comunque «ha colpito» e ha attirato l’attenzione: vuol dire che chi l’ha fatto non sa comunicare, punto e basta.
La pubblicità è un genere di intrattenimento. Dunque non mi piace quella presentata a cliente e pubblico pensando «a loro piacerà». Preferisco quella creata pensando «speriamo che piaccia».
E poi, dal momento che la pubblicità non è richiesta, penso che abbia il dovere di essere bella. Cioè pertinente e fantasiosa. Altrimenti è una perdita di tempo. O un puro linguaggio di potere, che in quanto tale alla lunga non è efficace. Farsi obbedire è diverso da essere amati.
A me piacciono gli anglosassoni, forse perché meno inibiti nel maneggiare denaro: la loro franchezza, la loro immediatezza, hanno qualcosa per me di profondamente pulito. Le loro motivazioni sono limpide. Mi viene in mente l’annuncio Chivas Regal degli anni sessanta che dice: «Vai avanti, spendi gli altri due dollari. E Natale, o no?». O quello di una catena di ristoranti alla buona che titolava: «You can’t eat atmosphere» (L’atmosfera non si mangia). O la Volvo che avanza nel fango mentre un titolo recita: «Drive it as if you hate it» (Guidala come se la odiassi). È la famigliola di agricoltori che fa una foto ricordo davanti alla Volkswagen appena acquistata dicendo: «E la sola cosa che potevamo fare dopo la morte del mulo».
 
Quali sono i lavori in cui hai sentito meglio intrecciarsi la tua professionalità e la specificità del prodotto libro?
Il mio debole per la concretezza mi fa amare le promozioni, nelle quali si parla di cose molto precise. Ne cito alcune.
Il 30% in meno sugli «Oscar Mondadori», che di conseguenza diventarono «Settant’anni di solitudine», o «I due moschettieri virgola uno». Un gioco tra i libri e il pubblico che riuscì molto bene.
La promozione per i tascabili Feltrinelli nella quale erano gli scrittori stessi a recriminare sul costo troppo basso: «Anni in biblioteca. Mesi su una pagina. Giorni trascorsi in cerca di un aggettivo. E Feltrinelli mi vende a questo prezzo», diceva per esempio il premio Nobel Doris Lessing. Era davvero il massimo: parlavamo di convenienza e intanto cantavamo il valore dei libri.
Il pay off che firmò il centenario Mondadori: «La casa in cui siamo cresciuti». Anche perché definisce il vero prodotto di una casa editrice, ossia le occasioni di crescita.
Il lancio di La Mennulara di Simonetta Agnello Hornby, prima operazione su un romanzo basata su un vero teaser. Lanciammo il personaggio usando la sua prismaticità, e Maria Rosalia Inzerillo occhieggiava dalle pagine dei giornali attraverso le opinioni che di lei hanno gli altri personaggi come Citizen Kane di Orson Welles.
Le campagne per la Disney, per le collane di libri gioco.
Perché tutte le volte la semplicità evitò la banalità.