La Commedia recitata

È possibile che milioni di italiani scoprano di amare la Commedia grazie a Vittorio Sermonti e Roberto Benigni? A conquistarci nei loro spettacoli è la forza comunicativa dei versi di Dante oppure quella di chi li legge? E che effetto ci fa pensare al dvd del lettore d’eccezione come a un rivoluzionario canale di accesso mediato a testi che molti non sono in grado di leggere da soli? Sono solo alcuni degli interrogativi suscitati da un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti: e merita un supplemento di riflessione, perché, a ben pensare, la Commedia non era stata composta per essere ascoltata nell’esecuzione di qualcun altro.
 
Davvero non era facile immaginare che le Lecturae Dantis potessero trasformarsi in uno dei più prosperi sottogeneri dell’intrattenimento di massa. Il merito della sorprendente evoluzione va a due personaggi che a prima vista sembrerebbero avere assai poco da spartire: Vittorio Sermonti e Roberto Benigni. Con lo strepitoso successo dei loro rispettivi spettacoli, lo stimato professore e il talentuoso guitto/regista sono riusciti nel non facile compito di rivitalizzare una forma di divulgazione e consumo culturale dalla tradizione plurisecolare, donandole una dimensione di popolarità obiettivamente inedita. In centinaia di migliaia hanno assistito alle serate dantesche di Sermonti, che dopo aver ultimato la lettura completa delle tre cantiche per Radio Rai alla fine degli anni ottanta (con la supervisione di Gianfranco Contini e poi di Cesare Segre) ha continuato a riproporre il suo spettacolo dal vivo nelle chiese e piazze delle maggiori città italiane: da Ravenna (nel suggestivo scenario della basilica di San Francesco, dove Dante è sepolto) a Milano, Roma, Firenze, Bologna. Benigni preferisce concentrarsi su singoli canti, senza preoccupazioni di ordine sistematico. Anche lui ha cominciato affollando piazze cittadine e aule magne delle università. Poi è arrivata la tv, e i numeri hanno assunto un nuovo ordine di grandezza: alla sua recente esecuzione del V canto dell’Inferno, trasmessa da Rai Uno il 29 novembre 2007, hanno assistito qualcosa come dieci milioni di spettatori.
La formula (verrebbe da dire il format) cui entrambi si attengono non sembra invero né particolarmente originale né particolarmente complessa. La loro performance si compone in sostanza di due momenti. Il primo è più ampio ma ha carattere esplicitamente propedeutico: consiste in un puntuale ma non noioso commento esplicativo al testo di uno dei canti della Commedia, una sorta di vera e propria lezione che dia al pubblico le chiavi per una soddisfacente comprensione dei versi del Poeta. Il secondo momento, più breve, rappresenta il coronamento ideale dello spettacolo: è la vera e propria lettura del canto, che mira a mettere lo spettatore in condizione di fare un’esperienza intensa e suggestiva, seppur indiretta, della forza della parola dantesca, risuonante qui e ora nell’esecuzione esemplare di un interprete d’eccezione.
Decisivo, per la piena efficacia dello show, è che a gestirne l’intero programma sia il medesimo soggetto, che si presenta al pubblico come depositario di un doppio carisma. Il particolare fascino degli spettacoli tanto di Sermonti quanto di Benigni, l’eccezionaiità dell’esperienza che essi offrono ai propri fruitori, deriva appunto dal fatto che chi legge si qualifica inscindibilmente come auctoritas e come attore. A distinguere le lezioni del professor Sermonti da quelle di tanti altri studiosi non è la sua statura accademica di dantista, quanto la sua speciale bravura di affabulatore coinvolgente. Specularmente, l’attrattiva delle letture di Benigni rispetto a quelle di tanti altri bravi attori non risiede nella purezza della sua dizione o intensità della sua interpretazione, quanto nella speciale competenza che può vantare come appassionato cultore della Commedia.
Naturalmente, proprio il differente dosaggio dei due carismi è ciò che distingue a priori i due interpreti e il particolare fascino delle loro proposte. Prima ancora di vederli e ascoltarli, non è difficile immaginare cosa aspettarsi da ciascuno: un’interpretazione più rigorosa, sobria ed elegante da parte del professor Sermonti, una versione più divertente e anticonvenzionale da parte di Benigni. Almeno fino al dicembre 2002, del resto, le fortune del duo sono maturate in un clima di reciproco rispetto e legittimazione: in occasione della sua prima lettura dantesca in tv (dedicata al XXXIII canto del Paradiso), Benigni ebbe cura di interpellare preventivamente il professore, per qualche consiglio e chiarimento sulle terzine di più ardua interpretazione. E dal canto suo Sermonti non mancò di ricambiare elogiando pubblicamente la «forza comunicativa straordinaria» dell’ex piccolo diavolo. Senonché, a distanza di cinque anni, Benigni in tv c’è tornato: e questa volta non per una performance eccezionale, bensì con un intero ciclo di letture (tredici appuntamenti in seconda serata, dopo l’avvio in prime rime con il canto di Paolo e Francesca) trasmesse dalla Rai con l’ovvio corredo di spot, finestre promozionali nei Tg, trionfali considerazioni sulle inattese risposte del pubblico alla programmazione di qualità. A qualcuno, si capisce, è parso un po’ troppo. Lo stesso Sermonti (che nel frattempo è passato da Dante all’Eneide di Virgilio) non ha nascosto un po’ di irritazione, e in un’intervista a un noto settimanale ha lamentato che questo genere di «divulgazione allegra» in realtà «non è un buon servizio fatto al Poeta e nemmeno agli ascoltatori».
Due, in sostanza, le obiezioni formulate. La prima (meno interessante) dà voce alla tipica insofferenza dell’intellettuale di fronte a una forma di spettacolarizzazione della cultura ritenuta un po’ troppo spinta e sfacciata. A Benigni Sermonti rimprovera cioè di barare, di «adescare il pubblico» con «spiritosaggini e cose un po’ ovvie» che finiscono per tradire il messaggio profondo della Commedia-. «Dante è duro e severo e ci vuole durezza e severità per capirlo», altro che le battutacce su Veltroni e Berlusconi. In realtà è fin troppo facile controbattere che il servizio reso a Dante da Benigni è tutt’altro che indegno e disonesto, una volta che sia garantita al pubblico una presentazione non (troppo) ingannevole del prodotto che gli viene offerto. Sermonti potrà prendersela con i toni un po’ eccessivi di qualche giornalista o commentatore, ma dovrà riconoscere che qualunque spettatore, in fondo, si aspetta che nella Lectura Dantis di Benigni ci sia anche molto Benigni, insieme a un po’ di Dante. Chi preferisce una mediazione al testo più controllata e rigorosa, più severa, potrà senz’altro optare per una serata con Sermonti.
Ben più profondo è il secondo rilievo avanzato dal professore alle letture dell’allievo/concorrente: «Per leggere Dante» sostiene nella medesima intervista «ci vuole uno scrittore e non un attore, che per quanto intelligente e attrezzato professionalmente ha la tendenza a leggere un testo nel modo migliore possibile. Ma così facendo rischia di farsi sopraffare dalla sua bravura». A emergere, questa volta, è il punto di vista fatalmente contraddittorio e dimidiato dell’homo scribens, che anche quando crede sinceramente nell’importanza di valorizzare la dimensione della voce, dell’esecuzione del testo poetico, non può fare a meno di ritenerla una forma di pubblicazione secondaria rispetto alla purezza della pagina scritta. Se è vero insomma che la Commedia va recitata, che solo attraverso la pronuncia se ne realizza appieno la struttura ritmico-musicale, al tempo stesso, però, bisogna avere la consapevolezza che la voce dell’esecutore, la sua faccia, il suo corpo, sono presenze estranee, scorie del tutto inessenziali alla comprensione e al godimento dei versi di Dante. Lo sono quelle di Benigni e ovviamente lo sono, nonostante il pudore e lo sforzo di understatement, quelle di Sermonti. Il paradosso è che se Dante stesso tornasse in piazza a Firenze o davanti alle telecamere Rai per leggere pubblicamente il suo poema, la sua voce, la sua faccia, il suo corpo sarebbero anch’essi da ritenere, in ultima analisi, impurità accessorie rispetto al testo, se non addirittura fattori di disturbo.
E questo il margine di paradosso che sigla la condizione stessa della poesia come genere letterario scritto. Un testo come la Commedia non è stato composto per essere ascoltato nell’esecuzione di qualcun altro (come avviene per uno spartito musicale). Esso richiede a ciascun lettore una lettura personale, silenziosa, meditata, e al tempo stesso allude alla necessità di un’esecuzione ideale, di una realizzazione musicale dinamica e unitaria della sequenza di versi stampati sulla pagina. Ma l’unica dimensione di musicalità o sonorità davvero pertinente, per la comprensione e il godimento pieno del testo, è quella puramente virtuale che il lettore può cogliere appunto immaginandola sulla pagina. Come in sostanza suggerisce Sermonti, ogni attualizzazione concreta di quella dimensione allusiva (qualunque sia lo stile di declamazione che si scelga) non può che produrre un risultato spurio, un’opera mista, dove letteralmente la voce dell’esecutore si sovrappone (con il suo timbro, il suo magnetismo, la suggestione delle espressioni mimiche che la accompagnano) a quella dell’autore. Così è del tutto coerente che, in oltre vent’anni di letture della Commedia, il professore non abbia mai voluto registrare e incidere le sue esecuzioni. Le ha trascritte, le ha raccolte in tre grossi fascicoli insieme al testo dei cento canti, e le ha pubblicate così: come libri.
Di sicuro Benigni non ha le sue remore. Pienamente a suo agio con le diverse forme della comunicazione audiovisiva, non solo recita Dante in tv ma registra le sue performance e le raccoglie in un cofanetto di dvd. Per l’uomo della cultura scritta non sarà mai, probabilmente, un’edizione a tutti gli effetti della Commedia (al contrario di quella di Sermonti). Ma con ogni probabilità è l’unica in grado di rendere i versi di Dante fruibili in modo autonomo da parte di un pubblico largo che, senza l’aiuto di un lettore/mediatore, non sarebbe in grado di approfittare di una tradizionale edizione a stampa (sia pure commentata).
Naturalmente si può auspicare che un numero sempre maggiore di persone impari a leggere autonomamente opere come la Commedia. La scuola, a oggi, non sembra in grado di assicurarlo, e forse è più urgente che si preoccupi di riuscire a formare buoni lettori di romanzi. La capacità di maneggiare con una qualche confidenza libri di poesia del passato (ma anche del presente) sembra destinata a rimanere una competenza di nicchia, riservata forse a chi ha frequentato un liceo (se non ai laureati in Lettere). E allora, quella di Benigni non sarà certamente la migliore delle possibili letture della Commedia, ma te la puoi guardare in dvd. Non è un vantaggio da poco.