Versi e versacci

Esistono molti libri dedicati alla canzone italiana: alcuni, come è avvenuto in casi recenti, hanno l’obiettivo di nobilitarla anche a livello letterario e, perché no?, di farla rientrare nel canone poetico. Ma spesso quando si parla di versi in musica lo si fa in modo approssimativo, e, soprattutto, non si tratta con il dovuto rispetto filologico un’arte – quella dello scrivere e del cantar versi – che meriterebbe più rigore. Il rischio dietro l’angolo è quello di voler parlare di poesia e di continuare, invece, a fischiettare canzonette.
 
Gennaio 2012. Con una lettera aperta alla «Repubblica», Roberto Vecchioni annuncia la propria decisione di rinunciare all’incarico di presidente del Forum universale delle Culture, assegnatogli dal neosindaco di Napoli, de Magistris.
Nella lettera, il cantautore milanese si definisce ironicamente un poetucolo, cioè un poeta senza pretese; ma più avanti arriva a dichiarare: «Io resto un poetastro». Il civettuolo understatement, a questo punto, si incupisce. Suvvia, Vecchioni, non si butti giù. Poetastro – appellativo sgradevole anche nel suono – significa falso poeta, poeta da strapazzo. Ma i veri poeti, poi, chi sarebbero? In una sua canzone del 1975, il cantautore milanese li definiva «dei vecchi signori» che «si fanno le pippe / coi loro ricordi […] e poi strisciano sui congiuntivi: / se fossi, se avessi, se avessi e se fossi, / se fossimo vivi». Se i poeti sono questo, meglio essere tutt’altro.
Infatti. Ma allora perché continuare a riferirsi – seppure obliquamente – alla obsoleta qualifica? Mentre riflettevo sul diminutivo e sul dispregiativo scelti da Vecchioni, pensavo all’arcobaleno di alternative che la nostra lingua offre. Poetino (o poetuccio) sarebbe un piccolo adorabile poeta; poetetto un poeta per gioco, candido e spensierato; poetotto un buon diavolo di versificatore. Mi veniva in mente anchepoetone (un poeta di grosso calibro, magari un po’ ingombrante) e – perché no? – poetista (uno scrivente che caparbiamente aspira al poetico), poetiere (onesto fornitore di servizi poetici), poetante (affine a politicante) e, infine, poetaccio.
La desinenza in -accio, in teoria, dovrebbe risultare dispregiativa: un gattaccio è un gatto laido e rissoso. Ma l’italiano non è così schematico. Consideriamo, per esempio, il sottotitolo del libro (Bompiani, 2012) che lo scrittore e poeta Aldo Nove dedica al paroliere-compositore Giancarlo Bigazzi, appena scomparso: «Il geniaccio della canzone italiana». Qui la desinenza in -accio assume addirittura un senso elogiativo. Un geniaccio – vallo a spiegare a un tedesco, o a un inglese! – non è un genio malvagio: è – come ogni italofono sa – un talento incontenibile, scanzonato, un’intelligenza creativa imprevedibile e travolgente. In questo caso, l’understatement – più sottile di quello tentato da Vecchioni – funziona: attraverso l’uso del dispregiativo-elogiativo, la qualifica di genio – assai più impegnativa, e inflazionata – viene elegantemente evitata. Almeno in copertina. Nel sottotitolo, Nove si è controllato; nel libro, non ce la fa. Bigazzi, scrive, è uno dei «grandi artigiani che non hanno avuto bisogno di reclamare il proprio nome sulle loro opere perché queste avevano il pudore del genio nella sua piena potenzialità espressiva, in quella forma di umiltà paradossale che solo i grandi hanno, perché i capolavori parlano da soli […]».
Poco più avanti veniamo informati – casomai prendessimo sottogamba il genio bigazziano – che «una volta Von Karajan interruppe un’intervista […] perché alla radio stavano trasmettendo Gloria: doveva ascoltare un capolavoro».
Viene da chiedersi se del capolavoro il maestro Karajan apprezzasse solo la musica, o anche i versi: «Gloria, / manchi tu nell’aria, / manchi a questa mano / che lavora piano…».
A cosa stia lavorando piano la mano dell’uomo che pensa a Gloria «nuda sul divano» resta avvolto nel vago di cui ogni autentica poesia si sostanzia. Le canzoni infatti – ci avverte Nove – «sono fatte della stessa materia dei sogni».
La parafrasi da Shakespeare è solo il primo di una serie di agganci colti: l’autore di Luglio e di Lisa dagli occhi blu è circondato, in queste pagine, da un corteggio di scrittoroni e poetoni come Proust e Valéry, che mai avrebbero sospettato di dover reggere il moccolo in una pop-apoteosi. Ricordate Ti amo? «Tiamotì / a-mò / Tiamotì / a-mò […] Apri la porta a un guerriero di carta / igienica […]» Dopo avere evocato la mistica notte di pioggia in cui il capolavoro fu composto, Nove ci parla di «una stanza trasfigurata, tutta piena di fumo e di note, sospese, come se Ade dio degli inferi fosse uscito dalle profondità della Terra per portare nuovi suoni e parole […]».
Accipicchia. Alle lucenti, coloratissime palle culturalesche che decorano l’albero di Natale della canzonetta, la nostra critica ci ha abituati da tempo («effetto Balanzone», lo chiamo io); il dio degli inferi però – che io sappia – non era stato ancora tirato in ballo. A un certo punto, leggendo, mi è venuto il sospetto che qui si facesse il verso al peggiore kitsch del giornalismo musicale solo per divertirsi malignamente alle spalle del lettore. Nove sta scherzando – ho pensato – il suo dev’essere un finissimo gioco letterario, un «esercizio di stile». Poi, però, sono andato a rileggere il resoconto del suo primo ascolto di Ti amo: «Era come se tutto si fermasse di fronte a quelle note e a quelle parole. Il ritmo della canzone sembrava essere perfettamente coincidente con quello del vento che iniziava ad alzarsi sul fare della sera e il mio respiro anche: si legava alla musica, in un’unica vibrazione della vita, della mia vita, nella magia di una canzone. Sapevo, in quell’istante, sentivo con certezza che quella canzone avrebbe superato gli anni e i decenni […]. Ricordo un palo della luce, vicino al quale mi trovavo quando per la prima volta sentii quella canzone, un anonimo palo della luce […] che però ancora ricordo perché mi trovavo lì vicino nel momento in cui la canzone incominciò».
Davanti a questo personalissimo palo, sento di dovermi fermare. Aldo Nove ha tutto il diritto di emozionarsi per Ti amo, Lady Barbara o Eternità, e io devo rispettare i suoi sentimenti. Sarebbe bello, però, se il riguardo fosse ricambiato. Bigazzi avrà anche venduto (come si legge in quarta di copertina) 200 milioni di dischi, ma quando si dice che le sue canzoni «hanno segnato i nostri sogni, le nostre speranze, le nostre gioie e le nostre insicurezze nel corso degli ultimi cinquant’anni» (corsivo mio), quando si afferma – con ossessiva insistenza – che le emozioni che trasmettono sono «di tutti», mi piacerebbe si precisasse che in quella unanime tribù alcuni cittadini italiani (tra cui il sottoscritto) hanno ancora il diritto di non essere annoverati.
Quando (su «tuttoLibri» della «Stampa», mi pare) ho trovato una pagina dedicata a La canzone italiana 1861-2011. Storie e testi (Mondadori, 2011), a cura di Leonardo Colombati, sono rimasto davvero impressionato. I libri sulla canzone non sono certo una rarità in Italia, e anzi negli ultimi anni si sono notevolmente moltiplicati, ma un’antologia di quasi tremila pagine pubblicata da uno dei più importanti editori non può lasciare indifferenti. Il nome del curatore, d’altra parte, mi creava un lieve imbarazzo. Possibile – mi chiedevo – che uno capace di mettere in piedi un tale monumento critico mi sia del tutto ignoto? Sono quarant’anni che mi occupo di canzoni, e non l’ho mai sentito nominare. Non mi restava che cercare sul web. Una voce di Wikipedia mi ha prontamente informato che Colombati è «uno scrittore e giornalista italiano nato a Roma nel 1970». Oltre a diversi romanzi, ha pubblicato una monografia su Bruce Springsteen (che evidentemente mi era sfuggita) e infine la monumentale antologia in questione. La mia ignoranza sulla sua attività di ricerca (che del resto è reciproca, come desumo dalla bibliografia) dice forse qualcosa sulla particolarità degli studi italiani intorno alla popular music. In altri paesi (penso soprattutto all’Inghilterra e agli Stati Uniti) gli studiosi che si occupano di musica pop – sociologi, storici della musica, musicologi – non solo si conoscono, ma sono spesso in contatto diretto, si confrontano, si consultano, collaborano. Il rigore metodologico con cui indagano la produzione popolare è lo stesso che viene applicato alle opere di massimo prestigio; i loro studi sono da tempo equiparabili – sul piano scientifico – a quelli delle principali discipline umanistiche. Anche nel nostro paese linguisti, sociologi, storici e critici letterari si sono dedicati occasionalmente allo studio delle canzoni, ma la maggioranza dei libri in circolazione è scritta da giornalisti, studenti, fan più o meno agguerriti, outsiders di varia estrazione, oppure – come nel caso di Aldo Nove e di Colombati – narratori prestati alla critica musicale. Intendiamoci: il fatto di non possedere competenze specifiche non vieta a nessuno di esprimersi pubblicamente sul cantautore preferito. Il problema nasce quando – come nel caso in questione – lo scritto assume il carattere di uno studio storico di notevoli proporzioni. Un critico letterario che si accingesse a redigere un’antologia poetica di questa portata andrebbe consapevolmente incontro a una serie di scelte metodologiche complesse e impegnative, che si darebbe poi cura di motivare; nella sua introduzione, Colombati serenamente dichiara: «Qualsiasi canone è arbitrario. Questa antologia della canzone italiana degli ultimi centocinquant’anni lo è al sommo grado: sono io, infatti, il responsabile della scelta dei 1.142 testi che la compongono; mi sono arrogato il diritto di operare scansioni per generi, temi, epoche storiche; ho utilizzato una bilancia del tutto personale per soppesare l’importanza di un interprete o di un autore […] ho perpetrato esclusioni clamorose e mi sono macchiato di inclusioni discutibili; e tutto questo da perfetto amateur […]».
La definizione che Colombati dà di sé, amateur (dilettante, in italiano), si attaglia a gran parte degli autori dei libri sulla canzone che circolano in Italia. Dilettante è qualcuno che si diletta di svolgere una certa attività nel tempo libero, senza prenderla troppo sul serio e senza confrontarsi con gli standard dei «professionisti». In un altro paese, la qualifica – applicata al curatore di un’opera di questo rilievo – suonerebbe offensiva; in Italia non suscita alcuno scalpore. Se la canzone è fatta per dilettare, chi meglio di un dilettante potrebbe parlarne?
L’idea che si ha da noi della ricerca in questo ambito è testimoniata anche dall’assenza, nell’antologia, di testi famosissimi come Emozioni (Mogol-Battisti) o Azzurro (di Paolo Conte, cantata da Celentano). A essere responsabile di queste lacune non è il curatore, che le attribuisce, in una nota, alla «indisponibilità di alcuni editori a concedere l’autorizzazione alla pubblicazione». Il fatto che un editore musicale non sia capace di valutare la differenza tra la pubblicazione di un testo nell’ambito di un lavoro scientifico (o informativo, diciamo) e il suo sfruttamento commerciale mi sembra sintomatico della considerazione in cui è tenuta la canzone in Italia. Da un lato la si tratta (anche molto grettamente) come un prodotto puramente commerciale, dall’altro si continua a reclamare la sua legittimazione artistica, a sbandierarne il valore storico e culturale. Anche Colombati, puntualmente, si premura di «nobilitare» l’oggetto del suo lavoro citando qua e là Aristotele e Robert Frost, Manzoni e Croce; anche lui ci ricorda – come di rito – che la poesia in origine era accompagnata dalla musica (ergo, un testo cantato sarebbe più autenticamente poetico) e arriva a lamentare «come la nostra scuola abbia sempre seguito un approccio contenutistico nell’insegnare la poesia, dimenticando quasi del tutto di mettere in rilievo il suono dei versi, l’aspetto formale (metro, ritmo) del testo poetico» (basta dare un’occhiata ai manuali di letteratura in uso nelle scuole italiane per constatare che questo non è vero; ma pazienza). Un altro tòpos canzonaro è l’invettiva contro i poeti; qui, il nostro amateur supera tutti i suoi predecessori. I poeti denuncia – non sanno comunicare, non sanno stare davanti a una telecamera. Perché? Perché i loro corpi sono stati «mortificati dall’esercizio della poesia (ore e ore chini su un foglio, con relativa insorgenza di occhiaie, pinguedine e reumatismi provocati dai difetti di postura)». «Tutti i poeti – ci informa più avanti – parlano strano, hanno evidenti difetti di pronuncia». Viene da chiedersi se qualcuno, alla Mondadori, abbia letto queste singolari esternazioni. Probabilmente no; ed ecco un altro segno della considerazione in cui viene tenuta da noi la ricerca sulla canzone.
L’intento dichiarato dell’antologia mondadoriana è quello di «riscattare quella che ci si ostina a chiamare “musica leggera” dall’approssimazione critica». A questo proposito, in una nota del curatore in merito ai testi antologizzati, si legge che «la punteggiatura normalmente è bandita dai testi delle canzoni riprodotti nei libretti dei dischi e nei fogli depositati presso la SIAE e gli editori. E una convenzione universale e non ha motivazioni letterarie e stilistiche […] ma solo quelle derivanti dalla sciatteria, dalla pigrizia e dall’ignoranza». In effetti, la correttezza filologica degli studi sulla canzone è messa in seria difficoltà dai vizi di cui parla Colombati (anche se le sue affermazioni iniziali risultano un po’ troppo perentorie); la soluzione scelta tuttavia, quella di inventare di sana pianta la punteggiatura dei testi antologizzati, mi sembra molto discutibile. Mi si conceda qui un riferimento personale, che può forse servire a mettere a fuoco il problema: al testo di una vecchia canzone del sottoscritto, Stalingrado, che sulla busta interna del disco (Un biglietto del tram, 1975) e nelle successive riedizioni in cd è riportato con tanto di virgole, è stato arbitrariamente aggiunto, nell’antologia, un punto esclamativo che nell’originale non c’era. Capisco che l’enfasi retorica dei versi abbia potuto spingere a questa scelta, ma in un’antologia letteraria quale curatore si sognerebbe di cambiare la punteggiatura stabilita dal curato, insomma da quello che – con termine forse obsoleto – si chiama autore?
Il 14 gennaio 2012, «la Repubblica» dedica una pagina all’atteso cd dei ricongiunti Litfiba, Grande nazione (Sony Music, 2012). L’intervista, a cura di Ernesto Assante, è corredata – oltre che da foto di Renzulli e Pelù – da estratti di alcuni testi delle canzoni. Leggendo quello del pezzo che dà il titolo al disco, così come riprodotto nel riquadro, mi colpisce l’incongruenza metrica:
 
Italiani! italiani! italiani!
se siamo poeti, santi ed inventori non impariamo niente
dalla nostra storia se Roma
è ladrona e Milano fa la padrona l’Italia si desta con un cerchio alla testa siamo una
grande nazione
 
Altro che rock: questi versi hanno il ritmo di un balbuziente col singhiozzo. Raramente, nella storia della canzone italiana, si erano visti tanti enjambements, e tanto insensati. In assenza di punteggiatura – con l’eccezione dei punti esclamativi all’inizio – la sintassi risulta fastidiosamente ambigua (si vedano in particolare gli ultimi tre versi). Le rime sembrano messe giù a casaccio: più che aiutare il ritmo, lo intralciano. Mi chiedo come faranno i Litfiba a cantare questa roba. Compro il disco, e vado innanzitutto a vedere come è stampato questo testo nel libretto interno. Eccolo:
Italiani! italiani! italiani! . se siamo poeti, santi ed inventori. non impariamo niente dalla nostra storia . se Roma è ladrona e Milano fa la padrona . l’Italia si desta con un cerchio alla testa . siamo una grande nazione.
Ah, ecco. Proprio come pensavo. Anche se i versi sono stampati di seguito, e separati solo da un puntino, ora si comincia a capire come va intesa la scansione metrica. Di enjambements non c’è traccia, le rime sono tornate al loro posto, e fanno il loro dovere. A questo punto ascolto il pezzo: tutto funziona; le asimmetrie tra i lunghi versi della strofa (senario + senario, settenario + senario, senario + novenario ecc.) si riaggiustano nell’esecuzione di Pelù (il ritornello, «siamo una grande nazione», suona «siamounàgran / denaziòne», ma a questi spostamenti di accento abbiamo fatto il callo). Il grafico che ha impaginato il riquadro sulla «Repubblica», evidentemente, non ha la minima idea di che cosa sia un verso, e se anche sa cos’è, non gli attribuisce alcuna importanza: hanno forse importanza i colori in un quadro? Come molti italiani, dev’essere convinto che in poesia si vada a capo un po’ come viene; figuriamoci poi se si tratta del testo di una canzone, per di più rock. Così, quello che ci presenta è un testo nel quale i «versi» (ridotti a righe) si formano a partire da esigenze tipografiche, e la distinzione tra strofa e ritornello è del tutto assente. Poco male, si dirà. Il fatto è che i testi si presentano in questo modo casuale e inaffidabile anche a chi le canzoni le studia. Le trascrizioni oltretutto – anche quelle curate dall’autore – sono spesso incongruenti, metricamente, con le articolazioni ritmiche che si ascoltano nelle esecuzioni musicali. Stabilire filologicamente il testo di una canzone è complicato. A qualcuno il problema potrà sembrare pedantesco, puramente accademico; ma se non lo si affronta, sarà difficile assecondare la richiesta di legittimazione culturale della canzone: come si può prenderla sul serio, e studiarla con rigore, dal momento che essa stessa tratta e lascia trattare con tanta sciatteria le sue opere?
Febbraio 2012. I media annunciano che è stato composto il nuovo inno del Popolo della Libertà. L’autore è nientemeno che Silvio Berlusconi in persona. Che paese straordinario è il nostro. Ve la immaginate Angela Merkel che scrive l’inno della CDU? Non c’è che dire, siamo il paese della creatività, il Paese dei Cantautori, dove i leader politici strimpellano canzoni, i consoli italiani all’estero si esibiscono come frontmen di gruppi fascio-rock, attempati cantanti tengono interminabili comizi in tv, invitando alla chiusura dei giornali «che non parlano di Dio» (chissà se di qui a un anno questi riferimenti saranno ancora comprensibili al lettore). Alla notizia della creazione berlusconica ne è subito seguita un’altra, ancora più succulenta: J-Ax, già leader degli Articolo 31, accusa l’ex presidente del Consiglio di plagio: avrebbe copiato il testo dell’inno da una sua canzone del 2002, Gente che spera. Eccone alcuni versi:
«Noi, gente che spera / cercando qualcosa di più / in fondo alla sera / Noi, gente che passa e che va, / cercando la felicità / sopra sta terra» (si osservi la rima spera/sera/tèra, che sembra inventata da Corrado Guzzanti). Ed ecco il testo del nuovo inno del PdL: «Noi siamo il popolo della libertà, / gente che ama la luce, / che non prova invidia e odiare non sa. / Gente che non ha rancore / e ha come valore la sua libertà / e porta insieme una bandiera nuova, / che non si arrende e non si arrenderà, / che lotta per la verità».
Giudicate voi. A me pare che, più che J-Ax, sarebbero gli eredi di George Orwell a dover denunciare l’ex premier per plagio. Ricordate il «Ministero della Verità» di 1984, dove si falsificava sistematicamente la Storia? Da dove, se non dalla orwelliana «neolingua», ha tratto ispirazione il Cavaliere per trovare il nome genialmente antifrastico del suo partito-azienda?